Tre metri sopra...


Tre metri sopra al Pero.

Tu c'eri. Io c'ero.

La mattina aveva appena imbrattato il cielo coi suoi colori. Schizzi di alba avevano disegnato meglio di un pittore le nuvole vuote e sfilacciate all'orizzonte.
Vestita alla rinfusa afferravo il mio libro e correvo fuori, superando lo sguardo silente di mia madre... che di silente aveva poco e niente.
Solo che quel mattino, non avevo voglia di restare a interpretare le sue occhiate. Dio l'aveva fornita di una lingua. E che lingua! E che avesse parlato, allora. Se ne avesse sentito il bisogno.
Magari quel bisogno lo sentivo io, ma poco importava. Di una figlia storta, cosa restava?

La fresca aria mattutina picchiava e alleviava le mie guance infuocate.
Non c'era l'ora dell'appuntamento: restava un tacito invito, aperto a ogni ora e a ogni giorno.
Restava il momento in cui, fra la fitta vegetazione in fiore e il cinguettare degli uccelli, respiravo aria a pieni polmoni... Aria per i miei polmoni.
Restava l'unico momento in cui, con un gesto imminente e repentino, il vuoto si colmava, il nero era luce, le ossa rotte... sanate.

Bastavano i primi sassolini sotto le suole a far sì che leggiadri pensieri spazzassero il lercio fra gli anfratti più reconditi e celati.
Quelli dove non basta una mazza a spaccarti il cranio per farteli tirare fuori. Quelli dove ci si nasconde volentieri, lontano dal mondo, che ormai ti sembra solo una palla informe e insensata. Ingiusta, ingrata. Impavida e scortese lama che viola la pelle immacolata.

Tre passi, e parto da zero.
Altri tre passi, e sono sotto al Pero.

Infilavo il libro nella cinta dei pantaloni, a volte piccoli, a volte grandi, a volte bucati in precedenza dai miei fratelli.
Spingevo, ma con troppa efficienza, e il libricino calava fin dentro la mutanda.
Sorridevo, mi vergognavo, l'innocenza perduta a volte faceva ritorno.

Rimettevo tutto a posto, libro, cinta e la mutanda a fiocchi rosa, che tirava, proprio lì, e mi faceva male. Mettevo le mani sul cavallo dei pantaloni. Due strattoni. Come i bimbi maleducati. E l'elastico tornava in sede, tra la coscia e la Papessa.
Odiavo quelle mutande. Troppo strette, troppo infantili, troppo piccole per sorreggere certi pesi che sboccavano fiele dalla testa fino a raggiungere proprio quei fiocchi.
Ma non era il momento di pensare a cose ingiuste e tristi, a cose che mi avrebbero preso a cinghiate per tutta la vita fino a vederne il sangue fresco schizzare ogni volta.
Quando ero lì, quelle mutande mi piacevano, in fondo erano l'unica cosa di femminile che io indossassi.

Mi arrampicavo, e le braccia nude mi graffiavo.
La corteccia si incastrava a dovere fra piccoli lembi di pelle. Mi sforzavo, ansimavo, avvinghiata a quel tronco nemmeno fosse la mia ancora di salvataggio.
Insistevo, e fra i rami mi sedevo; a tre metri da terra, a innumerevoli dal cielo.

"Suzy! Hai perso questo!" gridava dal basso il mio amichetto. Sventolava un involucro viola, prima di restare a guardarlo incerto.

Tu c'eri, io c'ero. Tre metri sopra al Pero.

"Ma cos'è sto coso?"

"È un assorbente, cretino. Sali!" rispondevo.

"Un assor..." restava perplesso. "Bah! Ora vengo."

Si cacciava l'assorbente in bocca per poi arrampicarsi come un felino. Svelto, sinuoso, e senza fatica. Ah! Come lo invidiavo...
Io che mi sfregiavo gomiti e ginocchia nelle caldi estati, quando a malapena riuscivo a tener su una maglia extra-large che mi faceva da vestito.

"Tieni" diceva seduto accanto a me, restituendomi quel coso tutto stropicciato.

"Che schifo! C'è la tua bava sopra!" ridevo per poi spiaccicarglielo in faccia.

"Beh! La fine che deve fare non è delle migliori. Sono certo che non si è scandalizzato per un po' di saliva."

Il silenzio calava così, tra le nostre risa e i pettirossi in grembo.

"Ma quindi... Ora se ti bacio... resti incinta?"

Il libro trovava posizione stabile sulla sua fronte. "Ma che dici, stupido!" continuavo a ridere. "I bambini mica si fanno con un bacio!"

"Bah! Mica lo so. Papà non ha voluto dirmi niente."

"Nemmeno i miei."

"E come lo sai?"

"Lo so. Punto e basta."

