24h alla Catastrofe (1/2)

"Tu sei il mio capogiro e provo la vertigine di sentirmi vivo nella tua luminosità."

(Marlene Kuntz)




IV

Avevo lo stomaco contratto come un nido di serpi, il loro veleno a strisciarmi nel sangue e rendermi elettrica.

Mi guardavo allo specchio serbandomi occhiate inquisitorie, la verità era che non mi piacevo per niente.

Me ne stavo rigida come un palo della luce a girarmi a destra e a sinistra, osservandomi da ogni angolazione. Ce ne fosse stata almeno una che mi piacesse.

Generalmente non mi curavo mai di guardarmi allo specchio, provavo per la mia immagine un naturale disinteresse. Eppure, quella sera... quella sera non ci riuscivo. Quella sera era l'opposto.

Quella sera il pensiero di lui in quella casa mi trapanava il cervello fino a farmi tremare le gambe.

Non volevo vederlo sorridere, sentirlo fare fusa di convenevoli, non volevo guardarlo. Non volevo avere niente a che fare con lui e con quella cena.

Incrociai i miei occhi, la piega contrariata a contornare due iridi color nocciola, il viso morbido incorniciato dai riccioli.

Sospirai come di mille polmoni, mi stirai il vestitino rosso sui fianchi. Era un tubino semplice, mi fasciava le poche curve e si chiudeva sulle scapole con due spalline finissime. Quando lo avevo visto in vetrina mi era piaciuto subito, ma se non fosse stato per papà non lo avrei mai neanche provato. Certi vestiti, semplicemente, non sono fatti per me.
Eppure quello... sfumava bene sulla mia pelle mulatta, aveva un'eleganza sobria e un non so che di... mio.

Quando sentii rumore di porta e un vociare sommesso da sotto, capii che era arrivato il momento.

Un altro respiro e poi mi mossi.

Tirai via gli occhi dalla mia immagine e li puntai sul pavimento. «Dai, non essere codarda.» Annuii a me stessa e uscii dalla mia stanza, dimenticando come sempre di chiudere la porta.

Gli scalini sembravano più ostici del previsto, o forse ero semplicemente io che andavo a rallentatore perché c'era più voglia di risalirli che di scenderli.

Intanto, sentivo già sprazzi di voci sciorinare in corridoio, lo schiocco della serratura di casa che si chiudeva.

«...appendilo lì, Cecilia!»

«E il negozio?»

«Oggi ho chiuso prima! Ti pare?»

«E tu, Rob?»

C'era rumore di pacche sulle spalle e baci schioccati, struscio di cappotti che venivano appesi.

«Turno domattina, amico. Ho un intervento prestissimo, diamine...! Non puoi capire, è così importante che– Oh, ma guarda chi c'è!»

Proprio in quel momento avevo appena fatto la mia comparsa, il piede ancora sull'ultimo scalino.

Aggrappai lo sguardo al papà di Michelangelo che mi aveva appena notata. Non lo mossi da lui con uno sforzo che mi parve titanico. Spalancai un sorriso e gli andai incontro.

Lo feci con la stessa scioltezza con cui sarei potuta andare incontro al mio, di padre. Era ormai un moto istintivo che mi portavo sin da bambina e che mi ricordava ogni volta quanto io fossi cresciuta con quella famiglia al pari di considerarla mia.

«Robby!» lo abbracciai – o almeno cercai di abbracciarlo data la sua altezza spropositata.

Lui però non si fece difficoltà e si abbassò per venirmi incontro. «Sempre troppo bassa questa pulce, eh?»

Mio padre rise e stette al gioco: «Mi sa che ha smesso di crescere a 12 anni, Rob. Non come quello spilungone di tuo figlio. A proposito, ma dov'è?»

A quella domanda i miei occhi schizzarono in avanti. Il mio campo visivo si estese, ma tutto ciò che vidi fu... l'atrio piccolo caldamente illuminato, Cecilia sorridermi dolce mentre letteralmente mi strappava dalle braccia del marito per buttarmi nelle sue.

«Oh no, Michelangelo non c'è.» mi disse praticamente contro l'orecchio. «Ha avuto un contrattempo e non è riuscito neanche a tornare a casa.»

