Tramonti Arancio Passione

Leto: «Dissi a mio padre che non lo volevo» asserisce il duca di Caladan, guardando l'anello che adorna il suo anulare: il fregio di casa Atreides. «Volevo fare il pilota.»

Paul: «Non me l'hai mai raccontato.»

Leto: «Tuo nonno diceva:  Un grand'uomo non cerca di essere un leader: è chiamato a esserlo, e risponde. E se la tua risposta è no, Paul, sarai comunque ciò che volevo tu fossi: mio figlio. Ho trovato la mia strada. Troverai la tua.»

Non è che un attimo fuggevole, un fremito che corre sottopelle. Si irradia dalle sinapsi fino a propagarsi alle ossa, ai muscoli. Muta in fuoco liquido che dal basso ventre risale come magma. Poche parole che pompano più sangue del dovuto al muscolo cardiaco, che perde un battito, per poi riprendere una corsa sfrenata. Una folgore aranciata saetta nelle iridi, scure come la notte, del duca Atreides.

«Padre, ti senti bene?» chiede Paul preoccupato, osservando il viso del genitore incupirsi. Il baluginio dei fulmini di una tempesta in avvicinamento riverbera in uno sfarfallio discontinuo di scintille sulla distesa in sempiterno movimento delle acque di Caladan, e negli occhi di un uomo che ha vissuto più vite di quante possa ricordarne, forse. Così come non ha mai rivelato a Paul di quando ha imparato a volare.
Squarci aranciati fendono il cielo plumbeo del freddo pianeta equoreo, e il cuore di Leto.

Volevo fare il pilota.

Bastano quelle quattro parole e i fendenti che irrompono nella caliggine di un cielo cinereo a riportare, alla memoria di un padre maturo, la leggerezza di segrete passioni, di estati infuocate che scottano ancora sulla pelle di un calore cui Leto non è avvezzo. Tornato agli inverni dell'animo mite e pragmatico che il destino gli ha assegnato in sorte, il ricordo di una spensieratezza lontana gli rammenta cosa lo ha reso l'uomo che è oggi, impedendogli di forzare suo figlio a un destino che non sente suo.
Rimpianto? No. Una consapevolezza di sé acquisita proprio nella fase di ricerca della propria identità, che ha forgiato il duca di Caladan a un'apertura inusuale per gli uomini del suo rango.

«Sto bene, Paul», Leto batte una pacca amorevole sulla spalla di suo figlio che s'allunga, poi, in una carezza sul viso fresco di una giovinezza, piena di incertezze, che un tempo appartennero anche a lui.
Si specchia negli occhi limpidi di Paul, Leto. Gli stessi di sua madre: Jessica. La donna che il duca ama con tutto se stesso.

Eppure quelle quattro parole – Volevo fare il pilota – sortiscono l'effetto di un uragano di emozioni sopite, che esigono di essere rivangate nel momento in cui la vita di Leto sta per cambiare radicalmente. Da casa Atreides dipendono le sorti dell'Imperium. Da quello che riuscirà a fare per il bene di Arrakis. Il destino dei mondi è nelle sue mani. E quando il peso si fa schiacciante la lieve brezza dei ricordi si fa strada tra le pieghe della memoria.

Chandrila – Pianeti del Nucleo, Settore di Bormea

Il riverbero del sole bagna le ciocche ondulate, colore del cioccolato, di una nuance dorata che si irradia fino alle pupille cosparse di un caleidoscopio di pagliuzze auree. Lo stesso sole che cola lungo il profilo dei muscoli imperlati di sudore, guizzanti lungo le braccia che paiono cesellate nel marmo. I raggi aranciati del tramonto rilasciano ipnotici giochi di luce tra le anse sinuose dei bicipiti e sulle vene pulsanti, in evidenza, che si snodano sugli avambracci tonici, temprati dall'allenamento costante, dalla presa salda sulla cloche mentre compie innumerevoli manovre durante la sessione di volo.

«Stanco, pivello?»
Non ha che un paio d'anni meno di me, il giovane istruttore. Un refolo di fiato sbuffa dalle labbra disegnate in un arco perfetto tra la barba ispida che gli incornicia il volto regolare. Gli solleva il ciuffo di ricci scuri e ribelli che gli ricade sulla fronte, con insistenza. Il piglio strafottente dei suoi occhi mi fa sentire una nullità. Un balocco che rigirerebbe facilmente tra le sue mani robuste, da calciare via, poi, senza ripensamenti.

