18. Voglio essere egoista

CORRETTO

Silenzio. E' l'unica cosa che sento.

Silenzio. E' il rumore che riempie le mie orecchie.

Silenzio. E' ciò che produce la mia voce.

Il traffico scorre sotto i suoi occhi mentre i miei non riescono a distrarsi da lui, che respira affannato e porta una mano di fronte alla bocca.

Avanza di un passo, barcollando un po' e l'idea che prima mi aveva sfiorato la mente, torna prepotente a gridarmi nella testa. Il silenzio viene sostituito dal rumore del pericolo, dalla paura di assistere ad una scena del genere. Il silenzio viene risucchiato per lasciare posto ai rumori della città che tornano ad essere percepiti dalle mie orecchie.

Devo fare qualcosa.

«Dylan!» grido, correndo verso di lui, ma mi blocco a qualche metro di distanza. Ha il volto perso, rigato dalle lacrime, inconsapevole di quello che sta per fare, offuscato da qualcosa più grande di lui.

Poi, si volta verso di me e quando posa i suoi occhi acquosi nei miei, una fitta mi trapassa il petto.

«No, no, ti prego non lo fare» gli trema la voce, alza una mano nella mia direzione e quasi perde l'equilibrio.

«No, sono io che ti chiedo di restare fermo dove sei! Sei ubriaco, Dylan, non fare qualcosa di cui ti potresti pentire!» provo ad avanzare di qualche passo, ma la sua voce rabbiosa mi blocca: «Non ti muovere da lì! Non ho bisogno del tuo aiuto, ragazzina!»

«D'accordo. D'accordo, non mi muovo, ma ti prego di restare fermo» la paura mi fa appannare di nuovo la vista.

Ma so che devo essere forte adesso. Lui ha bisogno di qualcuno che lo sorregga adesso perché si sente cadere.

Riprendo, avanzando così lentamente da non farlo rendere conto: «Non fare questa cosa stupida, Dyl. Non porta a nulla di buono»

Quel nome, uscito dalle mie labbra involontariamente, assume una melodia davvero piacevole alle mie orecchie.

Ma sarà solo colpa dell'alcol, perché io non merito di usare un nomignolo affettuoso per rivolgermi a lui.

Porta la bottiglia alle labbra, ne beve una buona quantità prima di scoppiare a ridere: «Ma senti un po' chi parla» si volta a guardarmi, «La ragazza che ha provato a buttarsi giù dal tetto della scuola»

Beve di nuovo, rischiando di perdere nuovamente l'equilibrio.

Scatto in avanti per paura che si possa spingere oltre il marciapiede e finire investito dalle auto. Ma mi blocco, di nuovo: «Hai ragione, ma io non ero sola, c'era qualcuno con me che, nonostante non lo dimostrasse, era preoccupato per me e mi ha salvato la vita»

Avanzo ancora, molto lentamente e con le mani tese verso di lui. I suoi occhi rimangono inchiodati ai miei, ma non riesce a rendersene conto di ciò che sto facendo. I brividi mi fanno accapponare la pelle, sia per quegli occhi acquosi, vuoti, privi di colore e speranze, sia per l'adrenalina causata dalla paura di veder realizzare di fronte a me una catastrofe.

Riprendo, cercando di nascondere la paura della voce e iniziando a sorridere dolcemente: «Quel ragazzo, quel giorno, mi ha detto che non sarei riuscita a farlo. E aveva ragione, lo sai?» prendo una pausa, continuando a muovermi così lentamente che lui non riesce a percepirlo.

O forse, sotto sotto, nella parte più nascosta del suo cuore e la parte più razionale di lui, non vuole notarlo.

Mi aggrappo alla seconda possibilità per darmi quel coraggio necessario per continuare a parlare: «Perché fare una cosa del genere fa davvero paura, anche se ci sono tutti i motivi di questo mondo, anche se sembra l'unica soluzione. Non è così, ci sono infiniti modi per uscirne. Quello che conta è la volontà di volerne uscire»

Sembra riflettere sulle mie parole, poi torna a ridere e allarga le braccia: «Io non ho paura, non più ormai. Quello che provo è nulla e l'unico modo per sfuggire al peso che grava sulle mie spalle è questo» indica la strada, iniziando a sorridere, «Io non voglio sentire più nulla, definitivamente, perché non c'è più niente che mi faccia sentire vivo, ragazzina» si volta, come a voler proseguire, ma si ferma solo ad osservare la strada, le macchina sfrecciare alla velocità della luce mentre un sorriso torna ad allargarsi sulle labbra. Stavolta, però, il labbro inferiore comincia a tremare.