C'era una nota dispiaciuta, ma fu proprio quella a rivitalizzarmi il cuore. Mi sciolsi, ricambiai l'abbraccio in modo più sincero prima di lasciarla andare.

Non c'era. Lui non c'era.

Non dissi niente. Mio padre invece ci restò un po' male. «Oh, è un peccato. Mia aveva fatto i suoi biscotti.»

Mi morsi la lingua per non controbattere niente e far uscire solo un: «Ma non importa...» finissimo. Perché sì, alla fine avevo fatto quegli stramaledetti biscotti.

«Certo che importa! Poi me ne dai un po', va bene? Sarà felice se glieli porto, fidati.»

Certo, mi fidavo eccome. Però lei mi aveva sorriso con quel viso buono, che non potei non sollevare le labbra a mia volta mentre speravo con tutto il cuore che se ne dimenticasse.

Poi mio padre batté le mani, attirando l'attenzione. «Bene, allora visto che ci siamo tutti» sentenziò, «Mangiamo?»


~•~


Mi godetti la cena a cuor leggero. Le conversazioni viravano da un argomento all'altro, dal negozio di ceramiche di Cecilia e le ordinazioni a cui faticava a star dietro, agli ultimi interventi di Roberto, al lavoro di papà. Mi chiesero come andasse con l'università e ogni volta che nominavano Michelangelo o il progetto in comune io ero improvvisamente troppo concentrata sul cibo per prestare attenzione.

L'unico argomento che non si sfiorava mai in mia presenza era, ovviamente, mia madre.

«I ravioli sono buonissimi cara.» fu la mano di Cecilia poggiata sulla mia quando ormai i piatti erano semi vuoti. «Peccato che Michi non c'è, gli sarebbero piaciuti.»

Annuii come se niente fosse, e anche questa volta non dissi niente. Mi portai il bicchiere alle labbra, a simulare un'indifferenza che mi stava male addosso.

«Mi dispiace che non ci sia.» fu la voce sincera di mio padre, «È da un po' che non lo vedo... la prossima volta digli di non mancare, ok?»

«Oh Imran, anche a lui dispiace! Ma sono convinta che vi vedrete più spesso adesso che i ragazzi hanno anche il progetto universitario in comune, no?» Ci misi un po' a capire che stesse parlando con me.

Intercettai il suo sguardo e feci di tutto per mantenere una facciata fredda, tirai persino su un sorrisetto. «Certo... certo

Ma Cecilia alzò un sopracciglio, mi guardò in un modo tra il confuso e l'allusivo. «C'è qualcosa che non va? Sei di poche parole riguardo questo progetto... Non è molto da te. Non ne sei entusiasta? So che tu e Michelangelo vi siete un po' persi, ma – »

«Ma no, non ci siamo persi» tirai di più il sorriso e feci un giro teatrale di occhi al cielo, «Solo che non abbiamo più il tempo di una volta...»

Cecilia fece per ribattere, ma io la precedetti per cambiare discorso. «E poi non è che non sia entusiasta... lo sono, davvero. Solo che... le ultime settimane sono state un po' pesanti e sono più stanca del solito, tutto... tutto qui, ecco.»

«Stai preparando qualche esame, Mia?»

Ringraziai mentalmente Robert per aver cambiato discorso e la serata continuò serena.

Arrivati al dolce, alla fine uscii anche i miei biscotti, e quando Cecilia mi propose di darle un contenitore così da poterne portare qualcuno a Michi, beh... non potei tirarmi indietro.

La guardai con riluttanza mentre li sistemava con cura, attenta che non si spezzassero. Come se a lui sarebbe importato.

Quasi mi venne da ridere e dovetti trattenere un risolino nevrotico. Avrei voluto dirle di lasciar perdere, che sarebbero anche potuti essere briciole e a nessuno sarebbe importato niente. Né a me, né a lui.

«Fanno così un buon odore... gli piaceranno!»

Sì, gli piaceranno soprattutto gettati nell'immondizia.
Dove sarebbero dovuti essere fin dal principio.

