72h alla Catastrofe
"Noi ci tocchiamo.
Con che cosa?
Con dei battiti d'ali.
Con le stesse lontananze,
ci tocchiamo."
(Rainer Maria Rilke)
II
Riavvolgiamo il nastro...
3 giorni prima
Quando una giornata è destinata ad andare male lo capisci subito.
Hai quel sentore sottile che ti si insinua come una patina tra le fessure del cranio, si acquatta tra i pensieri e finge di non disturbare, ma tu sai che c'è.
È solo... una sensazione: poggi i piedi in terra al mattino e sai già che ci sarà qualcosa che non andrà.
E così, io, lo percepivo.
Lo percepivo mentre in una pigrizia ancora invischiata di sonno guardavo le volute di vapore alzarsi dalla tazza di latte, mentre papà entrava in cucina a darmi un bacio sulla guancia e dire che quella sera faceva tardi, aveva il turno serale in centrale.
Lo percepivo nel sapore mesto dei biscotti che sentivo sulla lingua, che erano diversi dal solito anche se erano sempre gli stessi. Anche nei vestiti, lo percepivo, mentre meccanicamente li tiravo su per andare in università.
Uscii sotto un cielo plumbeo, quella mattina. Mi bastò un'occhiata per capire che sarebbe piovuto.
Conficcai con foga le mie cuffie nelle orecchie, le collegai all'MP3 usurato e fuori moda, il vetro incrinato che mi ostinavo a stringere tra le dita dopo tutti quegli anni. Più volte ero stata sul punto di buttarlo via. Poi me lo ero rimesso in tasca, insieme alla mia vigliaccheria.
Incastrai bene le cuffie per ammutolire il ronzio in testa, ma quello se ne fregò di me e della mia musica. Continuò a sfrigolare tra i pensieri, insistente.
Sono fatti così i presagi.
Si vestono di silenzio ma fanno un rumore cane, ti sbranano i pensieri perché sono egoisti, esibizionisti.
Cliccai sulla mia playlist "Raining Day" e partii a passo di marcia, la borsa caracollata e stretta contro il fianco, i miei ricci al vento come scarabocchi d'inchiostro.
Quando la prima goccia d'acqua mi punse il naso, sorrisi. Non presi l'ombrello.
In fondo mi piaceva.
~•~
«Sei umidiccia! E ti si sono afflosciati i capelli...»
Furono queste le prime parole che la mia migliore amica mi rivolse, la bocca storta in una smorfia di disappunto.
Mi aveva aspettato come tutte le mattine all'entrata dell'Università, sotto la volta di pietra per proteggersi da quella pioggerella innocua.
Mi porse un caffé, un sospiro arreso tra le labbra e gli occhi guardinghi ancora persi tra i miei capelli.
«Sembri un orso selvatico.»
Io alzai gli occhi al cielo, ma non riuscii a non regalarle un sorrisetto. «Oggi solo complimenti, a quanto vedo.»
Rita ridacchiò, il naso arricciato in quella sua solita espressione divertita, mentre con una mano si tirava un ciuffo biondo via dal viso.
«Sei pronta per un'altra lezione di Microbiologia Applicata?»
Al solo pensiero mi si arricciarono i nervi, rabbrividii di disgusto. «Odio quella materia. E pure la prof.»
Tirai giù un sorso del mio caffè, rigorosamente amaro, e sentii subito il liquido caldo percorrermi la trachea, darmi un senso di sollievo.
Intorno a noi il vento si faceva più rissoso e la pioggia più insistente, così sotto le arcate che conducevano agli edifici allungammo il passo, le scarpe a ticchettare sulla pietra levigata.
Ci affrettammo ad entrare insieme ad un marasma di spalle e braccia, giovani che avevano la nostra stessa urgenza.
«Allora, alla fine sei riuscita a vederti con Marta?»
Gettai uno sguardo fintamente incurante alla mia amica, eppure bastò a vedere il suo viso irrigidirsi, le labbra tremule su una risposta indecisa.
«Beh...» tentò, e poi fece silenzio per un po'.
Io aspettai. Sapevo che a volte riordinare i pensieri le costava fatica, parlare le costava fatica, persino con me che conosceva da una vita.
