5.
Lavoro in un grosso studio legale a metà tra ciò che resta delle Torri Gemelle e Wall Street, in uno di quei grattacieli che tutto il mondo vede spesso in televisione o al cinema.
Ufficio al ventottesimo piano, finestroni enormi, arredo di design e segretarie con vestiti di marchi famosi, questa è la mia quotidianità.
Mi occupo di cause civili per grandi aziende, sono uno dei tanti avvocati in uno di quei team che spesso diventano oggetto di serie Tv e danno l'impressione che sia un lavoro fighissimo, sicuramente più di quello dello spettatore.
In realtà è un lavoro come un altro, fatto di lunghe riunioni del cazzo e controparti capaci di inventarsi ogni genere di scusa per protrarre all'infinito cause risolvibili anche da una matricola di giurisprudenza nella più schifosa università del paese. Anche se le matricole solitamente non hanno gli interessi economici che spingono un sacco di gente benvestita a intasare le aule dei tribunali.
Un tempo il lavoro mi piaceva un sacco.
Era un modo come un altro per sentirmi adulta, realizzata. Felice.
Mi sentivo arrivata, come dicono alcuni, avevo trovato il mio posto nel mondo, era un bel modo di portare soldi a casa e metterli da parte per spenderli con la mia famiglia durante le vacanze.
Non avevo l'impressione di essere organizzata male, di non dare alle mie figlie il tempo che meritavano perché troppo impegnata in ufficio, anzi pensavo di essere la regina dell'organizzazione: io a lavoro, loro a scuola e sport, poi quando era vacanza per tutti si stava insieme.
D'altronde, mi illudevo, una buona madre lavoratrice è sempre capace di andare agli incontri genitori-insegnanti, raccontare una fiaba della buonanotte e preparare una colazione senza cibi preconfezionati sette giorni su sette.
La malattia di Vivian ha portato una serie di scomode consapevolezze con cui non farò mai pace e mi ha costretta a scegliere un part time che mi hanno accordato subito perché, evidentemente, è uno di quei tanti modi in cui la gente pensa di aiutare una genitore che ora racconta favole della buonanotte a fotografie e lapidi.
lavoro dalle nove alle quindici con una pausa di mezzora in cui fingo di interessarmi ai pettegolezzi delle colleghe ancora non sposate, e mi sembra superfluo spiegare perché abbia smesso di provare a parlare con altre mamme-lavoratrici.
Do qualche consiglio sentimentale, giudico gli abiti di qualche star o collega, che in quel momento sembrano proprio equiparabili, e la cosa finisce così, tra il sedano di quella perennemente a dieta e il mio terzo cheeseburger della settimana perché mi sono di nuovo dimenticata di prepararmi il pranzo a casa.
Quando mia figlia era malata non lavoravo, vivevo con lei in ospedale in una situazione che, per una triste ironia, ricordava molto quella dell'università: letti scomodi, tanto caffè e l'ansia ogni volta che si sentiva la parola esame.
La nostra stanza era relativamente in alto, ma a volte salivo sul tetto a fumare con Dorothy e da lì si vedevano bene un sacco di grattacieli, forse anche quello dove fino a poche settimane prima andavo tutti i giorni a lavorare fingendo fosse la cosa più figa del mondo.
Per un po' ho pensato di dimettermi definitivamente.
Anzi, ad essere precisi all'inizio ho provato a renderlo un patto con Dio; mentre cercavo una spiegazione a tutta quella merda mi ero detta che poteva semplicemente essere una punizione per il mio lavorare troppo. Dedicavo poco tempo alle mie figlie, ero una cattiva madre e il Signore mi aveva chiaramente punita.
Così ho provato a fare un patto, a dire che se si fosse salvata avrei mollato tutto e sarei vissuta solo per loro due.
Avrei voluto dire che mi sarei messa a fare un terzo figlio, mai voluto né stato in programma, ma quando è nata Kelly ci sono state una serie di complicazioni che hanno posto definitivamente fine alla possibilità di allargare naturalmente la famiglia.
E poi un figlio è un dono, e vista la situazione sicuramente non lo meritavo.
Non so dire se ho sbagliato a pregare, se forse sarebbe stato corretto prima dimettermi e poi chiedere di salvare la mia bambina, se semplicemente neanche Dio può intervenire o se, ancora più banalmente, non esista.
Però alla fine lei è morta e io sono tornata a lavorare.
Part time, tipo compromesso: mi è rimasta una figlia sola, quindi lavoro solo metà del tempo.
Passo molte ore a fare ragionamenti del cazzo simili a questo, a scommettere e promettere cose per me difficili pur di convincermi che ci possa essere una realtà diversa.
Non lo dico a nessuno, neanche a Thomas, forse l'unico che non mi prenderebbe per matta.
Non lo dico perché non ha senso parlare di cosa mi inventerei pur di riaverla qui con me, cosa darei in cambio.
Credo sia un comportamento normale, ma non ho mai chiesto neanche a Charlie cosa ne pensa, se qualche volta anche lui sarebbe pronto a dare qualsiasi cosa pur di rivedere nostra figlia.
È troppo razionale, lui, impegnato nel suo andare avanti a tutti i costi, preoccupato di esser morto con lei senza rendersene conto.
Ci sono giorni in cui mi sembra che l'elaborazione del lutto sia una stronzata inventata da uno che non ha mai visto morire nessuno che amava. Non si può elaborare senza capire, ma cosa posso capire di questo? Non è una questione religiosa, filosofica, sociale.
Non c'è scritto in nessun libro cosa fare quando tua figlia muore.
C'è scritto cosa fare quando un figlio muore, come nei siti internet, come nelle parole di Thomas.
La psicologia, nel tempo, ha studiato e capito cosa succede nella mente di un genitore quando un figlio muore, quali meccanismi entrano in gioco, come si può impedire che sia un continuo soffrire senza senso per tutti.
Ma in nessun libro, in nessun sito, in nessuno studio scientifico c'è scritto "cosa deve fare Ophelia ora che Vivian è morta".
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top