Epilogo - L'amore vive per sempre.
O mari di Caladan,O gente del Duca Leto...La cittadella di Leto è caduta,Caduta per sempre...–
dai «Canti di Muad'Dib», della Principessa Irulan – Dune
Paul sente che tutto il suo passato, tutta la sua vita prima di quella notte, sono diventati come sabbia che scivola in una clessidra. Siede accanto a sua madre, stringendosi le ginocchia, all'interno di una tenda di tessuto e plastica: una tenda distillante che hanno trovato insieme con le tute Fremen (subito indossate) nello zaino estratto dall'ornitottero.
Non c'è alcun dubbio, nella mente di Paul, su chi ha nascosto lo zaino, stabilendo con cura la rotta dell'ornitottero che li ha trasportati fin laggiù. È stato Yueh, il dottore, il traditore li ha spediti direttamente nelle mani di Duncan Idaho. Paul guarda fuori, attraverso il lato trasparente della tenda distillante, le rocce illuminate dalla luce della luna che circondano il rifugio dove Duncan Idaho li ha nascosti. Mi nascondo come un ragazzo, io che ora sono il duca, pensa Paul. Questo pensiero lo rode interiormente, ma non può negare che sia la soluzione più saggia. Qualcosa era accaduto alla sua percezione, quella notte: vedeva con assoluta chiarezza tutte le circostanze e gli avvenimenti intorno a lui. Non può saperlo ma, nell'attimo esatto in cui suo padre è spirato, lui e sua madre l'hanno sentito.
È incapace di arginare il flusso di quei pensieri. Con fredda precisione, ogni nuovo elemento si addiziona alla sua conoscenza, e i calcoli sembrano concentrarsi nel punto focale della sua coscienza. Ha i poteri di un Mentat, e più ancora. Paul ripensa all'istante di rabbia impotente, quando quell'ornitottero sconosciuto è sbucato fuori dalla notte precipitandosi su di loro, calandosi come un falco gigantesco sopra il deserto, mentre il vento sibilava fra le sue ali. Mentre scappavano, nella confusione generale, per cercare suo padre. Non lo avrebbero mai abbandonato.
Qualcosa aveva folgorato il suo spirito. L'ornitottero era scivolato sulla sabbia, dritto su di loro, giù per un'immensa duna, enorme al confronto delle due figure che correvano: sua madre e lui. Paul ricorda l'odore di zolfo bruciato causato dal violento attrito dei pattini del veicolo sulla sabbia crepitante. Sua madre si era voltata, convinta di dover affrontare un laser nelle mani dei mercenari Harkonnen, e aveva invece riconosciuto Poe Dameron che si sporgeva fuori dallo sportello dell'ornitottero, Paul aveva indovinato fin dal primo momento chi pilotava il velivolo. Tanti piccoli dettagli sul modo di guida, l'atterraggio fulmineo: indicazioni così impercettibili che avevano fornito a Paul l'esatta consapevolezza di chi sedeva ai comandi. Sull'altro lato della tenda distillante, Jessica gli comunica «Ci può essere un'unica spiegazione. Gli Harkonnen hanno preso la moglie di Yueh. Lui odiava gli Harkonnen! Non posso sbagliarmi su questo. Hai letto il suo messaggio? Ma perché ci ha salvati dal massacro?»
Non cercate di perdonarmi – aveva scritto Yueh. – Non voglio alcun perdono. Il mio fardello è già abbastanza grave. Ho agito senza alcuna speranza di comprensione. È stato il mio tahaddi al-burhan, la mia prova suprema. Vi lascio il sigillo ducale degli Atreides come testimonianza che dico il vero: quando leggerete questo messaggio, il duca Leto sarà morto. Possa consolarvi la mia dichiarazione che non è morto da solo; colui che odiamo più di tutti è morto con lui. Non c'era firma, ma non c'erano dubbi su quella calligrafia familiare: si trattava di Yueh.
Ricordando il messaggio, Paul rivive l'improvvisa angoscia che lo aveva colpito: qualcosa di strano, di acuto, che sembrava manifestarsi al di fuori della sua nuova abilità mentale nei mesi subito precedenti al loro trasferimento su Arrakis.
