1.2 - Sui difetti dell'esser molesti
*
«Mi devi un pranzo, Ricciardi,» intima Bruno a mo' di saluto, non appena si fa largo tra gli agenti e varca la soglia della farmacia.
«Che mi dici sul delitto?»
Bruno si toglie gli occhiali da sole e tira una lunga boccata di sigaro a quell'accoglienza. Ricciardi lo attende con le mani nelle tasche dei calzoni e gli occhi rivolti sulla scena, infilato in un completo antracite – gli vien caldo solo a pensare d'indossare una cravatta con quell'afa.
«"Buongiorno, dottor Modo; scusa se t'ho disturbato all'ora in cui tutti i bravi cristiani si siedono a tavola, mi farò perdonare". Non t'hanno insegnato le buone maniere, barone?»
Ricciardi non smuove un muscolo, se non quelli necessari ad accennare col mento al cadavere riverso ai loro piedi, sul pavimento in piastrelle.
«La vittima. Che ne pensi?»
«Che ne penso? Penso che ha avuto un pessimo tempismo a farsi accoppare adesso.» Col sigaro cacciato tra i denti, s'avvicina d'un passo all'uomo, supino con un'aureola di sangue, materia cerebrale e frammenti ossei attorno al capo. Chiazze d'un rosso vivo spiccano sul camice bianco. «Fammi dare un'occhiata, va'. Anche se qui c'è poco da vedere... Maronna benedetta, che sfacelo.»
«Pare abbia usato una lupara,» interviene il brigadiere Maione, che sbuca in quel mentre dal retrobottega, dietro al bancone. Sembra un poco in difficoltà a muoversi nello spazio ristretto per via della stazza. «Buongiorno, dottore.»
«A voi, brigadiere; almeno voi sapete ancora salutare come si conviene, al contrario del nostro commissario e di chi ci governa.»
Sogghigna all'occhiata di rimprovero di Maione e non si sorprende del mancato ammonimento di Ricciardi. Come sempre, quando sono sulla scena del delitto, pare assente e perso nei suoi pensieri. Dal modo in cui si massaggia la tempia con le dita, di tanto in tanto, deduce che abbia un'emicrania piuttosto intensa – e pure di quello non si sorprende. S'è ormai convinto che sia emofobico, ma è uno dei pochi argomenti su cui non l'ha mai stuzzicato.
Riporta lo sguardo al cadavere, il cui volto maciullato dai pallettoni non lascia intravedere alcun lineamento; anche i bulbi oculari sono sfracellati. Si cava di tasca un fazzoletto impregnato di profumo e se lo preme sul naso nel chinarsi a esaminare il corpo, che inizia già a emanare un olezzo sgradevole nell'intensa afa estiva.
Preme due dita su una chiazza pulita del collo: è tiepido, ma con quel caldo è difficile a dirsi; gli arti, però, sono ancora molli. Presume che l'ora del delitto sarà semplice da stimare in base a quando il quartiere ha udito gli spari.
«Che vuoi che ti dica, Riccia'?» chiede dopo qualche minuto d'esame, scostando con uno scatto del capo i ricci dagli occhi. «La causa di morte mi pare evidente, almeno a prima vista. Direi almeno tre, quattro colpi, esplosi forse a bruciapelo...» scansa per un attimo il fazzoletto e inspira seccamente; sotto il lezzo di sangue e fluidi corporei rilasciati post mortem, coglie una nota familiare. «C'è puzza di capelli bruciati, mi pare. E, dal poco che vedo, ci sono delle ustioni da polvere da sparo su... beh, su quel che rimane del volto, ma così su due piedi non so dirti con certezza. Non vedo segni di lotta o lesioni sul resto del corpo, ma non mi metto a sporcarmi le mani qua: dovrò eseguire la necroscopia per accertarmene. Tu hai già qualche idea?»
«Se gli han sparato da vicino, o l'hanno colto di sorpresa o conosceva l'assassino, mi vien da pensare.»
«Possibile. Avete analizzato le orme?» fa cenno verso le chiazze di sangue sparso qua e là da molteplici suole di scarpe.
«Sono confuse, diverse persone sono accorse agli spari.» Ricciardi scuote la testa. «C'è da dire che la vittima non è dietro il bancone del negozio, ma non c'è alcun segno che suggerisca uno spostamento del corpo né tracce di sangue altrove, se non qua.»
«Si è fatto incontro all'assassino.»