Vinto da una calura a cui non sono abituato, soccombo allo spietato sarcasmo del quale sono diventato oggetto nelle ultime due settimane. Sebbene più giovane di me, Poe Dameron è già stato promosso al grado di comandante. Addestrato dal generale Wedges Antilles, è il suo pupillo. Il fiore all'occhiello dell'Accademia di Hosnian Prime, da già due anni.

Figlio d'arte, mi dicono i miei compagni: suo padre è il sergente Kes Dameron; sua madre, il compianto tenente Shara Bey. Eroici combattenti dell'Alleanza Ribelle, reduci vittoriosi della battaglia di Yavin 4. Non proprio uno qualunque, questo damerino rompicoglioni.

«Che c'è? Sua Altezza si è offeso? Ho urtato in qualche modo la sua spiccata sensibilità?»

I palmi dietro la schiena, appoggiata contro uno scoglio, serro i pugni – che vorrei sferrare sulla irriverente faccia da cazzo che mi sfida – fino a imbiancare le nocche. Desisto. Troppa fatica, fa caldo. Siedo mollemente sulla sabbia bianca, dopo l'ennesima esercitazione, durata un paio d'ore scarse, durante la quale l'istruttore damerino mi ha spremuto come un'arancia matura. E arancio è il colore che vedo tutt'attorno. Nel cielo che si colora sul finire del giorno. Nel simbolo della fenice che troneggia sulle fusoliere degli ultimi X-Wing, che solcano il cielo sopra di noi, di ritorno agli hangar. Nella tuta ignifuga che, damerino, quel maledetto, sfila con lentezza estenuante fino a lasciar penzolare la parte superiore lungo i fianchi. Lo guardo, di schiena, sollevare la canotta a ripulire il grasso del motore che gli macchia la fronte. Scorre la stoffa dell'indumento lungo la mascella squadrata. Le bretelle nere si poggiano sulle terga prominenti, che spiccano nonostante lo spesso tessuto della divisa arancio fuoco che, a sua volta, appicca un incendio nel mio basso ventre. Sposto lo sguardo sulla sabbia fine del Mar d'Argento di questo magnifico pianeta tropicale. Le guance a fuoco, fantasie inappropriate si rincorrono, alimentate dalle movenze lente, studiate, pregne di consapevolezza e mascolinità del damerino, faccia da cazzo, che mi fissa. Mi brama in un'espressione che m'inchioda. Potrei giurare lo stia facendo di proposito, se la sua fama di sciupafemmine non lo precedesse.

Del resto anch'io, a vent'anni anni, non sono un novellino. Dunque mi stranisce il turbamento che provo in presenza di un coetaneo, per giunta più giovane, il quale ostenta una tale sicurezza da farmi dubitare di me stesso.

«Perché ci siamo fermati qui?» chiedo, stizzito all'istruttore-despota.

«Una piccola avaria. Te l'ho comunicato via radio, quando t'ho detto di virare verso la spiaggia», replica quello con un luccichio sinistro nelle pupille colore del caffè, che riflettono le striature aranciate del tramonto che ci avvolge e paiono liquefarsi, incontrando le mie.

«Il vero motivo», sibilo con una sicurezza che non mi appartiene, dopo essermi rialzato ed essere avanzato di qualche passo verso il mio interlocutore il quale, per tutta risposta, sfilati i pesanti scarponi antinfortunistici e, seguitando a fissarmi, arretra a piedi nudi sulla sabbia fino a che le acque argentee non lambiscono i suoi polpacci. In un movimento scattante si china e prende a schizzarmi con foga. Istintivamente porto le mani all'altezza del viso. Lo zampillio delle gocce fredde evapora all'istante sulla mia pelle che è un tizzone ardente, nonostante la camicia, e mi provocano un sussulto scomposto. Ricambio con altrettanta veemenza, entrando anch'io in acqua e iniziando a rincorrerlo, sicché, braccata la preda, lo costringo schiena contro uno degli scogli che attorniano la piccola caletta. Resto fermo immobile. Un disperato bisogno urla dall'interno ma non ho il coraggio. La sua canotta zuppa non lascia più niente alla mia immaginazione. Il vivido spettacolo dei pettorali scolpiti, dorati dal sole, e dei due impudici pistilli color cioccolato eretti – dall'eccitazione, prego – mi provocano un languore irrefrenabile e il cavallo dei calzoni della mia divisa si tende oltremodo, in maniera dolorosa. La tuta fradicia e aderente ai fianchi è scesa sulle anche. Mostra il vello brunito che, dall'ombelico discende lungo la linea pubica. Provocatorio all'estremo, faccia da cazzo indietreggia al di sotto di uno spuntone di roccia dove un rivolo d'acqua marina sgorga come una cascatella. Gli occhi fissi nei miei, reclina il capo sotto il getto esiguo ma costante. Alza le braccia, accompagnando indietro i capelli scuri con le mani. La peluria bruna all'interno dell'alveo ascellare rimanda l'acredine del sudore mascolino misto a quello di nafta dei motori. Il mio cervello imprime a fuoco ogni dettaglio di quella visione ad alto tasso erotico. Schiude le labbra sotto il getto continuo dell'acqua, i polpastrelli ad accarezzare il contorno dell'arco schiuso in una "O" perfetta. Repentine, le dita affusolate scendono lungo il torace, soffermandovisi bene aperte, mentre i suoi occhi riflettono le infuocate strie aranciate del tramonto e, pieni di cupidigia sembrano implorarmi in una sfacciata provocazione quando lascia scorrere la lingua lungo il contorno delle labbra e intrufolando, indisponente, una delle mani all'interno della patta della tuta arancio in un invito ormai esplicito, osceno e irrinunciabile.

