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7.
All'incontro con Jason e sua madre ripenso tutta la sera.
Dopo aver messo Kelly a letto mi concedo un bagno bollente al profumo di vaniglia e lì, immersa nella schiuma mentre un jazz composto molto prima della mia nascita risuona nella stanza, rifletto sul bambino e sulla dolce innocenza della sua età.
Charlie è uscito con un collega, una serata bowling tra soli uomini che mi regala qualche ora per me stessa.
Non gli ho mai chiesto come i suoi amici maschi affrontino la questione Vivian, ho sempre dato per scontato che non ne parlino e basta, che davanti a una birra commentino il football, la politica, qualche inarrivabile modella o attrice, non le loro vite private.
Forse mi sbaglio, ma non mi interessa smentirmi.
Mentre l'acqua bollente mi coccola il mio cervello ricorda l'ultima volta che ho visto quel bimbo.
Era il primo giorno di scuola, quando andammo davanti alla classe di nostra figlia per spiegare perché il suo banco sarebbe rimasto vuoto per sempre.
Ci sono tantissime perifrasi utilizzabili per la morte: volare in Cielo, diventare un Angelo, raggiungere Dio o qualche parente già scomparso.
Quando mi toccò trovare le parole per spiegarlo a un gruppo di bambini di dieci anni scelsi la metafora dell'Angelo e aggiunsi qualcosa sull'essere sempre al loro fianco e proteggerli.
Seduti al tavolo della cucina per decidere cosa dire io e Charlie decidemmo subito di evitare la parola morte, preoccupati che fosse troppo forte.
Era sciocco, perché il concetto sarebbe stato quello, il fatto era quello, la loro amichetta era morta e non l'avrebbero mai più rivista, ma volevamo spiegarlo, non dirlo.
Per questo ci colse alla sprovvista la domanda di una bambina in prima fila, Zoe, che ci domandò, come se fosse la cosa più naturale del mondo, se fosse morta mentre dormiva.
Non fece giri di parole, non cercò altri termini, non scandagliò il suo vocabolario da quarta elementare per trovare un termine alternativo, meno forte.
"Vivian è morta dormendo? Mia nonna sì, la mamma dice che non se ne accorgono ed è più facile."
Le risposi di sì, che dormiva, ma di nuovo evitando di dire morte e qualsiasi parola direttamente connessa.
Non importava cosa quella bambina avesse detto, io dovevo evitare di dire "morte".
Ragionandoci ora capisco quanto fosse stupido.
Il giorno più triste della nostra vita era stato un martedì di inizio Agosto.
I genitori dei compagni di classe di Vivian, così come le insegnanti e le famiglie della classe di Kelly, sapevano da diverso tempo che non ci sarebbe stata nessuna festa di guarigione per nostra figlia, ma era piena estate e la maggior parte era fuori città per le vacanze, così pochissimi furono presenti al funerale.
Ne fui quasi sollevata, non volevo gente intorno, non volevo parlare con nessuno, evitare gli abbracci e le condoglianze di chi sarebbe tornata alla propria vita poco dopo la funzione quando la mia vita era finita lì, davanti a una bara bianca.
Solo più avanti, quando con la fine dell'estate casa mia divenne luogo di una dolorosa processione di condoglianze e visite tardive, mi toccò capire che non mi potevo sottrarre al modo in cui ci insegnano ad affrontare i lutti degli altri.
Per questo andammo davanti a una classe di quinta elementare a parlare – senza parlarne- della morte di nostra figlia, perché da qualche parte, in qualche area antica del nostro cervello, sapevamo che si doveva far così, che era culturalmente giusto e che, forse, qualcuno se l'aspettava.
Furono due ore complesse, le domande dei bambini risvegliarono in noi sensazioni che cercavamo quotidianamente di anestetizzare, ma alla fine ne uscimmo quasi felici. Avevamo dato agli amici di Vivian le risposte che meritavano, quelle che potevano capire.
Qualcuno pianse e gli dicemmo che era normale, che anche noi piangevamo spesso, qualcuno tirò fuori qualche ricordo e la maestra appese una sua foto al muro vicino la libreria.
Sono passati quasi sei mesi da quella giornata, non ci avevo mai ripensato e probabilmente se non avessi incontrato Jason non l'avrei fatto neanche oggi.
Come Kelly abbia affrontato – e stia ancora affrontando- la morte di sua sorella è una cosa che non capisco.
Ci sono momenti in cui corre da me e piange perché le manca, altri in cui ne parla come fosse ancora qui.
Un paio di volte mi sono sentita in dovere di dirle "amore, ma lo sai che Vivian non c'è più, vero?" per rispondere al suo parlarne eccessivamente al presente. Ma a lei la morte della sorella era chiarissima, semplicemente diceva che questo non le impediva di sentirla vicino.
Non ho mai approfondito molto il suo rapporto con il lutto, mi sono limitata alle linee guida da manuale; non aumentare la sua paura della morte, coccolarla ma senza viziarla, rispondere alle sue domande senza essere evasiva.
Ci siamo impegnati molto nell'evitare ogni "quando crescerai lo capirai meglio", perché trovavamo sbagliato rimandare la sua elaborazione del lutto al poi, lasciando un vuoto che avremmo dovuto colmare chissà quando.
Io ricordo bene il mio primo lutto, avevo dodici anni ed era mia nonna paterna.
Io ero più grande, lei era anziana, era tutto così naturale.
Prima o poi doveva accadere, era scritto nel lungo processo di crescita, come il primo bacio, il diploma.
Per Kelly è tutto diverso, non era qualcosa con cui si sarebbe dovuta confrontare, e lo stesso quei bambini amici di mia figlia che un giorno si sono sentiti dire "Vivian non c'è più".
Sarà vero che il dolore fa crescere? Che chi ha tanto sofferto è una persona più buona, più empatica e altruista?
Possibile la vita mi abbia chiesto questo, seppellire mia figlia per regalare al mondo una Kelly adulta particolarmente sensibile e generosa? Un angelo in terra e uno in Cielo?
Non me lo voglio chiedere più.
Non voglio litigare col Destino, con Dio, con la vita.
Con la morte.
Più calda dell'acqua della vasca una lacrima mi scende lungo il viso.
Vorrei che l'universo premiasse il mio pacifismo con meno dolore.
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