16. Sorrow.
Quinto giorno
Inspirai profondamente prima di premere il pannello con le mie esili dita.
Le gambe mi tremavano e la presa era cedevole. Dovevo essere pronta e sentirmi tale se avessi voluto affrontarlo. Raccogliere tutto il coraggio che Sol mi aveva trasmesso e smettere di piangermi addosso.
Osservai il mio riflesso sul metallo che segnava l'ingresso alla sala d'addestramento del primo anno. Avanzai con passo deciso, premendo con forza i polpastrelli sul freddo ferro. Serrando le palpebre, attraversai la linea invisibile che mi avrebbe portato al suo cospetto, in attesa di una rivelazione.
Ma tale giubilo non arrivò.
Mi mossi incerta e stupida allo stesso tempo: non c'era nessuno ad attendermi o ad allenarsi.
Era uno scherzo? Il prezzo da pagare per la ribellione era quello di essere stata cacciata via?
Avvertii il ticchettio provenire alle mie spalle. Mi voltai inquadrando Sander superarmi a distanza di un paio di centimetri, fino a che non trovò posto sulla sedia minimale al centro della sala. Mi rivolse un sorriso bieco, prima di farmi un cenno di assenso. Era compiaciuto e soddisfatto di avermi al suo cospetto.
«Dove sono gli altri?» indagai sull'attenti.
«I ragazzi volevano andare a vedere la neve, sai, i bambini. Possono essere capricciosi, soprattutto se gli convinci di quanto sia stupendo sciare sui monti imbiancati.» Sorrise loscamente.
«Li hai corrotti per avere a disposizione l'intera sala?» Mi fece cenno di raggiungerlo.
«E la mia completa attenzione su di te.» Stanziavo al suo capezzale irrigidita e tormentata dal senso di imbarazzo che governava la mia mente.
«Come sapevi che...? Dopo l'ultima volta io devo chieder-»
«Non c'è bisogno che tu dica nulla. Immaginavo avresti cambiato idea: sono l'unico che può aiutarti. E ho promesso che lo avrei fatto a qualsiasi costo.»
Sorrisi tiratamente. Era vero. Che lo volessi o meno. Sorressi il suo sguardo, non mi sarei lasciata intimorire.
«Continuiamo da dove avevamo interrotto?» incurvò le labbra in una linea meno dura del solito, ma più impertinente.
Annuii.
Eravamo bloccati sui principi della concentrazione.
Il modo più semplice per farlo era lasciarmi smuovere dalle emozione che perturbavano la mia quiete fino a giungere alla fonte delle stesse. Percepivo ciò che avevo intorno: il vuoto, lo spazio. Lo sentivo... Ma non era abbastanza, dovevo progredire ed evolvere fino a bloccare il mondo attorno a me: le particelle d'aria dovevano fissarsi immutabili e cristallizzarsi nella loro natura statica.
«Non ci siamo... Non ancora.» Sander si alzò, ne ero sicura, nonostante non avessi aperto occhio percepivo i suoi movimenti con gli altri sensi. Quella volta mi sarei fatta guidare, non dovevo lasciare che la mia cocciutaggine vincesse sul buon senso. Avvertii i suoi passi riecheggiare, preceduti dal colpo randello contro il suolo. Stava monitorando la mia figura. Le pupille saettavano nelle più disparate direzioni sotto le palpebre tenute ben serrate. Lo stavo seguendo con la mente, in tondo, avvertendo ogni sua mossa. Respirai più profondamente.
«Ripensa ai momenti in cui hai voluto utilizzare i tuoi poteri. Ritorna a quegli istanti.» La mente vagò, indietro, fino a ritrovarsi nella stanza in cui avevamo salvato James. Stretta a lui in un angolo proteggevo mio fratello con tutte le mie forze.
Ingoiai la saliva: avevamo rischiato grosso quella volta.
«Era una situazione di pericolo...» risposi con un fil di voce.
