9. Ho smesso di essere gentile

CORRETTO

La gamba sotto al tavolo della biblioteca si muove nervosamente mentre un pugno sprofonda nella guancia e il ticchettio fastidioso della matita che reggo tra l'indice e il medio contro al tavolo è l'unico rumore a riempire questo silenzio rilassante.

Collins, completamente assorto nella sottolineatura del libro di storia, non sembra neanche sentire il mondo che lo circonda, al contrario, l'espressione corrucciata mi suggerisce che è concentrato su ciò che sta leggendo. Ma i miei occhi non riescono a smettere di fissare quei lividi violacei sulla tempia e sullo zigomo, non riuscendo a frenare la curiosità di sapere cosa gli sia successo.

Smettila di pensarci, Bianca, finirai in grossi guai se solo provi a entrare maggiormente nella sua vita.

Ha ragione Matt, forse dovrei lasciar perdere il piano che prevede la scoperta dei suoi problemi e risolverli così che io possa vivere con un peso in meno sulle spalle. Forse non è neanche una motivazione valida prendersela col mondo intero per via di problemi personali.

Senza che me ne sia resa conto, il mio sguardo è scivolato sul suo braccio malconcio, adesso lasciato sulla superficie lignea del tavolo. Anche se coperto da una semplice felpa nera, è impossibile non notare il suo pessimo stato. E' messo così male che sembra troppo doloroso muoverlo anche di un solo millimetro.

La curiosità torna a bruciare la bocca dello stomaco.

«Ragazzina, so che il mio fascino attrae chiunque, ma preferirei se la smettessi di fissarmi così insistentemente» dice senza staccare gli occhi dal libro. Le labbra si increspano in un sorriso malizioso.

Sobbalzo leggermente e un'improvvisa vampata di calore che parte dallo stomaco si propaga fino alle guance per via della consapevolezza di essere stata colta in flagrante. Mi raddrizzo sulla sedia mentre mi schiarisco la voce per prendere tempo.

Punto entrambi i gomiti sul tavolo e mi sporgo in avanti: «Sta tranquillo, non corri alcun pericolo perché non stavo guardando te, ma il tuo braccio»

Sospira pesantemente mentre si spoglia di quel sorrisetto di prima. Continuo, volendo volutamente metterlo alle strette: «Sembra messo peggio di questa mattina. Mi chiedo perché non sei ancora andato a fare una visita all'ospedale»

Nessuna risposta. Nessun cedimento. La sua matita, stretta e guidata dalle sue dita, continua a sottolineare le pagine sporche d'inchiostro.

Ritento: «E' vero che mia madre sta affrontando un lungo periodo di depressione, ma se mi avesse vista in quelle condizioni mi avrebbe già portata in tre ospedali diversi per assicurarsi che stessi veramente bene» sorrido tristemente, cercando di mantenere viva la mia messa in scena, ma nel vedere la sua compostezza decido di osare di più. Mi mordo le labbra, sapendo che mi andrò a cacciare nei guai in questo modo: «Cos'è, persino tua madre ti sta alla larga?»

Finalmente una reazione. Alza lo sguardo dal libro e comincia a fissare un punto vuoto davanti a sé mentre la malcapitata matita si ritrova a dover sopportare la presa ferrea di un suo pungo. Il muscolo della mascella ben delineata guizza fuori varie volte.

Sembri una bomba pronta a esplodere e io ho paura di non riuscire a sopravvivere.

Lentamente si volta verso di me e lo sguardo di fuoco che si scontra col mio mi costringe a trattenere il respiro. E' comparsa una ruga tra le sopracciglia e gli occhi si sono colorati di una tonalità differente.

Dimmi Collins, che sensazione si prova nel venir colpiti nel punto più delicato di te?

Le labbra carnose e rosee si muovono lentamente per modellare alla perfezione le sue parole: «Se pensi che stuzzicarmi ti farà ottenere ciò che vuoi, ti sbagli di grosso, ragazzina -si piega verso di me fino ad arrivare a una spanna dal mio viso- Perché quello che succede nella mia vita privata a te non deve interessare nulla»

Il suo fiato si infrange sulle mie labbra leggermente schiuse mentre i suoi occhi di ghiaccio continuano a penetrare il mio sguardo, finché quella fastidiosa sensazione di essere vulnerabile si impossessa di me e improvvisamente tutte le sicurezze che avevo crollano sotto al mio sguardo impotente.

Non riesco a respirare.

