14. Tic, tac il tempo passa

Lo studio veterinario era stato stranamente pieno di clienti quel giorno.

Errison osservava l'andirivieni di persone con un misto di gioia e apprensione, mentre controllava costantemente l'orologio.

Non voleva far tardi proprio il giorno in cui la sua storia con Agnes compiva cinque mesi.

Aveva compreso che per lei era importante per preparargli una cena con i fiocchi e festeggiare come se fosse passato un anno. Anche se in realtà non era così.

Ed Errison non era mai stato un tipo da ricordare gli anniversari. Eppure si era lasciato trasportare dalla gioia della sua compagnia.

E aveva finito per passare gran parte del suo tempo libero alla ricerca del regalo perfetto.

Era orgoglioso della sua scelta, perché sapeva che avrebbe reso Agnes ancora più felice.

Non vedeva l'ora di finire quella lunga giornata di lavoro e andare da lei, per questo guardava l'orologio ogni quindici minuti, con apprensione.

Gli sembrava quasi strano che tutti, improvvisamente, avessero un'emergenza.

Anzi, aveva quasi l'impressione che si fossero messi d'accordo per fargli fare tardi.

«Lucy, per favore, manda via tutti i pazienti non urgenti... Ho un appuntamento questa sera, e non voglio fare tardi», le aveva detto nel tardo pomeriggio, controllando ancora il grande orologio a cucù sulla parete apposta.

La sua segretaria non aveva neanche fatto in tempo ad annuire, che la signora Alcott si era avvicinata con in braccio il suo grande fatto persiano dal pelo grigio.

«Dottore, so che avrei dovuto prendere appuntamento, ma il mio povero Percival non sta molto bene oggi... Non è che potrebbe visitarlo?».

Errison evitò di fare una pessima battuta sul nome dell'anima, che teneva per sé da quando aveva conosciuto la donna, e guardò con occhio circospetto il gatto e il suo muso schiacciato.

«Che cos'ha che non va?».

«È sempre così apatico, dottore, non è più vivace come una volta».

Errison non voleva sembrare scortese, ma non riuscì a non alzare gli occhi al cielo.

Prese un lungo sospiro e cercò di essere più chiaro possibile, per l'ennesima volta: «Signora Alcott, Percival ha diciassette anni. Ha idea di cosa significa?».

Nonostante avesse tentato di spiegarglielo più di una volta, la donna non parve comprendere.

«Il suo gatto è vecchio, signora Alcott... Se ne faccia una ragione».

«Che cosa sta insinuando? Che gli anziani non possono saltare da un muro ad un altro?».

Stava per risponderle ma lei stizzita di voltò e se ne andò, come se avesse già intuito la risposta.

Esasperato, Errison si rivolse di nuovo a Lucy: «Ho cambiato idea, manda via tutti... Per oggi ho finito».

La sentì biascicare un principio di lamento ma Errison non ne volle proprio sapere.

Sarebbe tornato a casa, anche se in anticipo, e si sarebbe fatto una doccia mentre aspettava che la cena preparata da Agnes fosse pronta.

Questi erano i piani, e nessuno avrebbe potuto impedirgli di cambiarli.

Tentò di uscire dal suo studio più in fretta che poteva, per evitare di essere intercettato dai suoi clienti che, in sala d'attesa, apprendeva dalla sua segretaria che l'orario di visita era finito.

Ma fece appena in tempo ad aprire la porta principale che quasi un uomo di mezza età gli andò addosso.

«Signor Vansel, per poco non la facevo cadere», si lamentò, mentre con la coda dell'occhio notata che teneva in mano la gabbia con il suo pappagallo.

Prima ancora che potesse dire qualcosa, subito lo fermò: «Se è venuto per un consulto, oggi ho finito di lavorare. Lasci detto alla mia segretaria, la richiamo io domani».

«Ma io...», stava dicendo Vansel, alzando leggermente la gabbia come a fare vedere il problema.

Ad Errison non serviva più di un'occhiata per dire: «La richiamo domani, signor Vansel, non si preoccupi».