Bruno fissa di sbieco il cadavere e poi l'ambiente circostante. Lo sparpagliamento di materiale organico unicamente attorno al cranio e i danni al pavimento maiolicato suggeriscono che fosse supino, quando gli hanno sparato. Ricciardi lo riscuote, ragionando tra sé:
«Potrebbe non essere stato un semplice cliente o presunto tale.»
«Non lo so, Riccia', ma, per ammazzare così un poveraccio, devi avere un buon motivo oppure tenerlo in odio assai.»
Bruno fa per rialzarsi, quando Ricciardi si china sui talloni accanto a lui, con una mano a coprire naso e bocca. È cosa insolita, dacché preferisce mantenere una certa distanza dal corpo. Ora, invece, scruta da vicino la massa sanguinolenta che un tempo era un volto umano, come a volervi riconoscere qualcuno.
Si poi rialza rapido, in un sol respiro, come se fosse giunto a chissà quale conclusione.
«Raffaele, verifica se ci sono ammanchi di cassa.»
Un tintinnare di metallo e monetine segue quell'ordine.
«La cassa è aperta, ma i soldi ci sono ancora,» risponde il brigadiere, da dietro il banco. «Magari non hanno fatto in tempo a rubarli, presi dal panico.»
Ricciardi lancia un'altra occhiata al corpo, rialza lo sguardo e lo mantiene per una frazione di secondo nel vuoto, quasi inseguendo pensieri tutti suoi. Risponde senza perdere un battito:
«Allora, controlla il resoconto di iersera e verifica se manca solo una parte dell'incasso.»
Bruno inclina la testa, a quella richiesta così specifica. Anche Maione alza le sopracciglia, interdetto; poi scrolla le spalle con un "sì, commissario" bofonchiato e si adopera a scartabellare tra le scartoffie.
Ricciardi di rado sbaglia nelle sue intuizioni. Ciò non toglie che, alle volte, vi sia un che di irreale nel modo in cui riesce a ricollegare dettagli e minuzie che paiono invisibili a tutti gli altri.
Bruno gli si accosta e non gli non sfugge una sua lieve smorfia, quando uno spiffero porta loro una zaffata di sangue e umori. Gli scappa una sorriso fuori luogo.
«Serve un goccio di profumo pure a te?»
Gli sventola il fazzoletto sotto il naso e lui lo arriccia, infastidito. Gli scansa la mano con poco garbo, ma fa un passo verso l'uscita e l'aria fresca, sostando poi sulla soglia. Bruno lo raggiunge e si addossa con una spalla allo stipite opposto. Osserva la sua espressione corrucciata.
«Cosa non ti torna, stavolta?»
«Niente è solo che...» Ricciardi fissa il cadavere, la stanza; si umetta le labbra, per poi rivolgersi di nuovo a lui: «Siamo sicuri che sia il farmacista? Non ha un volto riconoscibile: potrebbe essere chiunque, a dispetto dei vestiti.»
Bruno alza appena le spalle.
«Il camice potrebbero averglielo messo, sì. Prima di ucciderlo, a giudicare dall'assenza di macchie di sangue sulla schiena. Perché prendersi il disturbo, però?»
«Del perché ci occuperemo dopo. Intanto, puoi capire dalla necroscopia e dalle foto di Emilio Battaglia se è proprio lui?»
«Posso provarci. È complesso, ma posso provarci. Non penso abbia impronte digitali schedate, ma dalle impronte dentali... sempre che gli sia rimasto qualcosa. Se recuperi delle foto dalla famiglia...»
«Sto andando a interrogarli, ti faccio arrivare tutto in ospedale appena possibile, incluso un familiare per il riconoscimento; magari potrà toglierti qualche dubbio. Tu lavoraci su e fammi sapere, d'accordo?»
«Ci lavorerò su per tutto il giorno e tutta la sera, tranquillo... non ti bastava rovinarmi il pranzo, eh?»
Ricciardi sembra sul punto di seccarsi e rimbrottarlo, come da prassi; solo che s'interrompe a metà, richiude la bocca e scuote la testa quasi volesse scacciare un pensiero. Nell'ultimo anno di conoscenza più affiatata, quella particolare sequenza di gesti s'è ripetuta spesso. E, quelle rare volte che Ricciardi s'è deciso a esprimersi, lo spiazza sempre a tal punto da farlo trasecolare.
È quello che fa dopo poco, mentre sono avviati a piedi verso la Questura.
«Se ti va, visto che t'ho rovinato il pranzo, mi faccio perdonare con la cena.»
Bruno rallenta il passo, certo che Camarda, prima, gli abbia davvero sfasato qualcosa nei timpani. Spinge gli occhiali da sole verso il basso, oltre la gobbetta del naso, così da squadrarlo senza il filtro delle lenti.
