1.1 - Sui pregi dell'esser molesti


 Per proseguire con ordine come da intenti, occorre partire da un mese fa, prima della sovversione e dello sconvolgimento – o forse a sconvolgimento già subdolamente in atto.


*


          In linea del tutto generale, non è che a Bruno dispiaccia lavorare con Ricciardi.

Certo, tiene le sue spigolosità (e pure più d'una), le sue idiosincrasie (indecifrabili persino a occhi medici), il pessimo vizio di tormentarsi le mani quando è sotto pressione (a Bruno fa salire il nervoso) e i suoi lunghi silenzi che, a volte, vorrebbe fare a pezzi a mani nude.

Oltretutto, porta la cravatta così stretta che si chiede come faccia a respirare; ma, gli pare, più per decoro individuale che per aderire a una qualche norma non scritta, dacché schifa ogni sorta di cappello con un'avversione quasi patologica.

Ma, tutto sommato, lavorare assieme a lui è molto meglio che lavorare con qualsiasi altro borioso commissario o ispettore della Regia Polizia che sgalletta con un fascio littorio ficcato su per il deretano. Se Ricciardi ha un pregio, che è anche il suo più grosso difetto, è il non interessarsi di politica; e ciò permette a lui di dare aria a tutti gli insulti e commenti che si chiude dietro i denti in presenza d'altri.

E tanto basta, a lui, per sopportare tutto il resto di quello strambo barone improvvisatosi commissario che, in fin dei conti, il suo lavoro lo svolge pure egregiamente.

Dopo un paio d'anni di collaborazione, Bruno ha dovuto ammettere che tutto il resto non doveva nemmeno più sopportarlo (eccezion fatta per la cravatta, quella sì), soprattutto perché, ultimamente, aveva scoperto che Ricciardi non era poi così serioso come voleva dar a vedere.

Ha una maniera di pariare, quelle poche volte in cui lo fa, che gli strappa sempre un sorriso spontaneo, ché lo coglie sempre di sorpresa e non potrebbe trattenerlo nemmeno volendo. È pungente, alle volte quasi licenzioso; lo fa scialare assai, quando, tutto compunto com'è, si fa beffe di qualcuno senza che quello nemmeno se ne avveda.

Bruno ha ormai imparato a prevedere quando sta per scoccare una delle sue frecciatine dal modo in cui riduce un poco a fessura gli occhi chiari e inclina il capo da un lato, accentuando la piega all'insù delle labbra sottili e la singola fossetta che si rivela in quel momento.

Gli si dipinge in volto, insomma, un'espressione da spiritello dispettoso che mai si aspetterebbe di veder tendere le guance pallide del barone di Malomonte; e tanto più è alta la posizione di chi irride, tanto più gli si accende lo sguardo di malizia.

Ecco, a pensarci un poco meglio, lui con Ricciardi ci lavora volentieri assai.

Non fosse per quella sua piccola ma non trascurabile abilità; e gli verrebbe quasi da chiamarla "dono" o "talento", se solo non andasse a scapito suo.

Ovvero, il dono saperlo incomodare sempre, immancabilmente, nei momenti meno opportuni, quasi possegga una bussola interna che lo avvisi e indirizzi senza errore.

Quando stacca distrutto dal turno di notte, ad esempio; o quando è con un piede già oltre la soglia del bordello; o quando s'è appena coricato a metà pomeriggio per recuperare il sonno perso.

Quell'oggi non fa eccezione.

L'agente Camarda, povera anima poco sveglia incaricata delle incombenze più fastidiose e, al contempo, meno prone a crear danni, lo sorprende in trattoria, con una forchettata di scialatielli a mezza via tra piatto e bocca.

«Dottor Modo!»

Bruno rinuncia al boccone e si sfrega l'orecchio, certo di averci rimesso una tromba d'Eustachio.

«Eh, Camarda, ti sento, sto qua. Sordo non ci sono ancora diventato, pure se tu mi metti sulla buona strada.»

«Perdonatemi.»

L'agente, vivaddio, abbassa il volto e dappresso la voce, ridotta a un gracidio che ben s'abbina ai suoi tratti rassomiglianti una ranocchia sorpresa. L'attenzione degli avventori s'è già spostata su di loro sollevando qualche sghignazzo. È una scenetta che si ripete non di rado.

Bruno ha l'impressione che sia Tonino, l'oste, a passar parola agli scugnizzi di quartiere quando lui pranza o cena lì, così da renderlo rintracciabile a chi lo cerca e dar luogo a quella sorta di pantomima d'intrattenimento a beneficio dei suoi clienti.

«Vabbuò, Camarda...» Bruno si pulisce la bocca col tovagliolo, ma non si alza ancora, con  le vongole che lo fissano quasi risentite dal piatto. «Chi è che è morto, stavolta?»

«Un farmacista ai Tribunali, Emilio Battaglia*. Fattaccio brutto assai, credetemi.»

Un confabulare acceso segue quelle parole affatto discrete nel locale. Di certo, queste non son notizie che si stampano sui rotocalchi o che si vedono al Giornale Luce: la gente è affamata di banalità e umane grettezze*.

«Ci credo, ci credo...» Bruno tintinna piano la forchetta contro il bicchiere. «Ma, morto per morto, manco cinque minuti potete aspettare? Sta qua dietro, no?»

«Il commissario s'è già recato sul posto...»

«Per carità, allora andiamo. Sennò chi lo sente, a chill''ngrugnato. Toni'!» S'alza in piedi con un sospiro. «Mettimelo in conto, ché stasera ci riprovo, a mangiar qualcosa.»

La replica di Tonino, un uomo tarchiato, con più sorrisi che denti, è una grassa risata e un gesto a scacciar via quelle parole: Bruno dubita che gli farà pagare il piatto mancato, poiché, sulla soglia della trattoria, s'è già assembrato un capannello di curiosi attirati dalla divisa di Camarda; e si sa che la curiosità mette pure una certa fame.

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