Restavo a ciondolare i piedi nel vuoto, mentre lui spostava le natiche per avvicinare la sua gamba alla mia. Di più, sempre di più. Era troppo quello spazio che separava la carne da quel tessuto vecchio e sbiadito, accartocciato su se stesso talmente era vuoto.
Fissavo quei pantaloni, quelle grinze ripiegate fino a delineare vagamente la coscia. Li fissavo e li vedevo grandi, ingombranti, come la mia vita, le mie giornate. Li vedevo vuoti come la mia testa in quel momento.

"Mia madre dice che sono piccolo per certe cose."

"Aha. Ha ragione!" continuavo a masticare un chewing-gum che ormai sapeva di gesso.

"Pure la tua dice lo stesso?" mi chiedeva restandomi a fissare.

"La mia non mi parla mai."

"Che stronza..."

"Aha."

Il vento muoveva le foglie sopra le nostre teste. Mi solleticavano il collo, le braccia, il volto. Un brivido di vita percorreva la schiena fino a concentrarsi allo stomaco, vuoto per fortuna.
Sui rami, poco più là, due uccelli copulavano indisturbati nelle quiete.

"Ti ho portato questo" mi diceva, mentre una scatoletta veniva poggiata sulle mie gambe.

Lo guardavo negli occhi. Due gocce d'acqua. Chiare a tal punto da sembrare trasparenti, quel tanto che bastava a leggere dritto fra i suoi pensieri.

"È per me?"

Restavo sorpresa, basita, incredula. Quale pazzo, o stolto, avrebbe mai pensato a un regalo per la storta.
Per quella che Babbo Natale era morto ancor prima di venire al mondo.
Quella che al suo stesso compleanno spegneva la luce e si metteva a dormire, invece di spegnere le candeline.
Quella che restava in piedi la notte tra il cinque e il sei di Gennaio, e attendeva. Attendeva quella Befana che invece di lasciare la calzetta, magari l'avrebbe caricata sulla scopa e le avrebbe insegnato a volare.
La befana è cattiva, è una strega! Ecco perché non viene qui, mi dicevano.
Papà è il Diavolo, però è sempre qui a farmi regali, mi rispondevo.

"Allora? Lo apri o no?" il mio amichetto mi pizzicava il fianco.

"D'accordo. È solo che..."

"Che cosa?" Staccava un frutto dall'albero e dava morsi.

"Niente. Lascia perdere" tornavo a sorridere imbarazzata.

Col volto in fiamme, aprivo la scatoletta riciclata da qualche altro regalo finito al posto giusto.
Nascosto in un batuffolo di ovatta c'era il dono per me.

"È un anello" mi diceva. "L'ho fatto io con le mie mani." Era Soddisfatto, e con un'espressione di pura felicità lo infilava al mio anulare.

"Mi ha aiutato papà, a farlo."

Quella frase graffiava più del fil di ferro attorcigliato alla carne.

"È bravo tuo papà" rispondevo, tacendo tutto il resto.
Tutto quello che mi sconquassava mente e anima; il cuore no, quello lo avrei avuto malato già di suo.

"Mi vuoi sposare, Suzy?" si avvicinava e mi baciava la guancia.

"Quando saremo grandi?" posavo la mano sul suo bacio fresco al sapore di pera.

"Sì! Sì! Potremmo vivere qui. In una casa tutta nostra. Ci sarò io con te. E tu non piangerai più. E tu non avrai più paura."
Una lacrima scendeva sul suo viso vispo e innocente. Le sue dita continuavano a grattare via corteccia dall'unico testimone dei nostri incontri, della nostra promessa.

"E mi aspetterai? Cioè, ora siamo piccoli. Non... non possiamo essere moglie e marito. Non..."

"Sì! Sì che ti aspetterò, Suzy!"

Lo vedevo scendere di corsa giù per il tronco e disperdersi tra terra e erba. Sbirciavo tra i rami per capire dove andava, le sue intenzioni: "Ma cosa fai!" gli urlavo da lassù.

"Arrivo subito!" mi rassicurava.

Restavo a stringere il mio libro fra le mani, mentre faceva ritorno per riscaldare di nuovo quel posto accanto a me.
Teneva nella t-shirt un mazzolino di fiori di campo.
Selvatici, forti, resistenti, che avrebbero sopravvissuto all'arsura, proprio come sarei diventata io da grande.

L'odore si infondeva nelle mie narici e mi beavo nella magra consolazione che se fossi divenuta come loro almeno avrei avuto il mio profumo. Forse qualcuno mi avrebbe apprezzato, proprio come io apprezzavo loro in quell'istante.

Lo guardavo negli occhi senza dir niente, perché niente il mio cuore era abituato a dire.

"Ti aspetterò qui Suzy" parlava lui. "Tre metri sopra al Pero."

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top