«Ho sentito bene? Vorresti offrirmi una cena?»
«Sì. Per il disturbo.»
A Bruno sfugge un soffio di risata, a quella composta serietà in una proposta tanto semplice, che dipinge subito un'ombra sul volto di Ricciardi. S'affretta quindi a ritrattare:
«Non fraintendere... è che non è proprio una cosa da te. Di solito, sono io che devo pregarti pure per prenderci un caffè dopo il lavoro e non farti andare dritto filato a casa.»
«Perché tu non devi sorbirti le paturnie del vicequestore Garzo ogni volta che esci dal tuo ufficio,» tende le labbra lui, a mezza via tra un sorrisetto e una smorfia incerta. «Comunque, non importa, se non–»
«Come se avessi accettato, Riccia', come se avessi accettato. E t'assicuro che accetterò presto... ma stasera mangio solo una cosa al volo, ché farò tardi in ospedale e dopo tengo un impegno.»
«Perché, dopo dove vai?»
«E dove vuoi che vado? A scialarmi a donne,» sorride Bruno dopo una pausa studiata, e gli rifila un colpetto sul gomito nel vedere l'imbarazzo salirgli rosso al volto. «Dovresti provarci pure tu, ogni tanto, sai?»
«Magari quando non avrò un caso d'omicidio tra capo e collo.»
«Allora è un "mai".»
«E che ci sarebbe di male, pure se fosse?»
A dispetto del tono leggero, Bruno coglie una nota piccata in quella risposta, che gli incupisce gli occhi chiari e spazza via il velo goliardico che li animava.
«Nulla, figurati. Ma, fidati, saresti un poco più allegro al mattino.»
«Modo.» Ricciardi lo tronca, di colpo torvo e con voce tagliente. «Non mi pare di criticarti perché vai al bordello, pure se dovresti essere sposato da un pezzo, e, francamente, poco me ne importa fintantoché ciò non interferisce col lavoro. È così difficile ricambiare la cortesia?»
Bruno rimane interdetto, come di rado gli accade. Non gli ha mai risposto così a malo modo e, nell'arco di quei pochi istanti, gli sale il sospetto che si sia solo trattenuto dal farlo finora. S'acciglia, altresì, a quel commento sul non essere sposato: non è da lui metter bocca nella vita altrui.
«Riccia', mo non prendertela a male. Lo dico anche per te; sia perché a distrarsi un po' non è mai morto nessuno, sia perché...» gesticola un po', distogliendo gli occhi.
«Perché cosa?»
Bruno sfugge il suo sguardo. Quello non è il tipo di argomento di cui si dovrebbe parlare a viso aperto.
«Lo sai, il perché. Sei solo, vai per i trenta... la gente chiacchiera. Tutto qua.»
Ricciardi, inaspettatamente, sorride appena, ma le linee del suo volto rimangono tese.
«La tassa sul celibato la paghi pure tu, mi pare, che di anni ne hai quaranta.» Inclina il capo di lato, con quell'aria che a volte lo fa assomigliare a un bambino dispettoso. «Solo che io la gente la lascio chiacchierare e non m'importa di zittirla facendo cose che non mi va di fare. Dovresti provarci anche tu, ogni tanto.»
Bruno registra in sordina quell'ultima parte, scegliendo di non soffermarvisi troppo – nemmeno a lui va di sposarsi, ma, presume, per motivi molto diversi da quelli che animano Ricciardi. Nel camminare, si scosta di mezzo passo da lui, sfruttando l'aggiramento di un lampione sul marciapiedi.
«Guarda che mica mi obbligano col fucile puntato ad andare al bordello,» risponde poi, forzando un sorriso. «Non ancora, almeno.»
«E nemmeno a me obbligano a non andarci. Tu che parli tanto di libertà, dovresti anche rispettarla.»
Fa una pausa che Bruno stavolta non spezza, perché si scaverebbe la fossa da solo. Lascia la parola ai loro passi e al mormorio delle strade fiaccato dall'afa. Si fermano davanti all'ingresso ad arco della Questura, dove Ricciardi rompe il silenzio come se nulla fosse mai accaduto, gli occhi un poco assottigliati:
«La cena te la offro quando chiudiamo il caso, allora. D'accordo?»
«Vabbuo', ti prendo in parola,» dice lui, senza guardarlo troppo negli occhi. «Mo fammi andare, però, ché s'è fatto tardi e ho appuntamento col nostro cadavere.»