«Io non voglio più sentire nulla» ripete, cercando di convincersi a voler veramente quello.

Ma per quanto solo e perso ti senti adesso, dentro di me sento che in verità tu non vuoi questo. Quello che vuoi non è mettere fine alla tua vita, ma torna a sentire qualcosa.

Arrivare a questa consapevolezza, mi fa comprendere davvero quello che io sto cercando disperatamente da tre anni a questa parte.

Lo stomaco si stringe e la gola si secca, ma continuo a parlare: «Ti capisco perfettamente perché ci sono passata anch'io. So cosa significa vivere nella speranza di tornare a provare qualcosa, cercare di ricordare ogni sera quello che riuscivi a provare un tempo, convincerti giorno dopo giorno che non riuscirai più a provare quelle emozioni, a provare qualcosa» mi blocco per via del tremore alla voce, «Ma pensa alle persone che ti circondano. Digli come ti senti, permettigli di aiutarti, lascia che ti aiutino a sentire di nuovo qualcosa»

Perché se tu dovessi andartene, io cosa farei?

Mi mancheresti, mi mancherebbe il tuo sorriso, la tua voce, i tuoi tocchi leggeri, il tuo sarcasmo, le tue battute, la tua arroganza, ma anche la tua gentilezza e soprattutto il modo in cui mi hai fatto provare qualcosa quando il resto delle persone non c'era riuscito. Mi mancheresti e non saprei spiegare bene il perché.

«Non essere egoista, perché questa decisione non farà smettere il dolore, ma ne causerà altro alle persone che ti vogliono bene»

Avanzo ancora, ormai solo qualche metro ci separa.

«Perché è più coraggioso chi continua vivere in questo mondo di merda, che quelli che si lasciano andare a queste soluzioni. Quelli sono i codardi!» grido, nella speranza che le mie parole possano penetrare nella sua mente e forse anche a me stessa, per ricordarmi che io sono egoista, ma non così tanto da decidere di porre fine alla mia vita e portare del dolore alle persone che mi stanno attorno.

Ormai le lacrime lasciano solchi lungo le guance quando lui torna a guardarmi con uno sguardo gelido, impassibile, la fronte corrucciata e la mandibola serrata: «Sai una cosa, ragazzina? A me non frega proprio un cazzo passare per un codardo, così come non frega più un cazzo delle persone che mi stanno accanto perché, per una fottuta volta nella mia vita, voglio essere egoista!» grida anche lui scaraventando a terra la bottiglia di vetro che si frantuma in mille pezzi una volta toccato l'asfalto.

Sobbalzo per lo spavento, mentre lui continua ad alzare la voce: «Ho passato la mia intera vita pensando a quello che avrebbero voluto gli altri, ma adesso ho deciso che è arrivato il momento di fare ciò io voglio!» una lacrima gli cola lungo la guancia mentre la sua voce si disperde nel vento, «Non ho più le forze per combattere» confessa alla fine, distendendo i muscoli del volto, delle spalle e sciogliendo i pugni dalle nocche ormai bianche, come se il suo corpo si stesse arrendendo alle sue volontà.

Ma io non lascerò che tu lo faccia.

«E allora trova qualcuno per cui vale la pena. Trova qualcuno che sia il tuo rifugio dai problemi. Trova la tua àncora in questo mondo!» grido ancora, tanto da farmi bruciare la gola e aumentare i battiti del cuore.

Questo è il mio ultimo tentativo per farlo ragionare, altrimenti dovrò iniziare a correre verso di lui e tentare di salvarlo con le mie forze.

I suoi occhi mi fissano per lunghi e interminabili secondi e più passa il tempo, più riesco a vedere crollare le sue sicurezze, la sua volontà, la sua apatia.

Riesco a vederlo, riesco a vedere dentro a quel mare in tempesta il motivo per cui stai decidendo di continuare a respirare, per cui stai scegliendo di vivere. Non so chi sia, ma lo ringrazio di esistere perché ti sta permettendo di restare ancora a galla e vicino a me.