Girandogli intorno si mise a correre giù per le scale, con l'unico intento di andarsene via da quel posto il più in fretta possibile.

Aveva la strana sensazione che più tempo rimaneva vicino allo studio più avrebbero fatto in modo d'intrattenerlo.

E si era illuso di essere al sicuro, all'interno della sua macchina, tanto da tirare un sospiro di sollievo mentre accendeva il motore.

Questo prima che il telefono iniziasse a squillare.

Decise di ignorarlo una volta, mentre usciva dal parcheggio e passava di nuovo davanti al suo studio e al povero signor Vansel che continuava a fissarlo sbalordito.

Lo ignorò una seconda volta, convinto che forse sarebbe riuscito a raggiungere casa sua senza più interruzione.

Ma quando il telefono squillò una terza volta in meno di cinque minuti, fece l'errore di controllare lo schermo.

«Dannazione, è Steve del maneggio», imprecò, sapendo che ormai non aveva altra scelta se non quella di rispondere.

Come se il suo dito pesasse un quintale, ai costrinse a premere il tasto per aprire la chiamata.

«Ciao Steve, come va?», cercò di non dare a vedere, dal suo tono di voce, che aveva l'aria impaziente.

«Blake, non uccidermi, so che sei impegnato ma ho bisogno di te... Credo che la giumenta stia per partorire».

«Sei sicuro?».

«Abbastanza».

Errison dovette nascondere un'imprecazione tra i denti.

Il maneggio di Steve era a più di mezz'ora da casa sua, in una zona molto isolata, dove non prendeva neanche il cellulare.

«Mi dispiace Blake, ma ho proprio bisogno del tuo aiuto».

Non poteva essere una cosa calcolata. Una cavalla che partorisce proprio il giorno del suo anniversario doveva per forza essere una coincidenza.

Così alla fine era stato costretto a sospirare: «Ok, tra mezz'ora sono lì».

E prima di fare inversione per allontanarsi ancora di più da casa sua, lasciò un messaggio nella segreteria del telefono di Agnes.

«Agnes, tesoro, c'è stato un imprevisto, una giumenta sta per partorire fuori da Backsonville e il proprietario ha chiesto la mia presenza. Farò un po' tardi e starò in una zona in cui non prende il cellulare, ma non preoccuparti... Ci sarò».

Aveva intuito già alla fiera del gran turco che la gemella di Errison era una stronza patentata.

E le erano bastata poche ore insieme quel pomeriggio a fare la spesa per la cena vegana.

Lei aveva scelto il supermercato di Birmingham migliore. Lei aveva preteso di guidare, perché a detta sua non era in grado di sopportare la guida di nessuno.

Lei aveva insistito sull'orario e sempre lei aveva deciso quasi tutto il menù.

E ogni volta che Agnes voleva dire la sua, veniva trattata con sufficienza.

In poche ore aveva compreso quale era la più grande abilità di Darla Blake: farti sentire inferiore a lei in tutto quello che fai restando però educata.

Non riusciva proprio a capire come ci riusciva, eppure non sorpassa mai il limite, rimanendo composta ed educata mentre ti giudicava per ogni cosa.

Era snervante. Esasperante. Sconfortante.

Più volte la tentazione di risponderle male - o peggio, di infilarle la testa tra gli scaffali del supermercato - quasi la fece cadere in tentazione.

Eppure fu costretta a trattenersi perché la verità era che c'era una parte di lei che voleva proprio andare d'accordo con la famiglia di Errison.

Per quanto fosse convinta che lei e Darla non sarebbero mai diventate amiche per la pelle, non voleva neanche iniziare una guerra alla Montecchi e Capuleti.

Così sopportò ogni sua parola soffiata con condiscendenza.

«Mia cara, fidati, io so di cosa parlo».

«Se vuoi, possiamo farlo, ma io lo sconsiglio».

«Possiamo fare come vuoi, se desideri un totale fiasco».

Il suo atteggiamento passivo aggressivo avrebbe messo a dura prova anche un santo.