Ha appena avuto conferma che suo padre è morto, riconoscendo l'autenticità di quelle parole, ma le ha percepite come una pura informazione da incasellare nella sua mente per usarla in seguito.
Ho amato mio padre, pensò Paul, sa che è vero. Dovrebbe piangerne la scomparsa. Dovrebbe sentire qualcosa, ma non prova nulla, al di fuori del fatto che è una notizia importante. È soltanto un fatto, come gli altri. Per tutto questo tempo la sua mente ha continuato ad accumulare impressioni sensorie, estrapolando e calcolando. Le parole di Halleck, il suo maestro d'armi, gli ritornano alla mente: L'umore va bene per le bestie o per fare all'amore. Non è fatto per chi combatte. Forse è proprio così, dice Paul tra sé. Piangerò la morte di mio padre più tardi... quando ne avrò il tempo.
Significa forse, questo, essere lo Kwisatz Haderach?
«Vogliono che non sopravviva uno solo degli Atreides... Sterminio totale! Non devi far conto sul fatto che qualcuno dei nostri riesca asalvarsi» precisa Paul.
«Ma non potranno continuare per molto, esponendo così l'Imperatore in questo affare» osserva Jessica. «Davvero! Alcuni dei nostri riusciranno a fuggire» gira il capo, spaventata dall'amarezza e dalla durezza di suo figlio, avvertendo l'intenso lavorio della sua mente per il calcolo di ogni probabilità. Sa che la mente di Paul ha distanziato la sua; Paul ora vede più lontano di lei. Lei stessa ha contribuito ad addestrare l'intelligenza che gli consente di farlo, ma scopre di averne paura. I suoi pensieri cercano allora, disperatamente, il riparo perduto che per lei è stato il duca, e le lacrime le bruciano gli occhi, per la prima volta, pensando che lo avrebbe preferito mille volte insieme al generale Dameron ma vivo. Per la prima volta, Jessica realizza di averlo perso.
«Un tempo per l'amore e untempo per il dolore» ripete, accarezzando il ventre, acutamente conscia dell'embrione che porta in sé. Ho la figlia degli Atreides che mi è stato ordinato di generare, ma la Reverenda Madre si sbagliava: una figlia non avrebbe salvato il mio Leto. Questa bambina è soltanto la vita che si prolunga verso il futuro, in una realtà di morte. L'ho concepita d'istinto enon per obbedienza.
Ci spera, ci spera fino all'ultimo. La scia di sangue che si è lasciato dietro per tornare a palazzo non ha il sapore del rimorso ma quello amaro della vendetta. Le guardie del viscido barone hanno ricevuto il ben servito. Avanza a grandi falcate, seppure con prudenza, setacciando ogni camera. Duncan e Finn lo coprono. I Sardaukar e gli Harkonnen non hanno fatto i conti con i guerrieri più valorosi tra gli uomini di Leto e quelli della Resistenza.
Lo spera, lo spera con tutto se stesso di trovarlo ancora prigioniero della Bestia, prima che questi lo sbrani selvaggiamente.
Gli stivali scivolano sulla poltiglia che la polvere dei calcinacci ha mescolato al sangue in un pastone viscido e di un colore indefinito. Il lezzo della morte satura ogni ambiente, insieme a quello della carne bruciata e della polvere da sparo. Del sontuoso castello non rimangono che rovine polverose. C'è un'ultima stanza che è difficile disserrare. Quando riesce a scardinare l'ampia porta a due battenti lo spettacolo che si palesa ai suoi occhi supplica sia un'allucinazione provocata dal melange.
Il corpo del Duca giace supino e denudato della sua dignità, immobile nelle luci radenti, caravaggesche di una sala di Arrakeen in rovina.
A colui che osserva si offre la scena del Cristo Morto di Andrea Mantegna; questa è la fine di Leto. Identica a quella ideata dal grande pittore padovano e sofferente della stessa tragica solennità.