Poi, un lamento proviene dalle sue labbra e presto si trasforma in una serie di singulti che gli fanno vibrare il petto e tremare il labbro inferiore. Le lacrime continuano a solcargli le guance, mischiandosi al sapore amaro della birra che ha bevuto mentre cerca in tutti i modi di trattenere il dolore dentro di sé.

Ad un certo punto, come se si fosse risvegliato da un sonno profondo, porta le mani tra i capelli scombinati e comincia a guardarsi attorno respirando affannosamente. Le sue labbra continuano a ripetere qualcosa che alle mie orecchie risulta incomprensibile, come un mantra per calmare il panico che lo sta cogliendo alla sprovvista.

Poi, come se fosse privo di forze, si poggia sulle ginocchia con entrambe le mani mentre il fiato corto si mischia al pianto silenzioso. Il suo corpo viene scosso interamente da tremori e con difficoltà riesce a reggersi in piedi mentre annaspa, alla ricerca di aria.

Mi rimetto le scarpe con qualche difficoltà, prima di correre verso di lui e trascinarlo con forza lontano dal ciglio della strada. Nel farlo, finisco col far cadere entrambi a terra, lontano però dai vetri della bottiglia che poco prima ha rotto Dylan.

In posizione supina, guardo il cielo coperto di stelle sopra le nostre teste e con le lacrime agli occhi ringrazio il cielo di come sia finita, ringrazio le mie parole per aver fatto breccia nel suo cuore e soprattutto nella sua mente.

Sposto lo sguardo su di lui, steso accanto a me nella mia stessa posizione e il petto che vibra per via del pianto silenzioso.

Grazie per aver fatto la scelta giusta. Grazie per aver scelto di restare accanto a me.

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Con un braccio attorno alle mie spalle, Dylan si aiuta nel mettere un passo dopo l'altro senza rischiare di cadere. Lo lascio sedere vicino all'albero del giardino della casa di Matt, il quale è rimasto con i piedi piantati sul prato a qualche metro di distanza da noi.

Tiene le braccia incrociate e, anche se lontano, riesco a distinguerne perfettamente l'espressione corrucciata.

A grandi passi lo raggiungo.

«Perché a casa mia?» dice, una volta davanti a lui, serio, fermo.

Sapevo che avrebbe reagito così, soprattutto dopo la discussione che abbiamo avuto alla festa, ma in quel momento mi è venuto in mente solo lui per potermi aiutare. Così l'ho chiamato e suo fratello ci ha portati a casa loro.

Mi arriccio un ciocca di capelli attorno al dito: «In verità è sulla casa sull'albero» gli faccio notare, cercando invano di smorzare leggermente la tensione tra noi.

Sorrido a disagio mentre lui inarca un sopracciglio, aspettando che continui a esprimergli la mia motivazione nel portarlo qui. Alzo gli occhi al cielo: «Perché Alex e mia madre si trovano a casa, in chissà quali condizioni. Non sapevo dove portarlo, visto che a casa sua non vuole andarci ridotto così»

Matt scioglie il nodo di braccia e sospira pesantemente. Lancia un'occhiata oltre le mie spalle, dove sicuramente si trova Dylan per poi tornare ad osservarmi con aria meno dura e più comprensiva.

«Posso sapere almeno cosa è successo di preciso?»

Un brivido freddo mi percorre la schiena a quelle parole. Ingoio a fatica prima di rispondere: «E' ubriaco e ha cercato di buttarsi in mezzo al traffico»

«A voi due piace tanto scherzare con la vita, eh?»

«Matt, ti prego» congiungo le mani, «Sarà solo per questa sera, o forse finché non vorrà tornare a casa»

Matt rimane in silenzio a fissarmi attentamente negli occhi, prima di sospirare ancora e rilassare completamente i muscoli del volto: «E va bene, ma mi devi un favore»

Sorrido: «Grazie Matt»

Vorrei saltargli al collo e stringerlo forte, ma mi trattengo per via delle parole che ci siamo detti alla festa e continuano a ritornarmi alla mente.

«Non sei tu quella che mi deve ringraziare, ma lui»

«Fai finta che siano da parte sua. Sono sicura che lo farà quando potrà» alle mie parole, Matt arriccia il labbro inferiore e alza le spalle, come se dubitasse fortemente di una situazione del genere.