«Sbagliato... Era una situazione in cui provavi rabbia.» Sorrisi. Aveva ragione. La sua voce arrivò distinta, aveva completato un altro giro.
«Ritorna ancora più indietro, Delaney... Ripensa ai tuoi genitori.» M'irrigidii, mentre il sorriso mi moriva sul volto.
«Cosa c'entrano loro?» domandai freddamente.
«Eccola. La rabbia... Avresti potuto salvarli, se solo avessi saputo dei tuoi poteri prima, non credi?» Strinsi ancora più forte le palpebre, serrando i pugni all'altezza dei miei fianchi. Non dovevo cedere alle sue provocazioni. Dentro di me l'animo diventò irrequieto.
Ero ira pura.
Aveva ragione, avrei potuto salvarli. Quel giorno sarei dovuta rimanere con loro.
Serrai le palpebre piegandomi in avanti sotto il peso delle sue insinuazioni.
«Ripensa ai loro corpi... Privi di vita. So che li hai visti... Era già scritto. Dovevano morire, affinché tu venissi a conoscenza di questo mondo.» Erano tutte stronzate. Nessuno avrebbe dovuto farlo, non doveva accadere niente del genere!
«Ti sbagli...» farfugliai. Ero sul punto di cedere, non ce la facevo più. La testa pizzicava, come anche gli occhi. Crollai sulle mie ginocchia, tappandomi le orecchie con i palmi delle mani: non volevo ascoltare altro.
«Sono morti! Delaney, loro sono morti! E sai di chi è la colpa?» Sander sospirò in un mio orecchio facendomi raggelare il sangue nelle vene e bloccando la mia spina dorsale.
Basta.
Ti prego.
«È tutta colpa mia!» urlai liberando intorno a me un'onda di energia inafferrabile.
Abbandonai le braccia penzoloni mettendo a fuoco tutta la rabbia che avevo percepito. Volevo terminare quella tortura e c'ero riuscita riversando quei sentimenti negativi il più lontano possibile da me.
«Colpa mia... Colpa mia...» ripetei con un fil di voce, mentre con gli occhi fugavo gli spilli di Sander che mi puntavano indagatori e opprimenti.
Sander afferrò una mia spalla distogliendomi dai pensieri funesti, per poi sussurrarmi "tu sarai la loro salvezza."
«Perché mi fai questo?» indagai con la voce rotta dal pianto. Cedetti ulteriormente sotto il mio peso del mio corpo gettandomi a terra. Strofinai il volto indurito dalle copiose lacrime.
«Dovevo testare i tuoi limiti e c'eri quasi. Hai tenuto finché necessario. Siamo sulla strada giusta, Delaney.»
«Come ne puoi essere certo?» domandai afflitta e sconsolata.
«Il tuo bracciale. Se non fossi crollata nella disperazione, saresti riuscita nell'intento di farlo attivare.» Osservai sbigottita il mio polso. Era vero, quell'oggetto mostrava più onde del previsto e un'irrequietezza che non gli avevo visto assumere neanche durante la lite con Colton.
«La colpa è di Shark, per la morte dei tuoi genitori.»
Tirai su con il naso, mentre riprendevo le forze che avevo abbandonato. Non c'era nessuna sfumatura di malizia nella voce di Sander. Non voleva consolarmi, ma solamente ricordarmi contro chi avrei dovuto canalizzare la mia forza.
«Per oggi terminiamo qui. Sei stata brava, davvero.» Sander sorrise lieto. Mi porse una mano, che afferrai per potermi rialzare da terra. Ero esausta, ma speravo di poter continuare con gli allenamenti. L'insegnante notò il cipiglio formatosi sul mio volto.
«Sei rimasta in quello stato per quattro ore, Delaney. Hai il pieno controllo sulla concentrazione.» Osservai la punta delle mie scarpe annuendo sorpresa. Ben quattro giri di orologio. Il tempo era davvero relativo.
