ossa e spine


L’aria notturna di Alexandria è troppo quieta.

Non c’è il suono dei vaganti che strisciano tra i rami secchi, non c’è il rumore del vento che porta con sé l’odore della morte. Solo il frinire dei grilli e il mormorio lontano di voci che si spengono dietro porte chiuse.

Dovrebbe mettermi a mio agio.

Non lo fa.

Mi muovo tra le case illuminate dalla luce fioca dei lampioni, le mani infilate nelle tasche della felpa. Il cappuccio abbassato sugli occhi. Un’ombra tra le ombre.

Non so bene dove sto andando, finché non mi ritrovo fuori dalle mura.

Rick ha detto che qui dentro si vive.

Io voglio ricordarmi come si sopravvive.

Scavalco il cancello laterale con agilità, atterrando senza fare rumore. Cammino veloce, il respiro leggero. Un piede davanti all’altro, come sempre.

Le strade fuori Alexandria sono silenziose, ma non del tutto morte. Da qualche parte nel bosco, sento il rantolo di un vagante.

Perfetto.

Estraggo il coltello e mi muovo tra gli alberi, il battito che accelera appena.

Lo vedo. Un vagante lento, con la mascella mezza staccata e la pelle grigia tirata sulle ossa.

Aspetto.

Lascio che si avvicini, studio ogni suo movimento. Poi scatto.

Un colpo secco al ginocchio per sbilanciarlo. Cade in avanti. Il coltello affonda nella tempia. Un tonfo sordo.

Silenzio.

Tiro fuori la lama e pulisco il sangue sul tessuto dei pantaloni.

Non sono arrugginita.

Una foglia scricchiola dietro di me.

Mi volto di scatto, il coltello pronto.

Ma non è un vagante.

È Carl.

Sta lì, in piedi con il cappello calato sugli occhi e il fucile appoggiato sulla spalla.

«Dove cazzo credi di andare?»

Sospiro, infastidita. «Tu mi segui sempre o è solo un caso?»

Lui scuote appena la testa. «Non ti seguo. Ti ho visto uscire. Sei solo dannatamente prevedibile.»

«Prevedibile?» Alzo un sopracciglio. «Perché, cowboy? Perché so badare a me stessa?»

«No.» Si avvicina di un passo. «Perché fai di tutto per dimostrare che non hai bisogno di nessuno.»

Sorrido fredda. «E invece voi fate di tutto per dimostrare che siete diversi. Che avete ancora un briciolo di umanità.»

Carl stringe la mascella. Il suo occhio visibile mi scruta con attenzione.

«Sei testarda come un mulo.»

«E tu sei un dannato ficcanaso.»

Silenzio.

Poi Carl si muove.

Troppo veloce.

Prima che possa reagire, mi afferra per il polso e in un attimo mi ritrovo sbattuta contro un albero. Il tronco graffia la pelle sotto la felpa, ma non è quello che mi preoccupa.

È Carl.

È il modo in cui mi fissa, il petto che si alza e si abbassa con un respiro pesante.

«Perché sei qui fuori, Zaira?» La sua voce è bassa, ma non arrabbiata. È qualcosa di peggio.

È curiosità.

Sorrido, il mento sollevato in segno di sfida. «Per ricordarmi che sono ancora viva.»

Carl stringe la presa per un attimo. Poi, improvvisamente, mi lascia andare.

Faccio un passo avanti, il coltello ancora saldo nella mano.

Ci fissiamo.

Occhi nei miei occhi.

E in quel momento capisco una cosa.

Lui mi sta studiando.

Proprio come faccio io.

Carl inclina la testa, il cappello che gli copre metà volto. Poi sorride.

Ma è un sorriso pericoloso.

«Allora torna dentro, Fenice.»

Lo dice piano, senza forzature.

Ma suona maledettamente simile a una sfida.

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