Resto immobile, inebetito. Lo desidero. Sta accadendo davvero? Sono paralizzato dalla paura e dalla mia inesperienza con persone dello stesso sesso. È lui a comprendere e venirmi incontro. Abbandona l'atteggiamento da puttana navigata e azzera la distanza dei pochi passi che ci dividono. Mi prende la mano. Con inattesa sorpresa, il piglio maliardo è mutato in uno più rassicurante che non credevo potesse appartenergli. Posa il mio palmo sulla sua guancia,  la barba pizzica e una scarica elettrica potentissima sferza la mia schiena. Bacia con lentezza ogni centimetro di epidermide bollente lungo le dita, fino alla punta dell'indice dove la lingua scorre lungo il polpastrello, mentre le labbra si serrano in una suzione voluttuosa.

«Sei timido, Altezza? Posso insegnarti a volare in molti modi, se me lo consenti.»

«Fatti fottere, Dameron.» È da tempo che voglio dirglielo e lo ansimo in maniera impudica, mentre il mio insulto viene recepito come un invito a nozze, nel mentre che la sua mano guizza, senza che abbia il tempo di realizzare, sulla mia eccitazione oramai incontenibile.

«Non aspetto altro, Altezza, che appropriarmi dell'unica verginità che sono certo tu possegga ancora. Voglio farmi fottere da te da quando t'ho visto», lo ringhia contro il mio orecchio. Il suo fiato caldo e speziato di tabacco e cannella solletica la zona sensibile, mentre i denti gentili mordono un lobo. La sua mano sapiente non smette di accarezzare il mio inguine. Vacillo, sono certo che le mie gambe stiano per cedere. Gli occhi rigirati al cielo, il mio palmo si sovrappone al suo, nella muta peccaminosa preghiera di incitarlo a muoverlo più velocemente. Il capo reclinato, le pupille scompaiono nelle orbite. Vedo tutto bianco. Poi nero. L'ultima cosa che ricordo è il tramonto arancio, lo stesso colore del fuoco nel quale Poe Dameron si contorce con me.

«Per il Creatore, sei morto, Altezza?»

Penso di sì. Di stare morendo tra le sue braccia. La giusta punizione per essermi lasciato vincere dalla lussuria in un contesto tanto inappropriato. Sono qui per diplomarmi alla scuola di cadetto.

Sento le sue braccia forti sollevarmi come un fuscello, le labbra calde mi posano un bacio delicato sulla fronte. Il suo cuore martella sotto la stoffa sottile della canotta, mentre mi stringe al suo petto. Mi adagia piano a sedere, sulla sabbia. Non ho le forze di riaprire gli occhi ma sento le sue mani accarezzarmi il viso, e alternare piccoli buffetti perché mi riprenda.

«Leto, Leto», mi chiama con premura,«stai bene, principino delicato?»

Riapro gli occhi e finalmente torno a fronteggiare l'istruttore irriverente. Mi isso a sedere, riprendendo contegno.

