Prologo

Il vento soffiava forte fuori dalla mura di casa, tanto che i rami dell'albero in giardino picchiettavano incessamente contro il vetro della finestra e di tanto in tanto un lampo illuminava per una frazione di secondo l'interno della stanza, buia, inghiottita dalle tenebre. Poi, un tuono squarciò il cielo a metà.

Le folate di vento si infiltravano tra i vicoli stretti e poco illuminati delle strade, tra gli alberi piantati nei giardini dell'intero quartiere e i ciuffi d'erba che ospitavano qualche fiore colorato di stagione. Il passaggio dall'autunno alla primavera. Il tempo che ancora cercava il suo equilibrio tra la morte delle foglie degli alberi e la rinascita della natura con i primi raggi caldi del Sole.

E se una tempesta fosse il prezzo da pagare per quell'equilibrio, allora la natura non avrebbe esitato a donare mille tempeste per dare il benvenuto alla primavera.

E si sa che prima della pace c'è sempre il caos.

Strinsi più forte le braccia intorno al busto per via della paura che cominciò ad impossessarsi di me, forte, famelica fino a far spasimare ogni singolo muscolo del mio corpo che giaceva infreddolito sotto le coperte del mio letto.

Le urla che provenivano dal piano di sotto si mischiarono con i suoni della tempesta che si stava abbattendo sopra il cielo di una Los Angeles dormiente, tranquilla. Erano minuti che i rumori continuavano incessanti a rimbalzare da una parete all'altra fino ad arrivare alle mie orecchie, sportelli di legno che sbattevano violentemente, mani chiuse a pugni che battevano sulla superficie del tavolo dove ogni mattina ci scambiavamo il buongiorno e il più terribile, suoni di mani contro lembi di pelle scoperti.

Non è vero, tutto questo non è assolutamente vero. Noi siamo una famiglia felice e le famiglie felici non hanno mai un finale orrendo.

Con le labbra tremanti e bagnate dalle lacrime che non mi era accorta di versare, portai le mie ancora piccole mani alle orecchie e cercai di isolare il mio udito da quelle grida. Un singulto, poi un altro. Mi accorsi di star piangendo perché avevo capito che ciò in cui credevo, era solo una menzogna in cui rifugiarsi per soffrire di meno.

La mia famiglia non era più felice e faceva così male ammetterlo che sentii il cuore dividersi a metà per la prima volta, schiacciato dalle macerie di quella casa perfetta e confortevole che i miei genitori avevano costruito con tanto amore.

Strinsi forte gli occhi e delle lacrime scivolarono ancora lungo le gote arrossate, poi un ultimo rumore e delle ultime grida prima che la casa sprofondasse nel silenzio più profondo. Il rumore di un piatto frantumarsi contro una parete e le urla di mia madre liberate dalla gabbia creata dal suo stesso corpo: «Sei un verme! Uno schifoso verme bastardo! Esci fuori da casa mia e non farti vedere mai più!»

Silenzio. Assordante. Spaventoso.

Poi, un suono, quello del mio cuore, un ultimo battito vivo prima di venir sostituito da passi veloci contro il parquet del corridoio. La porta in legno bianco venne aperta, cigolò. Il suono dei passi continuò, si fecero sempre più vicini finché li sentii raggiungere il mio letto prima che questo si modificasse sotto al peso di un altro corpo: quello di mio fratello che era entrato nella mia stanza e si era infilato sotto le coperte per proteggermi.

Le sue braccia mi circondarono il busto e non ci mise molto a capire che stavo soffocando un pianto. Il mio corpo continuava a venir scosso da singulti contro il suo petto e per questo decise di stringermi più forte, per evitare che i pezzi del mio cuore si diffondessero in posti troppo lontani per poterli recuperare tutti.

E ci riuscì, perché con la sua morsa protettiva aveva evitato di trasformarmi in un essere privo di empatia. Tuttavia, non riuscì a evitare l'implosione dell'organo pulsante perché questo era ormai frantumato, diviso, ridotto solo in piccoli brandelli.

Alex sussurrò delle parole dolci al mio orecchio: «Shh. Vedrai che andrà tutto bene, Bianca» ci credetti, mi dissi che lui aveva ragione e che magari la realtà che avevo iniziato a percepire era solo una bugia sussurrata dalla labbra della tempesta che quella notte aveva deciso di interrompere la quiete.

«Ti va di cantare con me la canzoncina che papà ci ha insegnato?» continuò Alex con tono più sereno e con un sorriso tirato. Annuii e insieme iniziammo a canticchiare quelle note che presto si mischiarono di nuovo ai rumori provenienti dall'altra parte della casa e ai tuoni che squarciavano il cielo. 

Smisi di cantare ma Alex mi rimproverò subito: «Non smettere di cantare Bianca. Non smettere per nessuna ragione» annuii di nuovo e mi fidai, scelsi di fidarmi di quelle parole e tornai a cantare col labbro tremante e che sapeva di lacrime salate.

Le sue mani andarono a premere sulle mie orecchie così che potessi soffiare le note di quella canzoncina per bambini senza alcuna distrazione e così i battiti del cuore rallentarono, il corpo smise di tremare e il sudore freddo mi impregnò la fronte con le sue ultime gocce.

La mia quiete, la mia quiete apparente era stata raggiunta grazie ad Alex. Sorrisi, inconsapevole che quella notte era solo l'inizio della mia tempesta e che la quiete ci avrebbe messo un po' più del previsto per arrivare.

E fiduciosa inizia ad aspettarla, giorno e notte, tra pianti e sorrisi tirati, tra gioie e dolori, tra giornate di Sole e notte buie e tempestose come quella notte. Ma più il tempo passava, più mi rendevo conto che aspettare la quiete era solo un altro modo che avevo trovato per soffrire di meno e vivere nella menzogna. Iniziai a odiare le bugie e i bugiardi, finendo per odiare anche me stessa per ripetermi sempre la stessa menzogna davanti allo specchio, ogni mattina, prima di andare a scuola: "sto bene", mi ripetevo e dicevo agli altri.

Paradossalmente, però, non volevo più vivere tra le pareti scorticate di una bugia e così la verità diventò la mia unica amica e l'unica arma per affrontare il mondo priva di ogni aspettativa così da non restare mai delusa da me stessa, dagli altri e dalla vita.

La mia casa, quella che custodiva il mio cuore ancora puro e intatto, fu distrutta definitivamente quella notte e ne avrei portato il peso delle macerie dentro di me per tutta la vita. Non avrei mai più avuto un rifugio sicuro personale in cui nascondermi quando il mondo andava a rotoli, ma avrei trovato rifugio in altre braccia che avrei chiamato casa.

E quando finalmente riuscii ad accettare quella situazione, mi misi l'anima in pace e lasciai che quel dolore, che fino a quel momento avevo provato a tenere incatenato, riempisse ogni parte vuota di me. Mi arresi tra le sue braccia senza opporre più resistenza. 

Semplicemente mi arresi.  

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