Conscio del proprio fare un po' brusco, lo saluta con una pacca sul braccio che è anche una mezza offerta di pace – e un modo per scacciar via il discorso. Lui non sembra essersene avuto. Anzi, solleva le labbra in quel suo sorrisino da folletto, d'un tratto rinvigorito:
«Divertiti. All'altro appuntamento, intendo.»
«E tu riposati, se proprio non tieni genio di vivere,» rilancia Bruno, con una mezza risata che di scherno non vuole aver nulla, così come l'alzata d'occhi al cielo che la ricambia.
Bruno s'accende un sigaro strada facendo – cosa che ha evitato finora, sapendo quanto il fumo stuzzichi le emicranie del collega – un poco meditabondo circa la loro discussione, di cui un po' si dispiace.
Non sa bene cosa leggerci, tra le righe di ciò che ha detto Ricciardi, ma il poco che scorge lo mette in allarme. Ha sempre pensato che l'evitare il bordello fosse per una sua sorta di pudore o per via dell'educazione rigida che deve aver ricevuto in quanto nobile; o gli era venuto da credere che fosse per un certo riserbo verso di lui, un uomo più vecchio che ne era assiduo frequentatore. Quel di cui è certo, da poco credente quale si dimostra Ricciardi, è che ciò non sia legato a una bigotta idea di castità prima del matrimonio.
Non che Bruno non si sia mai interrogato su altre ipotesi, anzi: vedere un ventinovenne ancora scapolo che manco s'impegna a cercar moglie ha dell'assurdo e porta a facili conclusioni su dove gli piaccia puntare gli occhi.
È d'altronde certo di non averlo mai visto accompagnato da altri uomini, né è incorso mai in atteggiamenti sconvenienti con chicchessia, lui incluso – anzi, sembra mal tollerare qualunque contatto fisico e, sotto quel punto di vista, è lui che dovrebbe darsi una calmata per non incorrere in fraintendimenti, ché ai fasci piace fraintendere spesso e volentieri.
Non direbbe che l'atteggiamento deviato del suo collega lo disturbi... magari non ha davvero gusti così discutibili, ma non può certo giudicar sano l'evitare qualsivoglia rapporto, sentimentale o meno, con le donne. Però è affar suo, dopotutto, se vuol chiavare o sposarsi o rimaner scapolo a vita; ed è compito suo, da amico e per giunta medico, consigliargli ciò che gli farebbe bene – ovvero, un po' di compagnia, pure se a Ricciardi, più d'ogni altra cosa, gioverebbe starsene un po' al sole e all'aria aperta.
Non lo disturba, non più di quanto lo disturbi parlare con un femminiello o sapere che a tal de tali piace sollazzarsi arretro – e chi se ne frega, aggiunge, finché non gli tocca assistere.
Si irrigidisce, distolto di scatto dai suoi pensieri, quando sull'altro lato di Via Medina passa un gruppo di giovani camicie nere alla testa di una piccola truppa di Balilla festanti. S'impegna a non accelerare il passo e a tenere il capo un poco rivolto verso i muri dei palazzi, ma li segue con la coda dell'occhio finché non si fermano proprio dinanzi alla Questura. Varcano l'arco d'ingresso, forse per qualche intento istruttivo verso i giovani fascisti.
Bruno si volta, il sigaro che gli ruota tra le dita in giravolte nervose, ma si obbliga a non fermarsi e a non tornare indietro.
Nulla di quanto tiene genio di fare Ricciardi lo disturba, no. Ma lo preoccupa, quello sì. E nemmeno poco.
Note dell'Autrice:
Cari Lettori,
oggi doppio capitolo, perché tutto insieme era troppo lungo e perché nella mia testa aveva questa divisione logica.
Che dire, io la parte gialla non la volevo inserire, ma OPS farà comunque da sfondo alle vicende. Non sarà niente di troppo complicato, ma suvvia, fa colore.
Ora, chi ne ha parlato con me sa che ho definito Bruno un deficiente, in questa storia. Credo che voi stiate iniziando a capire il perché, ecco. Ovviamente, tutti i suoi pensieri sono il linea con l'epoca e, ok, non è esattamente omofobo, però non è nemmeno questo grande ally o campione d'apertura mentale. E penso che nel prossimo capitolo potrebbe andarvi direttamente di traverso, ma per altri motivi ♥
Bruno, da scrivere, è un calvario. Ma io mi sto divertendo tantissimo e spero anche voi!
Grazie a chi ha letto fin qui, e alla prossima... prestissimo!
-Light-
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