Continua con tono glaciale: «Io e te non siamo amici, nemmeno conoscenti. Noi due non siamo niente e finché la situazione sarà così, non potrai oltrepassare quella linea che tiene separate le nostre vite»

Nonostante sia completamente d'accordo con lui, quelle parole riescono comunque a lasciarmi un segno dentro.

"Noi due non siamo niente". Anche per due come noi la parola "niente" mi sembra eccessiva. Niente significa il nulla, il vuoto, un vuoto che sei consapevole di non poter colmare mai.

Sarà che ti senti così solo perché dentro di te senti quel vuoto insopportabile che vorresti riempire ad ogni costo. Ti senti così perchè sai che certi vuoti è impossibile colmarli. E perché mai dovrei colmare il mio vuoto con lui?

Ingoio a fatica la saliva che si è accumulata tra le pareti molli della bocca e mi preparo a rispondere, ma nel momento in cui vorrei farlo non so più che dire.

Lui ha ragione, la nostra relazione deve rimanere al confine insuperabile del rapporto tutor-alunno. Niente di più, niente di meno. Semplicemente niente. Noi due dobbiamo essere niente per l'altro.

Niente, è quello che sento dentro di me. Svuotata completamente di qualsiasi cosa.

Lentamente e silenziosamente, torna ad osservare il libro senza aggiungere altro mentre io mi sento infinitamente una stupida per aver detto quelle cose.

Non contenta, però, decido di riprendere a parlare dopo interminabili minuti di silenzio: «Hai ragione, noi due non siamo niente- ammetto senza guardarlo- Ma non riesco a lavorare normalmente vedendo quel braccio»

Dylan sospira nuovamente e getta gli occhi al cielo, ma non mi faccio intimorire e continuo: «Non te lo chiedo da conoscente o da amica, ma da semplice persona preoccupata: cosa hai fatto al braccio?» dico nel modo più sincero e tranquillo possibile perché sì, anche se non siamo amici, mi preoccupo per quello che gli può accadere se non si lascia controllare da qualche esperto.

Con non so quale coraggio, rialzo timidamente lo sguardo su di lui, come se volessi cercare di scorgere da dietro un muro quello che sta provando. Al contrario di ogni aspettativa, i muscoli delle spalle si sono rilassati, il pungo che prima stringeva la matita si è disteso e i suoi occhi sono tornati a essere semplicemente glaciali. Sembra più calmo.

«Non riesci proprio a farti i fatti tuoi, eh ragazzina?» incatena i nostri sguardi e le sue labbra si increspano in un sorriso mentre si rilassa contro lo schienale della sedia. Si è calmato,per fortuna.

Continuiamo a fissarci, il silenzio si adagia e modella sui nostri corpi come un vestito fatto apposta per noi, ma non diventa imbarazzante fino al momento in cui i suoi occhi scivolano dai miei occhi e finiscono sulle mie labbra. Le sue labbra carnose, invece, si arricciano sempre di più fino a far comparire sull'angolo destro del labbro una piccola pieghetta.

Perché mi guardi così, Collins? Io e te ci odiamo, o almeno, io odio te. Ti odio con tutta me stessa perché tu sei complice della distruzione del mio cuore. Il mio cuore è un frantumo di macerie anche grazie a te e io non ti perdonerò mai per questo.

Cerco di resistere a quello sguardo ammiccante, ma l'organo pulsante al centro del petto subisce un brutto tuffo capace di farmi sentire qualcosa.

Ma quel qualcosa è solo frutto della mia immaginazione perché io, il cuore, non ce l'ho più. Solo l'eco dell'organo distrutto che risuona nella gabbia toracica.

Mi inumidisco le labbra con la lingua prima di parlare: «Esatto, non riesco a farmi i fatti miei. Allora, che ti è successo?»

Alle mie parole, il suo sorriso si spegne e gli occhi si adagiano di nuovo tra le righe del libro, negandomi così la possibilità di leggerlo dentro: «Solo una stupida caduta. Adesso continuiamo per favore, non ho voglia di stare qui per tutto il pomeriggio» dice stizzito.

Non so se credergli o meno, ma decido di non andare troppo a fondo perché potrebbe smettere di rispondere alle mie domande. Se adesso voglio una risposta, dovrò rivolgermi a lui in modo cauto e gentile.

«Posso vederlo?»

«Perché dovresti vederlo?» mi domanda contrariato.

«Te l'ho detto. Voglio verificare che sia tutto apposto»

Mi guarda accigliato per lunghi minuti, cercando di capire cosa sia meglio che faccia. Poi risponde: «Mi fa solo un po' male»

Non mi accontento di quella risposta così strizzo gli occhi, come invito silenzioso ad ascoltare la mia richiesta.

