10.1 - Sul (non) perdono

*


          Gemma lo ha fatto mettere nella lista dei "clienti contestabili"*.

Lo scopre per bocca di Mamma Clara, non appena poggia i gomiti sul bancone d'ingresso, e, se non può certo darle torto, è quantomeno sorpreso. Molte ragazze soprassiedono sui comportamenti poco corretti dei clienti per non alienarseli, ma è chiaro che lei sia d'un altro avviso. O, magari, non lo ritiene un violento. Almeno quello.

«Quindi, non mi è più consentito andare con lei?»

«Se lei vi contesta, no. Anche se spero non lo faccia,» replica Mamma Clara con uno sguardo venale alle marchette. «State solo accorto a ciò che fate. Al terzo richiamo, vi faccio segnare in guardiola negli indesiderati.»

«Non ve ne sarà bisogno.» Scaccia via una mezza risata secca. «Vorrei sapere se siete così severa pure coi bravi camerata che ci lasciano i lividi, alle ragazze.»

«Voi pensate a curarli, i lividi,» lo rimbecca lei, ora scura in volto. «Qua ognuno pensa alla fatica sua.» Quasi gli strappa le lire di mano e gli piazza il gettone sul banco con uno schiocco metallico. «Mo andate, sta di sopra. Camera cinque. Ma non aspettatevi che sia una Pasqua a rivedervi e non provate a far macello se vi mette alla porta, o chiamo la guardia.»

«Non vi date pensiero; non sono un animale.» Lo dice, ma bestia si sente, a tornar là dopo quello che ha fatto. «A dopo.»

«Marisa c'è, oggi,» butta lì Mamma Clara, arrestando il suo moto verso le scale. «È occupata, ma si libera tra un quarto d'ora.»

«Ho già scelto, grazie.»

Fa per andare, quando la donna si lascia scappare una risatina di contralto, scuotendo la testa.

«Tenete 'a neva 'int' 'a sacca*, dotto'?»

«E voi tenete 'e recchie 'e pulicane*, madame,» si lancia lui da sopra la spalla, a voce alta.

E Bruno lo sente, sia il risolino di qualche ragazza nel salottino accanto, sia, urlato dallo scattare in alto delle sue sopracciglia arcuate, quel mo so' fatti vostri che Mamma Clara non pronuncia.

Aprire la porta della camera cinque si dimostra molto più complicato che bussare a quella di Ricciardi. Ecco, forse non dovrebbe pensare a Ricciardi, adesso.

Sia perché non ha intenzione di farsi saltare in capa altre associazioni nefaste quando vedrà Gemma, sia perché le parole taglienti che lui gli ha rivolto gli rimbombano ancora nel petto. Lì al bordello ci sarebbe venuto pure senza la sua lavata di capo, ma di certo ha accelerato i tempi.

Flette le dita della sinistra, alle quali è appigliato il manico della borsa medica. Questa sobbalza un poco al movimento, facendo tintinnare un coro di flaconcini in vetro e di metallo. Se lo pizzicano con quella roba addosso, può dichiararsi finito come medico.

Batte infine le nocche contro la porta, ricevendo quasi subito un "avanti" flautato che gli aggroviglia lo stomaco per tutti i motivi più sbagliati. Entra forse troppo brusco, spinto da un'agitazione che non sente propria – non è mai agitato, lui, semmai è euforico – e che non gli riesce di celare al meglio.

Gemma, seduta ai piedi del letto, trasalisce appena – e poi Bruno si congela sulla soglia, le gambe intirizzite e immerse in un pantano fetido.

Perché negli occhi della donna, gli stessi occhi nitidi e fermi che ha ammirato ieri e in cui s'è voluto perdere, scordandosi di non essere bestia, ma uomo, appare subitanea la scintilla della paura non appena lo riconosce.

Si aspetterebbe un insulto o di essere cacciato via; invece, Gemma sembra paralizzata quanto lui, con gli arti rigidi, la mascella compressa e le unghie smaltate che torcono il lenzuolo e affondano nel materasso. Istinto di fuga e di attacco si contorcono sul suo volto, negli occhi sbarrati.

Bruno si rende conto solo in quel momento che, per lei, l'unico motivo per cui avrebbe motivo di tornare lì è per vendicarsi del richiamo – un principio di nausea si fa strada in lui a quel pensiero.

Non dice niente, ma abbassa lo sguardo, senza far gesto di volersi avvicinare. Chiude la porta dietro di sé e posa la borsa sul comò nel piccolo andito. Gli è capitato di rado, in vita sua, ma non sa cosa dire. E sente le pupille di Gemma piantate addosso come chiodi incandescenti.

«Ho ordinato un caffè in camera,» annuncia infine, sulla strada della noncuranza. «Per due, casomai andasse pure a te.»

«Tenete genio di fare lo spiritoso?»

Gemma si riscuote, con voce stridula. Scatta in piedi e rimane lì, ferma, impalata sul posto. Lancia un'occhiata alla porta, dietro di lui – l'unica via di fuga. Bruno strizza le labbra sotto la barba e si appoggia al comò, in profondo disagio.