Piegai il capo di lato, capendo di essere di troppo e con lo sguardo spento mi diressi verso l'uscita. Sander aveva imparato a conoscermi ancor prima che gli avessi concesso una vera opportunità. Sbottai sarcastica: gli importava di me, più di quanto non facessi io stessa. Ma io che sapevo veramente di lui?
Mi irrigidii sotto scacco da quel pensiero.
«C'è qualcosa che non va?» domandò Sander oltre le mie spalle. Voltai impercettibilmente il volto, lasciando che la porta si aprisse senza che io ne fuoriuscissi. Il pannello di metallo si richiuse subito dopo.
«Posso sapere cosa ti è successo? Alla gamba.» Modulai il tono di voce poiché mi vergognavo. Ma avevo voglia di mettermi in contatto con il suo vero io. Lui aveva compreso il mio dolore senza che glielo avessi spiegato, toccando tasti della mia anima che bruciavano e che sempre lo avrebbero fatto. Era il genere di supplizio che solo chi lo aveva vissuto poteva intuire.
«Vai sempre dritta al sodo tu, eh, ragazzina?» scherzò bonariamente. «Mi piace. Vuoi la versione breve o quella lunga?» propose, ritornando a sedersi sulla stessa sedia di quella mattina. Scrollai le spalle, indecisa.
«Bene, e che intermedia sia.» Sorrisi, stava cercando di mostrarsi gentile con quelle battute.
«Durante la Grande Guerra avevo dodici anni e frequentavo il secondo anno in Accademia. Mio padre, Mark, era così orgoglioso di me... Il suo primo genito. Nonostante i miei genitori si fossero separati e lui avesse trovato Lyza come nuova compagna, era sempre stato molto presente nella mia vita. Come avrai appena intuito, io e Christopher condividiamo lo stesso padre, ma non la stessa madre. La mia era una donna di una bellezza e dolcezza straordinaria. Estremamente premurosa e capace di aiutare chiunque fosse in difficoltà. Aveva utilizzato i suoi poteri per diventare capo soccorritrice delle squadre di recupero. Era un lavoro difficile e molto pericoloso, a quei tempi. Lei e i suoi compagni erano gli inviati da campo che curavano i feriti e si prendevano cura di chiunque fosse nello spazio adimensionale che chiedesse aiuto. Quando avevo dodici anni successe che il Consiglio decise di inviare una squadra in un avamposto militare da cui non si ricevevano notizie da diversi giorni. Sentivo che sarebbe stato rischioso per lei. Non aveva alcun addestramento speciale! Così decisi che l'avrei protetta. Mi teletrasportai nella sala di viaggio aggiungendomi al gruppo della spedizione all'ultimo istante, aggrappandomi a mia madre con tutte le mie forze. Lei fu sorpresa quanto me, quando capì ciò che avevo appena fatto. Credevo fosse stata la scelta migliore: chi avrebbe potuto tenerla al sicuro se non io? Padroneggiavo il mio potere e avevo un'ottima tecnica di spada. Ma non sapevo che non avrei potuto pensare niente di più sbagliato.
Quel viaggio in cui era stata inviata mia madre si era rivelata una missione suicida: una trappola congeniata da Shark e il suo braccio destro. E fu proprio lei ad accoglierci. Appena comparsi Melissa tranciò di netto le teste dei viaggiatori più anziani senza che neanche se ne accorgessero. Avevo sentito tanto parlare di lei: le era stato riconosciuto il titolo di primo seggio e ciò significava che non aveva eguali nella scherma. Era una stratega nata di un acuzie eccezionale: per poter sconfiggere l'avversario, lo metteva alle strette distruggendo a una a una le sue speranze. E così aveva fatto, eliminando gli unici viaggiatori capaci di guidarci nello spazio-tempo. Eravamo bloccati lì, pagando le conseguenze di quell'agguato senza che potessimo fare nulla per difenderci.