Sospira, di nuovo: «Se te lo faccio vedere, la smetterai di torturarmi?» annuisco alla sua domanda. Poi, con poca convinzione, afferra il tessuto della felpa e inizia a tirarlo lentamente su per l'avambraccio e capisco che la situazione è grave quando al solo sfregare della manica contro la pelle il viso si accartoccia in una smorfia di dolore.

Una volta alzata la manica fino a metà braccio, riesco a vedere il braccio malconcio. E' arrossato, gonfio e una serie di ematomi occupano ampi lembi di pelle.

«Oh mio Dio, Collins, non sono un medico ma ha tutta l'aria di essere rotto! Dobbiamo andare al pronto soccorso e immediatamente!» dico con il tono di voce più alto.

«Avevi detto che avresti smesso di torturarmi» dice mentre torna ad abbassare la manica con una lentezza disarmante per evitare di farsi male.

«Sì, perché pensavo che il tuo braccio non fosse messo così male. Dobbiamo andare in ospedale!» asserisco mentre comincio a chiudere i libri per riporli dentro la mia borsa con frettolosità.

«La smetti di urlare?!» mi rimprovera con un sussurro mentre posa la mano sul mio braccio «Ti ho detto che non ne ho bisogno. Rispetta le mie volontà»

«Mi dispiace per te Collins, ma il tuo braccio è messo davvero male. Ne hai bisogno» continuo con tono quasi aggressivo. I suoi occhi si illuminano di nuovo della luce di rabbia di prima, ma non contesta, anzi, rimane fermo a fissarmi negli occhi.

«Perché non vuoi andarci?»

Ritira la mano dal mio braccio e torna a guardare il libro davanti a sé mentre con la mano chiusa a pungo regge la testa. Le spalle si curvano e il capo si china per poi rispondermi a denti stretti: «Non sono affari tuoi. Non voglio andarci e basta»

Sospiro pesantemente mentre getto la testa all'indietro. Se voglio convincerlo, dovrò per forza usare l'arte della persuasione e per realizzarla mi basta usare un tono gentile. Mi avvicino a lui, lentamente, per poi sedermi sui talloni: «Facciamo così: io non ti chiederò ulteriori spiegazioni, ma ti prego, andiamo all'ospedale» senza rendermene conto, poso una mano sulla sua gamba. Il mio tocco non deve sfuggirgli perché passa subito a fissarlo. Ritraggo immediatamente la mano mentre un altro tuffo al cuore mi coglie di sorpresa.

Sta tranquilla Bianca, non è stato nulla. Ricorda: tutto questo è solo frutto della tua immaginazione. Presto queste strane emozioni smetteranno di esistere per morire tra i resti del cuore.

Mi mordo il labbro nell'attesa, finché le sue labbra tornano a dare forma ai suoi pensieri: «E va bene, ma dobbiamo metterci giusto qualche minuto»

Sospiro e alzo gli occhi al cielo: «D'accordo, adesso andiamo però»

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L'odore forte di disinfettante si insinua dentro alle narici con prepotenza ed è così sgradevole che stento a sentire il resto degli odori che mi circondano, persino il profumo che indosso ogni giorno. Il bianco asettico delle pareti e i lamenti provenienti dalla stanza in cui si trovano tutti coloro che sono venuti al pronto soccorso, rendono l'atmosfera più inquietante di quella che dovrebbe essere.

Sospiro, rilassandomi sullo schienale della sedia della sala d'aspetto e cingendomi i fianchi con entrambe le braccia. Dylan, accanto a me, non smette di muovere nervosamente la gamba mentre tiene il braccio infortunato piegato e stretto al busto mentre la mano dell'altro braccio si trova sopra al ginocchio, ma dal rossore delle dita, il bianco delle nocche e i tendini in evidenza, deduco che stia stringendo la presa, come per resistere a qualcosa.

Cos'è che cerca di trascinarti via da questa realtà, per portarti all'interno di quella creata dalla tua mente?

«Ti fa male?» gli chiedo. Dylan sobbalza leggermente, come se lo avessi richiamato da un posto lontano.

Scuote la testa velocemente mentre serra la mascella e strizza gli occhi, come se dovesse mantenere la concentrazione per perdere la strada che gli permette di rimanere qui con me. Infine, ingoia rumorosamente per poi perdere totalmente la calma: «Si può sapere quando cazzo arriva il nostro turno?! Sono stufo marcio di stare qui» abbassa bruscamente il capo dopo aver alzato il tono di voce.