Ed ogni volta che Agnes sentiva il desiderio di ucciderla in modo lento e doloroso, chiudeva gli occhi, contava fino a dieci e ripeteva nella sua mente una specie di mantra.

Calmati, Agnes. È solo una stronza frustrata. Calmati, Agnes. È solo una stronza frustrata. Calmati, Agnes. È solo una stronza frustrata.

Grazie a ciò riuscì a resistere a ben tre ore in sua compagnia, sperando di potersene liberare una volta tornata a casa di Errison.

Ma evidentemente la sfiga la perseguitava perché proprio non riuscì a scaricarla.

Per quanto cercò di convincerla che non aveva bisogno di lei, Darla non perse occasione per sminuirla e glorificarsi allo stesso tempo.

«Non riusciresti a fare un lavoro decente senza di me, mia cara».

E prima ancora che potesse risponderle male, si erano ritrovate a cucinare insieme.

In uno spazio ristretto, costrette a continuare a parlare, mentre cucinavano, Agnes era convinta che la serata sarebbe sicuramente finita con un omicidio.

Già immaginava la sua foto segnaletica stampata sulla prima pagina del Josesville Gazzette.

Avrebbe passato il resto della sua vita in galera a barattare prestazioni sessuali in cambio di sigarette, ma ne sarebbe valsa la pena.

Tutto, pur di farla smettere di blaterare.

Ogni singolo minuto passato in compagnia di quella donna era come trafiggersi gli occhi con degli aghi roventi.

E forse proprio per questo assaporava ogni attimo che poteva passare da sola, se pur per poco tempo.

Non c'era quindi da biasimarla se sentì la donna più fortunata del pianeta quando Darla decise di andarsene.

«Ho un marito che mi aspetta a casa e non posso stare qui a farti da balia per tutta la sera», le aveva sorriso con finta modestia.

In risposta Agnes l'aveva salutata, aspettando solo che la lasciasse in pace.

Quando le chiuse la porta quasi in faccia, continuando a sorriderle come se avesse una paresi facciale, si lasciò andare ad un'imprecazione fra i denti.

Una volta sola si rese conto che era quasi ora di cena.

Era tutto pronto, non doveva più occuparsi di nulla, e non le rimase che attendere l'arrivo di Errison.

Si mise seduta al tavolo, con lo sguardo di fronte all'orologio e attese.

Lui era già un po' in ritardo, rispetto all'orario che avevano stabilito, ma non se ne preoccupò.

Poteva aver avuto un'emergenza a lavoro, anche se le sembrava strano che non l'avesse contatta.

Il cellulare non segnava alcuna notifica e così, più passava il tempo, più iniziava ad impensierirsi.

Non era da Errison ritardare ad un appuntamento o darle buca senza avvisare.

Così tentò lei di contattarlo, con un brutto presentimento che le tormentava la mente.

Il telefono però era spento, oppure in un punto in cui non c'era campo.

E la cosa andò avanti per almeno un'ora, mentre lei tentava di contattarlo.

Le ragioni del suo ritardo potevano essere molteplici, eppure non riuscì a non pensare a quelle che più le avrebbero dato fastidio.

Forse si era dimenticato del loro appuntamento? Eppure ne avevano parlato pure il giorno prima.

Se fosse stata un'urgenza di lavoro, perché non chiamare?

Forse non poteva farlo?

Forse Errison non era solo nel suo studio, di notte, mentre lei lo attendeva a casa sua?

Il tempo passava e le domande aumentavano.

Fino a quando sentì la chiave nella toppa della porta. Errison era finalmente tornato.

Con ben tre ore di ritardo.

Spazio autrice:

Buonasera a tutti! Come state?

In questo capitolo iniziano ad arrivare i problemi. Errison ha lasciato un messaggio ad Agnes per avvisarla del ritardo, eppure lei non ha ricevuto nessun messaggio... 

Di certo la serata non inizia nel migliore dei modi.

Scopriremo come va a finire la cena lunedì prossimo,

Chiara😘

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