«Non c'è tempo per queste futili occupazioni, Dameron, cazzo! Il mio compito è difendere Caladan. Dio, se mi vedesse mio padre. E qui potrebbe vederci chiunque. La galassia di Leia Organa è sempre in guerra. Come fai a essere tanto superficiale?» Mi fingo indignato per riportare la situazione a una razionalità necessaria quanto assurda dopo essermi arreso alla mercé della carne e dei suoi desideri più bassi. E di colpo il piglio sardonico di faccia da cazzo muta in un'espressione seria che non gli si addice.

«Che cosa ti preoccupa? Il tuo paparino esigente che ti ha già deciso vita, consorte e destino? Oppure la guerra? Pensi di essere l'unico ad avere paura di un domani che potrebbe non arrivare mai? Ti vuoi punire in anticipo, Leto? A quello ci pensa già una sorte che non abbiamo chiesto.»

Le parole di Damerino mi schiaffeggiano in pieno viso. Da cosa voglio scappare? E perché. Sono sempre stato ligio a ogni regola, mai una trasgressione. E per cosa? Per morire perforato da una palottola o come una torcia umana nella carlinga in fiamme di un ornitottero?

Le uniche fiamme che mi ardono sulla pelle e voglio sentire addosso, sono quelle che mi bruciano di dentro ma che non fanno male. Quelle che mi provocano gli occhi lucidi, a tratti persi, di faccia da cazzo e la tenerezza, nel tocco delle sue mani, di cui non lo credevo capace.

Non ho risposte, nessuna certezza. Seguito a fissarlo sicuro del solo attimo presente e di una nuova consapevolezza acquisita quando non la cercavo: di volere lui e il suo tocco su di me. Ancora e ancora, fino a non esserne abbastanza sazio.

Mi legge l'anima. È un ragazzo irriverente ma sincero. Generoso pure nell'intimità. È questo che mi attrae così tanto di lui, oltre la bellezza. La strafottenza solo uno scudo.

Allunga la mano sulla mia guancia, col pollice traccia lievi carezze sulla mia gota in fiamme per l'emozione, che mi vince, e a cui mi arrendo. Il pollice, ora, traccia il profilo dell'arco di cupido, mentre la sua bocca, maestra, disseta la mia. Le lingue, avvinte in vortci ipnotici, mescolano sapori e sensazioni, godendo appieno il frutto succoso e maturo delle labbra tumide l'uno dell'altro.
Mi tira dolcemente i lunghi capelli, raccolti in una mezza coda, nell'impeto del nostro contatto, che rallenta, mentre torna a guardarmi tenero.

Una mano percorre la lunghezza delle ciocche corvine dei miei capelli fino alle punte. I polpastrelli indugiano sul mio petto. La camicia bianca della mia uniforme è semiaperta. Il pollice preme dolcemente contro l'incavo dell'indice nel punto ove il cotone leggero, bagnato dagli schizzi, ha reso visibili i capezzoli. Li vellica sapiente, al di sopra della stoffa umida, mentre si nutre delle mie labbra, mordendole piano, e mai smette di guardarmi negli occhi.

È sicuro di sé. Esperto. Non è un principiante nel solcare i cieli come nel liberarmi dai calzoni della divisa militare della mia casata, con la mano ancora libera, e impugnare i comandi della cloche del mio piacere titillando il meato uretrale, mentre il palmo caldo e ruvido percorre l'intera lunghezza.

Le sue labbra abbandonano le mie, che ansimano in maniera indecente sotto le sue carezze. Oramai, schiena contro le Scogliere di Cristallo, resto in balia dei suoi baci che discendono in scie umide dalla linea della mascella al collo. Con una mano mi prende entrambi i polsi, bloccandoli sopra la testa. Inarco la schiena dal piacere e gli offro le mie carni. Nudo, sotto il suo sguardo che è puro magma. Mi fissa prima di riprendere la sua dolce tortura. Il palmo teso della sua mano scorre dietro la mia schiena, per incoraggiare il dondolio del mio inguine che struscia contro il suo, ancora intrappolato dalla tuta arancio. Sadico, rallenta per prolungare il mio supplizio. Dopo avermi liberato completamente da ogni indumento, solleva le mie cosce sulle sue spalle, baciandone l'interno fino al solco delle terga. Desidero perdermi nella sua bocca ma lui, crudele, elude la mia erezione.

Risale sul mio petto glabro dove la sua lingua traccia arabeschi fluidi e concentrici intorno alle areole per poi passare con minuzia agli apici per un tempo indefinito che mi fa implorare il suo nome al cielo infuocato sopra di noi. Gemo senza ritegno come uno scolaretto alla sua prima volta.