Ai suoi piedi numerosi cadaveri degli Harkonnen e dei Sardaukar giacciono riversi in posizioni dinoccolate e senza gloria. Persino nella morte lui trionfa. Persino nella fissità del livor mortis conserva la sua regalità, pensa Poe, mentre spalanca la bocca per rilasciare un urlo afono, intriso di un dolore che non riesce a uscire dal suo corpo e che lo sta schiacciando fino ad annietarlo. Si toglie la giacca e prende il corpo di Leto tra le braccia, traendolo a sé sul pavimento. Lo copre come può per restituirgli il minimo del rispetto che le sue spoglie meritano.
Ne osserva gli occhi sbarrati, una lacrima ha lasciato un segno roseo tra la polvere. Lo stringe. È un pezzo di marmo gelido, non è rimasto più niente del calore della sua pelle che tanto ha amato. Eppure è ancora lì, non può lasciarlo solo, in mezzo a quelle bestie.
Persino nella morte è bello, bello è il suo corpo, bello è il suo viso. Non gli hanno fatto del male, non ci sono segni di ferite e lividi sulla pelle. Forse l'hanno avvelenato.
Nella sala del consiglio di Arrakis, un uomo di spalle, inginocchiato, infine singhiozza mentre stringe a sé un corpo vigoroso e svestito le cui membra abbandonate denotano chiaramente l'assenza di vita. Ha i capelli mossi e indossa una giubba di pelle scura. Tiene l'altro in un abbraccio mentre lo culla e maledice il cielo e impreca e alza un lamento straziante «Perdonami, perdonami! Non sono arrivato in tempo. Non ti ho protetto, anima mia.»
Dopo un tempo che non sa quantificare, una mano si posa sul braccio del compagno, sul simbolo della fenice insanguinata. «Non possiamo restare qui. Lo so che soffri terribilmente ma è troppo pericoloso, Poe. Andiamo.»
L'amico di sempre, toglie anche lui la propria giacca. Coprono il corpo del duca come possono. È Poe ad abbassargli le palpebre su cui posa due ultimi baci, così come sulla fronte «Addio, Leto. Avevo promesso di proteggerti. Che non saresti morto in una guerra...»
«Ha vissuto la vita che ha scelto anche grazie a te, Poe. Non incolpare te stesso. Sei stato più che un esempio per lui.»
Non una parola echeggia ancora tra i due generali che mesti si avviano al luogo dove incontreranno Duncan. Al barone è stato servito del potente sonnifero insieme al melange ma la tregua non durerà a lungo, devono sbrigarsi.
Il destino dell'Imperium è nelle mani di Paul, ora. Un'alba fuligginosa si leva sul pianeta delle Dune, dopo la notte di fuoco. Gli X-Wing dello Squadrone Nero stanno saltando nell'iperspazio per fare ritorno su Ajan Kloss. Una pioggia torrenziale attende i piloti al loro sbarco. Finn non toglie gli occhi dal suo compagno. Il tramestio delle riparazioni che provengono dagli hangar si fonde con lo scroscio dell'acqua. In un punto che conosce solo lui, Poe scorre un dito su un'incisione nel metallo LLF, love lives forever: l'amore vive per sempre aveva inciso un ragazzo di ventiduenne anni, con lunghi capelli d'ebano e l'ingenuità di chi stava scoprendo l'amore, quell'amore che lo avrebbe reso il grande leader che è diventato.
Fine.
Angolo Autrice:
Dovevamo giungere a questo inevitabile epilogo. La storia di Paul continuerà in Nel Nome del Padre.
Quando il duca Leto di Villeneuve pronuncia l'epica frase «Volevo fare il pilota» quello è stato un chiaro riferimento
al Poe Dameron di Star Wars, dal momento che le vicende della galassia lontana lontan sono in moltissimi aspetti ispirati a Dune, per ammissione dello stesso Lucas.
Kwisatz Haderach significa all'incirca “colui che può essere in molti luoghi contemporaneamente”.
La prima parte del capotolo è ripresa dal libro Dune e opportunamente romanzata per quanto riguarda l'intervento di Poe nella seconda porzione di questo capitolo.
Alla prossima avventura.
Nives.
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