Era sensibile Rita, a differenza mia. Io sapevo sputare e gridare e sbattere i piedi, ma lei sussurrava, rimuginava e si vestiva di gentilezza anche quando nessuno se la meritava.
Era diversa. Ed era l'unica persona con cui riuscivo a portare pazienza, perché se la meritava.
Intanto avevamo finito i gradini delle scale e dall'immenso androne del nostro piano si diramavano corridoi come arterie da un'aorta.
Imboccai quello giusto, tirando dritta per la nostra aula mentre lei accanto a me finalmente si schiariva la voce.
«Beh...» ripeté di nuovo, «Diciamo che... le cose tra di noi ormai non vanno bene.»
Trattenni uno sbruffo, ormai infastidita da quella situazione che la sua fidanzata tirava avanti da mesi. «Quindi è ancora 'confusa'?» chiesi, sibilando tra i denti l'ultima parola.
Rita accanto a me inclinò la testa in un gesto triste, gli occhi fissi sul marmo del pavimento.
Non rispose nulla, si limitò a un "Mh" sussurrato a labbra strette.
Feci per aprir bocca, ma a guardarla così, triste e corrucciata, la richiusi.
Forse qualsiasi altra persona avrebbe preferito che mi lanciassi in una filippica di insulti, ma sapevo che lei non era fatta così. Sapevo che preferiva il silenzio al rancore e allora non dissi nulla, ripromettendomi di parlarle con calma, quando avremo avuto più tempo.
Entrando nella grande aula alzai gli occhi verso i posti di mezzo, vidi William alzare la mano per attirare la nostra attenzione. Data l'altezza spropositata spiccava anche da seduto.
«Vieni, dai...» tirai piano la manica di Rita, cercando di modulare un tono dolce mentre lei teneva ancora gli occhi bassi, lasciandosi completamente guidare da me.
«Buongiorno.» fu il sorriso dolce di Will.
Poi guardò Rita, mentre con un dito ossuto si sistemava gli occhiali sul naso. Lei però non se ne accorse, si limitò ad alzare un angolo delle labbra mentre sistemava i suoi appunti sul banco.
William le accarezzò un braccio, le labbra piene adesso incurvate verso il basso. Modulò, gentile: «Stai bene?»
Fu a quel punto che lei alzò lo sguardo: «Will, ciao.» sorrise piano.
Lui si illuminò di nuovo, gli occhi verdi un prato di dolcezza. «Ehi... tutto okay?»
Rita annuì poco convinta: «Sì, sai... i soliti problemi con la mia ragazza.»
Abbassò di nuovo gli occhi e non notò la spina di tristezza che aveva punto quelli di lui.
Fu quello il momento in cui decisi di intromettermi. Tirai un ricciolo biondo al mio collega, attirando la sua attenzione.
Mi sedetti accanto a lui, gettai la borsa a terra forse con un po' troppa foga.
«Come sta il mio americano preferito?» lo presi un po' in giro, nonostante americano lo fosse davvero, almeno per metà.
«A meraviglia.» furono le labbra tirate di lui, un sarcasmo pungente che colsi solo io.
Strinsi le labbra e scossi la testa, un po' divertita. «Dai, cominciamo questa giornata.»
Lui sospirò, lasciandosi andare sullo schienale a braccia incrociate. «Ma sì, tanto fa già schifo.»
~•~
«No, restate un attimo dove siete per favore! Abbiamo un annuncio da fare!»
Alzai gli occhi al cielo e mi sedetti nuovamente, imprecando tra i denti.
Ero stanca. Avevo fame. Sonno. Erano state tre ore impossibili e non vedevo l'ora di fiondarmi a pranzo prima del laboratorio pomeridiano.
«Ci mancava solo che questa strega ci facesse perdere altro tempo.» sbruffai, affondandomi i ricci in una mano e resistendo all'impulso di strapparmeli.
«Mia! Ti sente!» fu la gomitata di Rita accanto a me.»
«Ne subito.» mugugnai, la stessa voglia di vivere di un bradipo.
La mia professoressa di Microbiologia si mise al centro dell'aula, scrutandoci uno per uno.
Mi ritrovai a pensare per la trecentesima volta in tre ore che la odiavo. La odiavo profondamente.