Sobbalzo appena, prima di posare una mano sulla sua e sussurrare: «Mancano solo poche persona, Dylan, il nostro turno sta per arrivare tranquillo»

Respira in modo affannato, come se fosse sull'orlo di un attacco di panico. Non posso starmene con le mani in mani, mi ripeto, così riprendo a parlare: «Nel frattempo io sono qui, sono qui con te, non ti lascio solo» gli accarezzo delicatamente la mano «Adesso respira insieme a me. Inspira»

Dylan, contro ogni aspettativa, segue le mie parole e i miei movimenti. Riprendo: «Espira» insieme buttiamo l'aria fuori dai polmoni. E continuiamo così finché Dylan non ha ripreso a respirare normalmente e aggiunge: «Scusa, è solo che odio gli ospedali. Odio l'odore di candeggina, i lamenti delle persone, i dottori che corrono da una parte all'altra dei corridoi per un'emergenza. Lo odio»

«Fa parte della vita, ci sono luoghi che sono più felici di altri. Non sei d'accordo?» annuisce alla mia domanda. Poi, come per magia, si rialza e poggia la testa al muro dietro di noi. Fa grandi respiri e quando si sente pronto, riapre gli occhi i quali sono velati da un leggero strato di lacrime.

Penso a qualcosa che possa farlo distrarre un po'. Nonostante mi sorprenda un po' che il grande Dylan Collins si faccia abbattere così facilmente dagli ospedali, provo un moto di compassione in questo momento, il quale mi porta a dire la qualsiasi cosa pur di mandare via quella nebbia di pensieri che gli oscurano la vista: «Almeno adesso so che se devo farti parlare, dovrò portarti in un ospedale» sorrido e una risatina soffocata fuoriesce dalle sue labbra qualche secondo dopo.

Ed è in quel momento che la voce elettronica richiama il numero attaccato al polso di Dylan e ci dirigiamo nella stanza apposita. Il dottore lo visita, muovendo il braccio lentamente e facendogli nel frattempo qualche domanda. Dylan risponde solo a quelle che gli convengono e mente su altre mentre il suo volto è accartocciato in una smorfia di dolore.

Dopo una radiografia il dottore ci avvisa che si tratta solo di una brutta slogatura al polso e che tutto tornerà a posto con un semplice tutore che dovrà tenere per qualche settimana, finché il gonfiore non sarà diminuito, così come il rossore.

Ma mentre il dottore è impegnato a mettere il tutore al braccio di Dylan, il dolore è tale che torna a strizzare forte gli occhi e serrare la mascella. Così, senza pensarci molto, mi avvicino a lui e gli stringo forte la mano. Non contesta, anzi, la stringe con più forza.

Da quest'angolazione riesco persino a notare la presenza di cicatrici lungo l'avambraccio: lunghe, forse profonde, ma non ho il tempo necessario di analizzarle perché vengono coperte dal tutore di colore blu.

Una volta usciti da lì, torniamo in macchina e per tutta la durata del viaggio restiamo in silenzio, il quale viene spezzato da lui solo quando scendiamo dall'abitacolo e iniziamo a camminare spalla contro spalla per il parcheggio semivuoto: «Non c'era bisogno che mi stringessi la mano, non era così grave come situazione» dice con voce glaciale.

«Ah, scusa se ho cercato di darti un po' di sollievo, non era mia intenzione offenderti» dico, acida. Aumento il passo «Tu non sai proprio cosa significa la parola gentilezza, non è così?»

Stupida io che avevo creduto anche solo per secondo che potesse avere anche lui un cuore dietro a tutte quelle facciate. Stupida io che ancora mi ostino a credere che ci sia ancora del buono nel cuore delle persone.

«Ho smesso di essere gentile e di vedere la gentilezza già da molto tempo»

«Sta tranquillo, si vede lontano chilometri» gli parlo da sopra la spalla ormai, poiché mi trovo di molti passi avanti. All'improvviso, però, la mia corsa viene fermata da delle dita che si stringono attorno al mio polso. Sono costretta a voltarmi e a ritrovarmi a pochi centimetri dal suo volto accigliato e gli occhi color ghiaccio di una sfumatura più scura e profonda.

Non parliamo perché sono i nostri sguardi a farlo.

E semmai dovessi riuscire a leggermi dentro, Collins, leggi questo: Ti odio per farmi sentire sempre una nullità, odio il tuo sentirti sempre superiore agli altri quando in verità sei tu ad essere così vulnerabile da dover gettare merda sugli altri per elevarti. Ti ho odiato in passato, ti odio adesso e ti odierò anche quando tra pochi secondi mi chiederai scusa.