«Tu puoi dormire a casa però»

Scuoto la testa: «Grazie, ma preferisco stargli vicino durante questo momento difficile»

«Come preferisci» sprofonda le mani dentro le tasche dei jeans mentre continua ad osservarmi, come se volesse aggiungere qualcosa, «Buonanotte, socia»

Quel nomignolo, mi fa saltare un battito, così come il sorriso timido che mi rivolge. Questo significa che non ce l'ha veramente con me e che probabilmente ha già messo una pietra sopra alla nostra discussione.

Sorrido di riflesso: «Buonanotte, socio» ci scambiamo l'ultimo sguardo, fatto di sorrisi deboli e sguardi carichi di comprensione, mentre entrambi indietreggiamo di tanti passi prima di voltarci e continuare per la nostra strada: lui verso casa sua, io verso la casetta sull'albero che ci ha visti crescere al suo interno.

Ma il sorriso mi muore sulle labbra quando non vedo più Dylan seduto sotto all'albero. Corro verso la scala e col cuore a mille le salgo velocemente. Quando lo trovo seduto vicino alla piccola finestra, nell'angolo in cui la luce della lampada posata a terra non arriva, tiro un sospiro di sollievo prima di entrare nella casetta e prepararmi un posto comodo in cui dormire con la coperta che ha portato prima il fratello di Matt.

Mentre io cerco di farlo sembrare il più simile possibile ad un letto, Dylan si sdraia e si copre con la coperta. Faccio finta di nulla e lo imito. Una volta al caldo, sotto le coperte, mi sento quasi in dovere di interrompere questo silenzio imbarazzante, iniziando a parlargli della prima cosa che mi viene in mente dentro questa casetta.

Sorrido debolmente: «Questa casa l'hanno costruita i nostri padri. L'hanno realizzata in questo giardino perché quello di casa mia è troppo piccolo. E, visto che odio mio padre, non ti nascondo che mi fa male stare qui» la vista si appanna, «Ma se questo significa starti accanto, allora sono contenta di sacrificarmi»

Mi rendo conto delle parole che ho detto quasi subito e maledico mentalmente l'alcol per non porre nessun freno alla mia lingua.

Mi volto a guardarlo. Mi dà le spalle, la testa è l'unica parte visibile del suo corpo dall'involucro di coperte. Non risponde, non emette nessun suono e così capisco che non è in voglia di conversare con me.

E le comprendo tutte le tue ragioni. Non deve essere facile parlare quando la tua testa grida, ti urla cosa fare e cosa non fare, chi ascoltare e chi no, cosa credi sia migliore e cosa no.

Spengo la luce e mi volto sul fianco sinistro mentre il nodo alla gola mi impedisce quasi di respirare e le lacrime agli occhi sono così copiose che non riesco più a distinguere le pareti di legno, le tende di cotone realizzate dalle piccole manine di Matt e dalle mie, il tavolino in legno e le sedie così piccole da risultarci impossibile sederci.

«Buonanotte, Dylan» aggiungo con voce tremante, prima di sprofondare in un sonno profondo.

La mattina seguente, un forte mal di testa non mi permette di abituarmi velocemente alla luce che entra dalla finestra e quando mi metto a sedere il volto si stropiccia in una smorfia di dolore.

Dylan è già sveglio e fissa fuori dalla finestra. Mi concedo qualche secondo per ammirarlo da lontano.

«Sento che mi sta per scoppiare la testa» sussurro, cercando di attirare la sua attenzione, «Credi sia colpa dell'alcol?» parlo più forte, sperando che stavolta mi rivolga la parola.

Ogni mio tentativo è vano e mi basta questo silenzio prolungato per colpirmi dritto al cuore.

Cosa credevi facesse, Bianca? Che ti rivolgesse la parola? Che ti raccontasse qualcosa di lui? Che ti dicesse cosa l'ha portato a fare una cosa del genere? Continui ad aspettarti tanto dalle persone, quando in verità non ti devono nulla.

«E va bene, ho capito. Non sei in vena di parlare» mi metto in piedi, cercando di ignorare il dolore alla testa, «Starai pensando del perché ti trovi in una casetta di merda, insieme alla persona che, non solo ti ha salvato, ma che odi con ogni fibra del tuo corpo» afferro con rabbia la coperta da terra e inizio a piegarla, «Quindi smettila di fissare fuori dalla quella finestra e và via. Non c'è neanche bisogno che mi ringrazi, mi basta averti restituito il favore»

Come se si basasse su quello...