Un fuoco d'artificio erompe nel suo palmo e lui, ruffiano faccia da cazzo, risale a baciarmi il viso, e ride contro le mie labbra assetate della sua bocca.

«È solo l'inizio, piccolo principe. Solo l'inizio...» Suona tanto di promessa da marinaio, lo so, ma è così potente il richiamo della sua voce di un tono più bassa per l'eccitazione. Sono privo di ogni barriera e lui sa che ne sono conscio, ancora scosso dai respiri affannati che non rallentano la loro corsa.


«Sei bellissimo, Altezza. Voglio bere il candore latteo della tua pelle di srta. Succhiarne ogni anfratto roseo. Sei stupendo, Leto.»

Con tenerezza mi bacia le guance. Poi, come fossi un fuscello, mi solleva tra le sue possenti braccia fino a che, immersi nel Mar d'Argento fino alle spalle, mi abbraccia, facendomi posare il capo sulla sua spalla mentre con una mano mi carezza schiena e capelli. Con l'altra lava via il mio seme, mentre cattura le mie labbra tra le sue in un lunghissimo bacio.

«Non penserai di cavartela così, Poe Dameron? Voglio il mio turno per assaporarti» esalo, esausto.

«È tardi, pivello. Dobbiamo rientrare o noteranno la nostra assenza. Ti aspetto in camera mia, dopo il coprifuoco.»

«Quale coprifuoco? Quello che infrangi ogni sera andando a fare bagordi, con Wexley e la vostra combriccola, in qualche bettola di Chandrila?»

«Qui qualcuno nota tutto. Ed è geloso, a quanto pare!»

Mi mostro indifferente mentre recupero un briciolo di dignità, insieme agli abiti.

«La mia divisa è abbastanza asciutta, tutto sommato. La tua è fradicia. Come ti giustificherai?» Chiedo ironico, pregustando le facce di Antilles e compagni di ritorno nella sede estiva dell'Accademia di volo.

«Su Chandrila fa molto caldo. Dirò che ci siamo dati una rinfrescata.»

Mi indirizza un sorriso concupiscente, con la malizia studiata della sua innata indole di seduttore, che toglie il respiro.

Stanotte sarò io a farti volare, bel pilota.

Spazio Autrice:

Sono impazzita? Forse sì, uscendo completamente di senno e, totalmente, dalla mia comfort zone avventurandomi in un genere che non mi appartiene. Dove c'è una sfida, però, là ci sono io.

Ho scelto il colore arancio perché è il colore della creatività. Simboleggia l'armonia ma anche l'espansione e l'ambizione. Dal punto di vista fisico, l'arancione è collegato agli istinti primari come la fame, l'energia sessuale e il movimento della muscolatura volontaria, quella che noi controlliamo, e Poe mi sembra un personaggio adattissimo per incarnare queste qualità. Leto mantiene la sua natura più riflessiva.
Mi sono presa la licenza di inventare una sede estiva dell'accademia di volo Hosnian Prime, su Chandrila, perché un pianeta dal clima particolarmente mite. Famoso per le Scogliere di Cristallo e il Mar d'Argento, fu una delle sedi del Senato della Repubblica, dopo la caduta dell'Impero Galattico e diede i natali a Ben Solo.

A livello temporale ho immaginato questo incontro quando entrambi sono ancora molto giovani e in preda agli ormoni (ma assolutamente consapevoli e maggiorenni), mi piaceva immaginarli così. La storia ha preso forma nella mia mente, quando vedendo Dune, al cinema, Leto pronunciò l'emblematica frase: "Volevo fare il pilota", provocando una risatina generale nel pubblico e un coro di Poe Dameron immediato 😅. Il colpo di grazia è arrivato a Natale, quando mi sono stati regalati i Funko pop di entrambi i personaggi e mio figlio ha prontamente provveduto ad avverare il desiderio di volare di Leto.

🤣🤣🤣🤦‍♀️🤦‍♀️

Anyway, tornando a fare la persona seria (che non mi si addice per niente, ma devo) questa storia partecipa al concorso indetto da WattpadFanfictionIT dal titolo "La genesi del tuo colore".


Ringrazio ValentinaGaribaldi per la copertina disegnata appositamente per questa ship uscita dalla mia fantasia.

Sperando vi sia piaciuta la #Dunepilot, a presto.

Nives 🧡.

Avviso ⚠️: questa fanfiction è stata pubblicata il 28 giugno 2022.

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