strano


Stare con Carl è strano.

Non perché non mi piace.

Ma perché non ci sono abituata.

Non so cosa significa avere qualcuno.

Non so cosa significa essere di qualcuno senza avere paura.

E Carl lo sa.

Carl vede ogni mia esitazione.

Ogni volta che mi tocca troppo a lungo.

Ogni volta che mi stringe la mano senza pensarci.

Ogni volta che fa qualcosa che per lui è normale, ma per me no.

E invece di infastidirsi, aspetta.

Come se sapesse che prima o poi mi abituerò.

O almeno, spera che lo farò.

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Carl non è cambiato.

Non è diventato improvvisamente più dolce, più smielato.

Non è il tipo.

Ma ora è più sicuro.

Se prima mi prendeva il polso, ora mi intreccia le dita alle sue.

Se prima mi faceva sedere sulle sue gambe per provocarmi, ora lo fa perché lo vuole.

Se prima mi guardava senza dire nulla, ora lo dice.

Non ha più paura di farmi capire che sono sua.

E il problema?

È che non mi dispiace.

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Essere con Carl è una novità.

Non perché prima non ci fosse tensione tra noi.

Ma perché ora non la nascondiamo più.

Ora non scappiamo più.

E questo significa fare cose da fidanzati.

Cose che per me sono strane.

Cose che per lui sono normali.

E ogni volta che mi blocco, ogni volta che mi irrigidisco, Carl lo vede.

Ma non mi mette fretta.

Mi lascia il tempo di abituarmi.

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È una giornata tranquilla ad Alexandria.

Non ci sono spedizioni, non ci sono problemi, non ci sono pericoli.

Solo una giornata normale.

Carl è sdraiato sul divano, il cappello coperto sugli occhi, un braccio appoggiato dietro la testa.

Io sono lì accanto, le gambe piegate sotto di me, mentre giocherello con un piccolo coltello tra le dita.

Non parliamo.

Ma il silenzio non è strano.

È facile.

Naturale.

Ad un certo punto, Carl si muove appena.

Allunga una mano e mi prende per il polso.

Io mi irrigidisco senza volerlo.

Un riflesso.

Un istinto.

Carl lo sente subito.

Non mi molla, ma aspetta.

Mi osserva da sotto la tesa del cappello, i suoi occhi calmi, pazienti.

«Posso?» chiede piano.

È una domanda stupida.

Ma so perché la fa.

Annuisco lentamente.

E solo allora mi tira verso di lui.

Mi ritrovo sdraiata sul suo petto, la sua mano che mi tiene ferma senza forzarmi.

Rimango tesa per qualche secondo.

Poi respiro piano.

Mi rilasso.

E Carl sorride appena.

«Vedi?» sussurra, la voce bassa. «Non è così male.»

Io non rispondo.

Ma il fatto che non mi stacco da lui?

Dice già tutto.

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Passano i giorni.

E lentamente, inizio ad abituarmi.

Carl mi tocca più spesso.

Una mano sulla mia schiena quando camminiamo.

Un braccio sulle mie spalle quando siamo con gli altri.

Le sue dita che sfiorano le mie senza motivo.

E il problema?

Il problema è che ora lo faccio anche io.

Un giorno, siamo in cucina.

Lui è seduto sul tavolo, io sto preparando qualcosa.

E senza pensarci, gli passo accanto e gli sfioro la mano.

Carl si blocca.

Abbassa lo sguardo sul nostro contatto.

Poi alza gli occhi su di me, sorride.

Ma non dice niente.

Perché sa che non serve.

Perché sa che questa volta sono io ad aver fatto il primo passo.

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