«Alla fine hai deciso dove vuoi mettere quell'orologio, Imran?» Cecilia si voltò verso mio padre, l'aria curiosa. «È quasi pronto, sai? Devo solo rifinire i contorni.»

Lo sguardo di mio padre si illuminò: «Davvero?»

Aveva commissionato a Cecilia un orologio in ceramica, fatto a mano e dipinto da lei stessa. Di fatto, lei annuì. «Perché non mi fai vedere dove vuoi metterlo di preciso? Mi aiuterebbe a scegliere i colori giusti.»

Papà si alzò da tavola dicendo che le avrebbe fatto vedere e Robert, incuriosito, si alzò con loro. Li sentì parlottare allegri mentre salivano le scale.

Io me ne rimasi sulla sedia, mi concessi un sospiro lunghissimo. Pilucchiai ancora un po' la torta nel piatto, stremata da tutto quel cibo.

Poi, un telefono prese a squillare e per poco non sobbalzai perché era esattamente accanto a me, sul tavolo. Solo che non era il mio.

Era appoggiato al contrario, così quando lo afferrai lo voltai per controllare il display. Fu in quel momento che mi bloccai.

Amore di mamma

Guardai quelle due parole con una estraneità cruda. Le lessi più volte, le iridi impigliate e il telefono ancora in mano.

Feci per riposarlo, m la voce di Cecilia mi raggiunse dal piano di sopra. «Mia, puoi rispondere tu? Prima che stacchi... sto arrivando!»

Inspirai. Espirai. Mi dissi che sì, certo che potevo.

Strinsi l'apparecchio tra le dita, feci lampeggiare un'ultima volta Amore di mamma contro il mio sguardo e poi strisciai il dito sul display per rispondere alla chiamata.

Me lo portai all'orecchio, forse un po' lenta, perché quando lo appoggiai la sua voce calda mi colò contro il timpano.

«Mamma ciao, sono io.»

Il suono era quello di sempre. Sempre sereno e con la solita sfumatura un po' scocciata, ma non abbastanza da poterlo definire scortese.

Non dissi niente, lo lasciai continuare: «Papà non risponde al telefono per cui digli che ho preso io la Porsche. Sono con Davide e gli altri...» piccola pausa prima di aggiungere, «Voi tutto bene da Imran?»

Mi fece un effetto strano saperlo incosciente del fatto che stesse parlando con me. Sentirlo così... spontaneo, con quel suo tono neutro che simulava indifferenza, ma che io riconoscevo come interessato perché conoscevo lui. E per un istante fu come... riappropriarmi di una piccola parte di me. Quella parte che era lui. Me ne rimproverai subito.

«Mamma?» chiamò, ora più attento, «Mamma, sei lì?»

«No.»

Lo avevo spinto fuori a forza, il telefono premuto contro l'orecchio e il respiro trattenuto a rendermi rigida. Mi ero alzata dalla sedia senza neanche accorgermene.

Mi costrinsi a parlare ancora, cercando di sembrare più naturale possibile. «Aspetta un secondo, sta scendendo.»

Inutile dire che mi uscì fuori malissimo, con la stessa freddezza di cui ero fatta io.

Per qualche secondo il silenzio rimase sospeso tra di noi, di fondo solo il rumore cacofonico della chiamata.

«Mia.»

Aveva pronunciato il mio nome in un modo basso– definito. Mi riverberò dentro come una marea calda.

«Eccomi...!»

La voce di Cecilia mi fece sobbalzare. Protesi il telefono verso di lei con uno scatto secco, glielo lasciai in mano forse con troppo poca gentilezza.

Senza dire niente feci dietro front, uscì dalla cucina coi sensi irti, la pelle fredda e le orecchie riempite dell'eco della sua voce– del mio nome sulla sua bocca.

«Sì Michi, certo che era lei. Chi doveva essere se no?» fu l'ultima cosa che sentì quando mi chiusi la porta alle spalle.



~

📌note

E ancora non si sono neanche visti, da bene in meglio insomma.

Dovevo aggiornare molto prima ma ho riavuto il telefono solo adesso (lo avevo tipo semi-distrutto), per cui... a presto con la seconda parte 🥰

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