Scorgendo la mia esile figura dinanzi il corpo di madre, gli occhi di Melissa si illuminarono. Si aggettò per sferrare il suo colpo con l'intento di uccidermi, ma... La sua lama oltrepassò il torace della donna che mi aveva messo al mondo e che si era buttata in avanti per proteggermi. Il sangue sgorgava dalla ferita lacerata a fiotti, mentre la tensione nelle braccia di mia madre venne meno con il passare dei secondi. Non ci misi molto a capire che stesse morendo, ed era stata tutta colpa mia.
La vidi accasciarsi al suolo, mentre tossiva fiumi di liquido vermiglio. Allungò una mano nella mia direzione prima di esalare il suo ultimo respiro e perdere la luce negli occhi, sempre. Scioccamente credetti di poter fare qualcosa. La rabbia si impossessò della mia mente, facendo esplodere il mio animo nell'onda più pura di odio che io abbia generato. Ma inutili furono i miei sforzi di farle del male: era sempre un passo avanti. E, quando decise che fosse il momento di farla finita con i giochetti, mi tranciò di netto la gamba.» Spalancai le palpebre fremente di disgusto e dolore. Doveva essere stato orribile tutto ciò.
Lui sorrise. «Ti starai domandando come io possa essere ancora vivo.» Alzò un angolo della bocca rammaricato. Era una smorfia di afflizione quella che comparve sul suo volto. «Avvertirono immediatamente mio padre della mia intrusione in quel viaggio non programmato. Come responsabile delle squadre dei viaggiatori era suo dovere richiamarmi all'ordine: così raccolse i suoi sottoposti più fidati per procedere al mio recupero. Ma ciò che vide appena giunto alle coordinate stabilite, fu qualcosa che turbò il suo equilibrio per sempre. Appena prima che la spada di Melissa riuscisse a colpirmi una seconda volta, lui si gettò al mio fianco, urlando di dolore e facendomi da scudo con il suo corpo. Tutto ciò che vidi prima di perdere i sensi furono le sue iridi spente fissare il corpo senza vita di mia madre.
Mi svegliai dopo un paio di giorno in un letto dell'infermeria. Mio padre era ritornato vittorioso dalla battaglia, salvando il resto dei soccorritori e riportando due profondi tagli che erano nulla rispetto al dolore che si portò dentro da quel giorno. La verità era che lui aveva perso tutto e ancora non lo sapeva.
Mi sostituirono la gamba con una protesi di ultima generazione, dicendomi che non avrei mai potuto essere un viaggiatore completo. Ci misi un paio di anni per controllarla e abituarmici. Utilizzare i miei poteri diventava sempre più difficile. Mi consigliarono di abbandonare tutto. Ma non volevo.
Avevo promesso a me stesso che avrei vendicato la morte di mia madre e non mi sarebbe importato quanto duro avessi dovuto lottare o fin dove mi sarei dovuto spingere. Non fraintendermi, sono rabbioso e avventato, sono incazzato ogni dannato giorno della mia vita da quando ho memoria, ma ho trovato il modo per sfruttarlo a mio vantaggio: guidando giovani promesse affinché non commettano i miei stessi errori.»
Il cuore cedette sotto il peso di quella triste storia. Afferrai la maglia all'altezza del petto: non sbagliavo sul suo conto. Il suo tormento era il mio. Ingoiai la saliva acida che permeava nella mia bocca in attesa delle parole corrette da pronunciare. Ma la verità era che non c'era nulla di corretto da rivelare, nessun arcano da scoprire. Quella era la realtà e avrebbe sempre fatto così male.
«Mi dispiace» sussurrai impietrita. Lui fece un cenno con il capo, prima di spostarsi verso la porta ancheggiando malamente a causa della protesi. Ogni passo era accompagnato dal ticchettio del bastone contro il legno, segnando il tempo come un metronomo invisibile.
«Dispiacerà sempre a tutti. Accettalo, prima che ti corroda l'anima.»
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