«Non sono qui per fare nulla di ciò che credi.» Fa una pausa e incrocia le braccia al petto. «Anche se non ti biasimo per averlo pensato.»

«E perché siete qui, allora?» sbotta lei, col corpo sottile che s'inalbera come il pennone di una nave in beccheggio. «Se è per porgermi le scuse vostre, potevate starvene a casa.»

«Non nego di volermi anche scusare, ma...»

«E vi scusate pure per la creatura che mi dovesse nascere in pancia?»

«...ma sono qui solo per sincerarmi che nulla sia accaduto.»

«E certo! M'immagino che avere un figlio da una puttana sarebbe nu grande scuorno pe' nu miedeco comm'a vuje.»

Bruno serra le mani sulle braccia, domando le maree d'irritazione che gli risalgono in corpo – le quieta, le rispedisce indietro a denti stretti. Se ha accettato di farsi redarguire da Ricciardi, dovrebbe accettare a maggior ragione di farsi redarguire da lei, anche se gli punge l'orgoglio, più che la coscienza – quella è già un puntaspilli per conto suo.

«Pensala come vuoi. Sono qui solo in veste di medico e nun me ne faccio di ciò che dice la gente di me.»

Gemma s'avvicina d'un passo, come acquistando confidenza a quel suo fare inoffensivo, ma mantiene comunque una distanza sufficiente a ritrarsi da qualunque percossa. Bruno serra più strette le mani sulle braccia. Se le vorrebbe staccare, così da non sembrarle più armato.

Lei storce un sorriso privo d'allegria e colmo d'acredine che le inonda la voce:

«Non vi date pena. Ho fatto già preparato l'infuso di prezzemolo.»

Bruno rialza il capo di scatto, mancando un respiro.

«L'hai bevuto?»

«No, ancora no, ma...»

«Per carità, no.» Si stacca dal comò e Gemma indietreggia di mezzo passo; Bruno inchioda sul posto. «Non quello, se proprio devi. Causa emorragie troppo gravi, rischi di avvelenarti o di morire dissanguata; ci sono decotti e metodi più sicuri.»

«Sicuro o meno, io tengo un ritardo.»

Bruno sente le sue parole abbattersi sui timpani come un maglio, ma si impone di essere medico, adesso, non uomo di merda che ha appena rovinato la vita a qualcuno – falcia via quella parte di sé dal cervello.

«Di quant'è il ritardo? È successo ieri l'altro: non può esser così grave.»

«Che ve ne frega, a voi?»

Bruno la ignora:

«Se non supera i cinque giorni almeno, aspetta ancora, prima di prendere un infuso abortivo. Potrebbe essere fisiologico o...»

«Mo vulete fa' 'o miedeco?»

Gemma si avvicina di un altro passo, ogni paura svanita dal volto duro.

«Vorrei, se tu me lo permettessi!» sbotta, sfociando per un istante in un'alterazione di voce che smorza immediatamente. «Ho po' d'estratto d'erba sabina con me, ma non–»

«Ah, quindi la fate spesso, 'sta bella cosa?»

«No, ma puoi pure pensarlo.» Si preme una mano sul volto, a sfregarsi la barba, il capo leggermente chino. «Basta che mi permetti di aiutarti.»

«Sapete cosa m'aiuterebbe assaje?»

Bruno alza il capo d'istinto – ha appena il tempo di ritrovarsi le sue iridi cerulee a un soffio, che il ceffone gli arriva in pieno viso. Lo schiocco arriva dopo, come un rombo di tuono.

«Ecco, mo sì che m'avete aiutato.»

Le trema la voce, però, nel parlare. Rimane lì piantata davanti a lui, la mano ancora sollevata, ma vede di nuovo il brillio frenetico della paura nei suoi occhi, come se si aspettasse una reazione eguale e contraria.

Lui si limita a massaggiarsi piano la guancia dolente con la punta delle dita. Ingolla qualsiasi parola, anche se gli si accapigliano in gola con l'impeto di chi alle percosse ha sempre reagito a gran voce*.

Non ora, però. Ora, raccoglie lo schiaffo nel palmo della mano e lo preme lì, contro la guancia, come a farselo entrare sottopelle.

«Se volete segnalarmi a Mamma Clara, fate pure. Così andiamo pari.»

«Non faccio proprio niente,» replica lui, di nuovo a bassa voce; lascia scivolar via la mano, con lo zigomo che pulsa. «Ora, per piacere, dammi retta almeno come medico. Se prendi uno di quegli intrugli, rischi di morire dissanguata o di avvelenarti. E qualunque altro metodo più tardivo ti metterebbe in pericolo di vita, se ci provi da sola. Lo capisci?»

«Io capisco solo che è colpa vostra.»

«Lo so. Odiami pure, me ne frego e me lo merito, ma ora ti parlo da uomo, da medico e da essere umano: io ho visto cosa succede alle disgraziate che provano ad abortire e non ho nessuna intenzione di vederlo accadere di nuovo, tanto meno a te e per colpa mia.»

