Elena

Elena avrebbe dovuto saperlo che si sarebbe fatta del male. E’ una donna adulta, avrebbe dovuto preservarsi dal primo momento. Tutto ciò che avrebbe voluto, in realtà, era trovare un po’ di respiro in quella taverna dove lavorava come cameriera, ma avrebbe dovuto immaginare che ciò era impossibile. E’ la solita storia degli ingenui. La taverna semibuia, quasi confortevole, meta di comitive, di coppie e talvolta di famiglie, con il suo bancone e i suoi sette tavoli di legno massiccio, somigliava più a un bordello che a un luogo di ristorazione, visto tutto quello che accadeva e di cui si spettegolava.

Chiunque conoscesse Elena le intimò di tenersi lontana dai disgraziati che abitano i banconi delle locande e dalle loro donne. Altri le sconsigliarono di andarci a lavorare: non era luogo per lei, a detta di tutti.  Nonostante tutte queste premurose raccomandazioni, lei aveva una strana teoria sul mondo: era infatti convinta che, anche in un pantano, si potesse trovare una goccia d’acqua pura, e che per farla venir fuori bisognava solo scavare e attendere con fiducia, certa che prima o poi qualcosa si smuovesse.  Fu per questa sua assurda indole che accettò con timore e speranza quel nuovo impiego, nonostante quell’ambiente avesse una fama ben poco lusinghiera. I primi tempi in cui cominciò a prestare servizio lì, mise in pratica il saggio consiglio di quanti le raccomandarono prudenza, riducendo al minimo i contatti con quel mondo che sentiva totalmente estraneo. Ma la natura è una dea maligna, si imprime sulla pelle contro la propria volontà: così Elena, provando tenerezza per le miserie che emersero da quelle bocche piene di vino, cominciò a dispensare il suo affetto agli avventori di quel locale, in particolare agli uomini che trascorrevano gran parte delle serate lì ad ubriacarsi e a commentare le grazie delle avvenenti clienti, le quali, spesso e volentieri, rafforzavano con la loro condotta l’idea che fosse facile ottenere qualunque donna, in quanto qualunque donna era facile. Elena affrontò anche questo problema, cercando di trasmettere alle ragazze quanto fosse importante il rispetto per la loro carne che donavano con una facilità che lasciava solo alle sventurate una profonda amarezza, e nessuna di quelle benestanti clienti riusciva a spiegarsi come mai una giovane costretta a lavorare lì in quanto orfana di padre, a logorarsi le mani, la schiena, a sprecare la sua laurea in Filosofia, priva di un uomo o di una vita mondana come la loro, fosse sempre sorridente e serena, pronta ad ascoltare qualunque persona che, in preda all’ebbrezza, voleva dare sfogo alle sue angosce.

Per un paio di mesi molti uomini riservarono a Elena attenzioni che lei non gradiva, certi che prima o poi avrebbe ceduto, in quanto, a loro parere, i suoi “no” erano dettati dalla stessa civetteria delle loro concubine, che si regalavano dopo poco. La ragazza si ritrovava pertanto ad allontanare mani indesiderate che insidiavano il suo corpo, ma cercò di non lasciarsi distruggere da quegli sguardi che la vedevano come un oggetto col quale divertirsi, per quanto ci fossero delle notti in cui tornava a casa e piangeva senza saperne le ragioni: tutto quello con cui si ritrovava era un vuoto nel cuore, che sentiva ormai come una cavità inutile.

Cercò, nonostante tutto, di fortificare l’anima fino a farne roccia, non dimenticando mai di dispensare amore a quelle anime. Purtroppo anche dalle rocce più impenetrabili esce dell’acqua: se questa preme per venir fuori, logora ogni centimetro finché non sgorga con i suoi dolorosi spruzzi. E se si dona amore, prima o poi si è contaminati da esso; questo Elena lo sapeva, ma non poteva fare a meno di essere ciò che era.

Il motivo per cui da quella piccola roccia dagli occhi color ghiaccio sgorgarono sorgenti di lacrime si chiamava Vittorio: belloccio, non molto alto, dai tratti del volto regolari ma anonimi, e con un difetto di pronuncia nella lettera “S”. Questo singolare trentacinquenne trascorreva gran parte delle sue serate ad ubriacarsi, spesso da solo, qualche volta in compagnia di un amico. I suoi argomenti principali di conversazione erano le tette di Tizia, il sedere di Caia e l’abilità di Sempronio di scolarsi intere pinte di birra in un soffio, più raramente parlava di calcio o di musica. Cominciò ad accorgersi di Elena, la quale, nonostante i suoi venticinque anni, non aveva mai conosciuto la malizia di una donna adulta. Non sappiamo se questo aspetto fu intuito da Vittorio: di lei si notavano solo i suoi maglioni larghi, i blue jeans e le scarpette ginniche, mentre si muoveva tra i tavoli di quella locanda schivando gli sguardi di tutti, attenta solo a ciò che faceva e a dove si recava.

Una sera Vittorio cominciò a parlarle: fu mentre la vide spazzare i pavimenti sudici, quando il locale era in procinto di chiudere, si complimentò scherzosamente per la sua “abilità”, dicendole che avrebbe tanto voluto sposarla. Comprendendo che era una battuta che Vittorio biascicò da ubriaco, Elena scoppiò in una civettuola risata e continuò ad eseguire i suoi compiti. Non considerò che quella fu la prima goccia di quella triste sorgente che le avrebbe fatto sgorgare copiose lacrime.

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