Finalmente il silenzio viene spezzato: «Non pensavo a quello» mi blocco e lo guardo, «Pensavo alle parole di una persona, mi aveva detto che sarei finito così un giorno e io ho promesso che non sarebbe mai accaduto» un sorriso debole compare sulle sue labbra, «Guarda come mi è finita» soffia, prima di chiudere gli occhi e sospirare.

Dopo qualche secondo, si volta a guardarmi. Trattengo il respiro perché la bellezza dei suoi occhi mi colpisce in pieno. Si alza con movimenti lenti, quasi calcolati e avanza verso di me fino ad arrivare ad una spanna dal mio viso.

Il cuore accelera dentro la gabbia toracica e quella fastidiosa sensazione nello stomaco torna a farsi sentire, prepotente, mentre i nostri occhi rimangono incollati. Con una mano mi sfiora la guancia, iniziando ad accarezzarla con il pollice.

Ad ogni tocco, sento la pelle scottare.

«Hai pianto» osserva, facendo sicuramente riferimento al trucco colato ieri, «Spero non sia stata colpa mia, ragazzina» dice in tono scherzoso e un altro debole sorriso gli fa gonfiare le guance.

Sì, è stata anche colpa tua brutto idiota, perché se non avessi provato a buttarti in mezzo al traffico, io avrei continuato a piangere per la discussione avuta con Andrew, mi sarei alzata da quel marciapiede e sarei tornata a casa facendo finta che non fosse successo nulla. Invece no, a quella brutta sensazione di non essere sicuri più di chi si è, hai aggiunto la paura di perdere una persona di cui non ti importa e non sapere nemmeno il perché.

Scuoto lentamente la testa e sorrido di riflesso: «Ma figurati, per te?» lo indico con un dito, «Mai» confesso, sentendo una stretta al cuore.

Il sorriso muore sulle mie labbra. Fissare questi occhi pieni di dolore e privi di gioia, fa riemergere la paura di perderlo. E così faccio l'unica cosa che non mi sarei mai aspettata di fare: lo abbraccio. Lo stringo forte, il naso premuto contro il suo collo e gli occhi chiusi: «Ma non fare più una cosa del genere»

Sotto al mio tocco, percepisco i suoi muscoli irrigidirsi, ma lentamente si sciolgono e trova il coraggio di sfiorarmi la pelle. Non mi risponde, forse perché non vuole più promettere qualcosa che probabilmente è in grado di non rispettare.

Te lo prometto.

Dillo, Dylan. Promettimelo, promettimi che non ci proverai mai più.

«Grazie per ieri sera, ragazzina» riesce a dirmi, prima di restare in questa posizione per altri lunghi minuti. Per una frazione di secondo, mi sembra persino di sentire la presa stringersi attorno ai miei fianchi, come se fosse riuscito a trovare un appiglio per non annegare.

Durante l'intera giornata a scuola, non scambiamo nemmeno una parola. Lui torna ad essere il ragazzo di sempre, nascondendo così bene il dolore che finisco quasi per chiedermi se tutto quello che abbiamo vissuto insieme sia stato solo il frutto della mia immaginazione.

Matt non riesce a fare a meno di farmi notare di starmi divorando le unghie: «Ti si è proprio fottuto il cervello» commenta, con un mezzo sorriso sarcastico mentre chiude l'anta dell'armadietto con un po' troppa forza, per poi poggiarsi contro.

Alzo gli occhi al cielo mentre mi avvio verso la mia classe e Matt mi segue: «Sto solo pensando che forse Sofy ha ragione, non è poi così male»

«Sofy? Sofy, la nostra amica? Quella a cui dovresti dire la verità?» chiede, sarcastico.

«Sì, proprio lei» arresto la mia camminata per voltarmi verso di lui, «Le parlerò oggi»

«Non puoi, non c'è per via della sbronza che si è procurata perché il cavaliere Dylan l'ha lasciata da sola nel bel mezzo della serata»

«Allora le parlerò domani» faccio per andarmene, ma Matt mi blocca per un braccio e mi rivolge uno sguardo serio.

«Fallo direttamente questo pomeriggio»

Questo pomeriggio è troppo presto, non saprei nemmeno come dirglielo.

Il cuore perde un battito, ma mi convinco che questa sia la cosa giusta da fare e che questo sia il momento perfetto.

Qualsiasi sia il sentimento che provo per Dylan, devi finire qui e subito. Buttaci una pietra sopra, Bianca, fai finta che non sia successo nulla e allontanalo da te.

E così, annuisco. 

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