Ah no, è vero, tu non chiedi mai scusa nelle situazioni in cui è necessario.

Allenta la presa, fino a lasciarmi completamente. Mi guarda da capo a piedi, poi apre bocca: «Perché hai insistito così tanto per venire con me? Tu mi odi, non dovresti comportarti così con me. Perché ti ostini a starmi vicino e a trattarmi con gentilezza?»

Dai suoi occhi non trapela nessuna presunzione, nessuna mania di superiorità, niente di niente, solo il volto di chi non riesce a capacitarsi di ricevere della gentilezza dagli altri. I nervi che avevo a fior di pelle si dissolvono velocemente dopo quelle parole e quello sguardo e quasi mi pento di quello che ho pensato e per quello che gli ho detto.

Cerco di utilizzare comunque un tono distaccato: «Perché ne avevi bisogno, idiota»

«Questo significa che non mi odi?»

«No, significa semplicemente che ti considero comunque una persona» soffio, perdendomi dentro al suo sguardo, il quale si fa sempre meno severo. Il colore cristallino dei suoi occhi viene messo in evidenza dai raggi del Sole che ci colpiscono sul fianco e uno strano gioco di ombre si viene a creare attorno ai tratti del suo viso.

Per un secondo mi si mozza il respiro.

E questo adesso cosa significa? Perché il cuore ha preso di nuovo a battere leggermente più forte? Sarà sicuramente dovuto al fatto che gli ho rivelato che per me, per quanto male possa avermi arrecato e per quanto odio nutri per lui, non smetterò mai di considerarlo come essere vivente da rispettare in quanto tale.

Il nostro gioco di sguardi viene interrotto proprio da Dylan, il cui sguardo viene attirato oltre la mia figura e il volto torna a corrugarsi. Poi mi prende per un braccio e comincia a tirarmi verso l'entrata della scuola il più velocemente possibile.

«Collins, ma che ti prende?» cerco di opporre resistenza, ma da un lato scelgo di seguirlo perché non so da cosa stiamo scappando.

«Muoviti ragazzina, non fare domande» saliamo i gradini ed entriamo dentro la scuola. Dylan a quel punto mi lascia e si riavvicina all'entrata per guardare fuori. Mi avvicino a lui, cercando di capirci qualcosa. Una volta davanti alla porta finestra, eccolo che lo vedo: l'uomo che giorni fa si aggirava qui per la scuola e che aveva persino parlato con Dylan. E' poggiato contro la sua macchina e con le braccia incrociate al petto si osserva in giro.

«Cazzo» sento imprecare Dylan al mio fianco, mentre batte la mano stretta a pugno sul vetro. Solo allora sembra accorgersi della mia presenza. Il suo sguardo si indurisce nuovamente e sembra essere tornato il Dylan di tutti i giorni.

«Stammi a sentire ragazzina» dice avvicinandosi a me «Per oggi ti accompagno io a casa. Tu va a prendere ciò che abbiamo lasciato in biblioteca, io vado un attimo in bagno»

Che stronzata.

«Non c'è bisogno che mi accompagni a casa» dico contrariata.

«Non è il momento di contestare le mie scelte, ragazzina. Ti ho detto che ti riaccompagno io a casa. Adesso va a recuperare le cose in biblioteca»

So che non mi sta dicendo la verità, ma faccio come dice e mi dirigo in biblioteca per poi tornare all'entrata e trovarlo appoggiato al muro mentre mi aspetta.

Sembra scosso, come se gli fosse successa qualcosa nel mentre che io ero via, ma scelgo il silenzio e con quest'ultimo che ci accompagna, usciamo da scuola per dirigerci alla sua macchina.

Con mio grande stupore, quell'uomo non si trova più qui e qualcosa mi fa intuire che Dylan ci abbia parlato.

La macchina rallenta in prossimità di casa mia, accostando vicino al marciapiede che precede il vialetto di casa mia. Una volta fermi, scendo dall'auto e lo ringrazio. Dylan non mi guarda neanche, ricambia le mie parole con un semplice e veloce segno del capo.

Chiudo lo sportello e la sua auto sfreccia via sotto ai miei occhi e lasciando dietro di sé solo il fumo dello scarico. Una volta che mi volto trovo mio fratello Alex sulla soglia di casa, appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate al petto e lo sguardo pensieroso, segno di un brutto presagio.

Lo raggiungo e subito esordisce con: «Io e te dobbiamo parlare»

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