Gemma lo guarda fisso per un intero secondo, le braccia strette a coprire il seno, la bocca sottile storta a metà tra la sfida e l'ira.

«L'avevate messa incinta voi, a Marisa?» l'occhiata che gli scocca si infigge nel suo sterno. «Per questo l'avete aiutata?»

Bruno, a quella domanda imprevista, si ritrova ad annaspare per un istante – ed è conscio di quanto colpevole debba sembrare quella reazione.

«No,» si affretta a dire, «non l'avevo mai neanche vista prima.»

«E perché l'avete aiutata, allora?»

«Perché sono un medico, Gemma.» Nell'udire quel nome, lei distoglie lo sguardo. «Io le curo, le persone. Anche e soprattutto quando le ferisco di mano mia.»

Gemma lo fissa ancora, le pupille due spade conficcate nei suoi.

«Quando ho parlato male di voi, ieri, Marisa pareva ca vuless cavamm l'uocchi

E, sentenziato ciò, si siede di nuovo sul letto, con un lieve tremito nelle gambe e i palmi piantati dietro di sé a sostenersi. Lo sguardo fisso a terra, sul pavimento a veneziana.

Bruno non sa come replicare, a quell'improvvisa tregua. Inspira a fondo, però, e si ritrova in testa le parole di Ricciardi. Aguzze, puntute quanto quelle di Gemma – e stavolta gli torce lo stomaco, sovrapporli sotto quel punto di vista. Sa quello che deve fare.

Getta fuori il fiato, e dappresso le parole:

«Se davvero succede qualcosa... se davvero sei rimasta incinta, mi dirai che cosa vuoi fare. Ma, in qualunque caso, me ne faccio carico io. Di tutto.»

Gemma rialza di scatto la testa. Con un gesto assente, si risistema le ciocche corvine dietro l'orecchio, scivolatele dinanzi al volto.

«In che senso, che cosa voglio fare?»

«Dovrai pur decidere se tenere la creatura o no.»

Lei sbatte gli occhi, come trasognata. Come se il fatto di poter scegliere non le fosse mai neanche passato per la testa.

«Io... non lo so.»

«Non me lo devi dire adesso; non sai nemmeno se sei incinta, ancora. Però, sappi che preferisco tirar su una creatura che rovinare la vita a te. O toglierti quel fardello, se è ciò che preferisci. Riflettici, per piacere, e riflettici buono

Attende qualche istante, in cui Gemma continua semplicemente a fissarlo, prima di decidersi a prendere commiato. Se davvero deve rifletterci, non può certo farlo con lui a scrutinarla.

«Tornerò domani, o dopodomani, o il domani l'altro ancora, finché non mi dirai cosa vuoi fare,» e muove un passo verso la porta, calcandosi il cappello in testa come a tenervi dentro i pensieri.

«Dottore.»

Bruno la fissa interrogativo, già sfiorando la maniglia della porta – ha già deciso? Lei scrolla le spalle, come intuendo la sua domanda, e gli fa cenno di tornare indietro.

«L'ora l'avete pagata, tanto vale che rimanete.» Sospira piano: sembra stanca, ma non più furiosa. Rassegnata, forse. «Mi fate solo danno, se ve ne andate prima.»

In quel mentre, bussano alla porta per il servizio in camera – e mai Bruno è stato più grato al caffè d'esistere, visto che lo toglie dall'imbarazzo di dover replicare in maniera sensata. La cameriera lascia il vassoio sul comò e si affretta a lasciarli di nuovo soli.

L'aroma avvolgente della bevanda si spande nello spazio ristretto, come una mano calda che offre un poco di conforto. Bruno, senza sapere dove mettere le sue, di mani, le pianta infine sulla cuccumella per versarsi una tazzina fumante.

«Te lo prendi, chist' caffè, o me lo devo bere da solo?»

Gemma esita, come se nemmeno avesse capito la domanda. Bruno si chiede se ne abbia mai bevuto, in vita sua, o se abbia semplicemente osservato i suoi clienti berlo di fronte a lei prima o dopo esserci andati a letto. Poi, inclina un solo lato della bocca verso l'alto; non è un sorriso rivolto a lui, immagina, ma piuttosto al caffè – e, però, qualcosa dovrà pur contare.

«Puchillo puchillo e co''na cuofana 'e zucchero

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
passo qui in volata unicamente per dirvi di POSARE I FORCONI. Questo è idealmente un doppio capitolo e il seguito arriva prima di subito, quindi prima di giudicare in toto le reazioni di Gemma aspettate di leggerlo :')

Come sempre, non giustifico alcun pensiero né gesto violento, da ambo le parti.

E fatemi sapere che ne pensate, di questo caffè: giuro che non è messo a caso e un significato simbolico ce l'ha ♥

A prestissimo, in serata, e grazie a tutti voi che leggete e commentate sempre!

-Light-

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