«Bene, come ricorderete... vi avevo accennato a inizio anno che quest'anno avremmo partecipato a un progetto sperimentale finanziato da tutte le università d'Italia. L'obiettivo è mettere alla prova gli studenti più giovani e brillanti, stimolarli per vedere come se la cavano nel mondo della ricerca, nel mondo vero, insomma.»
Le orecchie mi si rizzarono, già in fibrillazione. I posti a quel progetto erano limitati e chiusi, era rimasto avvolto in un'aura di mistero per mesi. L'unica cosa che ci avevano comunicato era che gli studenti sarebbero stati pescati dal terzo anno tenendo conto delle medie più alte e delle predisposizioni al programma della ricerca.
Onestamente, ci speravo. La mia media nell'ultimo anno si era alzata, i programmi delle materie mi erano piaciuti tutti e avevo voglia di mettermi alla prova, di un ultimo sprint finale prima della scrittura della tesi. Chissà, magari ci avrei trovato anche qualche spunto.
Fantasticavo già su come sarebbe stato bello se davvero fossi stata scelta. Nel mio egoismo sempre onesto non negavo che mi sarei sentita importante, riconosciuta dai colleghi, dai professori. E poi avrei fatto felicissimo papà... quanto sarebbe stato contento se fossi rientrata in quel programma!
Quando la prof nominò il dipartimento con cui avremmo dovuto collaborare, nemmeno la ascoltai. Sarebbe stato chimica o farmacia o una roba del genere, non mi importava.
Poi iniziò a stillare una lista di nomi, e allora le mie orecchie ripresero a canalizzare suoni, prestare attenzione.
«...quindi cominciamo da loro.» stava dicendo giusto in quel momento. Si sistemò gli occhialetti sul naso, la cordicina a oscillare ai lati delle guance.
«Allora... sono stati selezionati in quattro, come voi.»
Strinsi le dita, impaziente del nostro, di turno.
«Sono stati selezionati... Aldo Fernigatti, Vera Fernigatti, Claudia Lostini e...»
Si sistemò di nuovo quegli occhiali terribili, avvicinò il foglio. Io stavo per sbadigliare.
«...e Michelangelo Fregni.»
Fu come uno schiaffo secco.
Evitavo quel nome ormai da anni. Era rimasto come una macchia sbiadita a sporcarmi i ricordi, di quelle che non si lavano via e allora tu cerchi di nasconderle tra le pieghe dei vestiti. Era così che facevo, io. Mi piegavo e ripiegavo su me stessa, mi accartocciavo per nasconderle— nascondere lui.
Lo evitavo– lo dimenticavo tutti i giorni, puntualmente.
Me lo facevo scivolare via dalle orbite e dal sangue, ci sputavo contro quando non si scollava.
Per un attimo persi percezione della realtà, se Rita mi strinse il braccio io non lo sentii.
E allora mi invase il desiderio smanioso di non volerci partecipare più, a quel progetto. No, no, assolutamente no.
Mi prese una voglia matta di alzarmi, andare via, fare finta di niente. Finta di non aver sentito, finta di non conoscere nessuno di quei nomi. Finta che il presagio che sentivo danzarmi intorno come una nuvola da una giornata intera non mi fosse appena esploso addosso.
Finta che lui non esistesse, perché quanto avrei dato purché non esistesse.
E quando Will mi strinse una spalla, schioccandomi un bacio sulla guancia, io mi irrigidii. Quando mi scosse un po' io mi voltai verso di lui in una lentezza svilente, gli occhi sgranati.
«Siamo passati!» esultò, e a me venne voglia di morire.
Mi sentivo in un impasse rigidissimo, non riuscivo a muovermi, percepivo i suoni ovattati, avevo gli occhi svuotati.
No, no, no.
No.
Lo continuai a ripetere come una litania, come fosse un incantesimo. Lo ripetevo mentre la pioggia si faceva più violenta sui vetri delle finestre.
Realizzai che pioveva fuori, ma pioveva pure dentro.
Avevo preso a piovere anch'io, mi portavo dentro cavalloni di brividi e l'unica cosa che riuscii a fare fu pregare di non annegarci dentro.
~
❤️🔥
e si comincia, bitches 😈
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