L'Ultima Notte a Alexandria


Sono passati giorni.

Lunghi.

Vuoti.

Silenziosi.

Io e Carl non ci siamo più parlati.

Non ci siamo nemmeno più guardati.

Non so se sia peggio la rabbia o questo silenzio.

Ma una cosa la so per certo.

Non posso più restare qui.

---

Aspetto che scenda la notte.

Mi muovo silenziosa, senza fare rumore.

Ogni passo è un addio non detto.

Ogni respiro è un pezzo di me che lascio indietro.

Apro l’armadio, prendo il mio zaino.

Dentro ci metto solo l’essenziale.

Coltello.

Pistola con qualche proiettile.

Acqua.

Qualche provvista.

Medicinali.

Poi, i miei vestiti.

Quelli che ho sempre indossato nelle spedizioni.

Pantaloni scuri e resistenti.

Maglia a maniche lunghe aderente, per non impigliarmi nei rami o nelle mani dei vaganti.

Scarponi comodi, legati stretti.

Felpa spessa con il cappuccio, per il freddo della notte.

E infine, la mia collana.

La fenice.

Il mio simbolo.

L’unica cosa che porto sempre con me.

La stringo tra le dita, chiudo gli occhi un attimo.

Respiro piano.

Devo andare.

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Prima di uscire, faccio un’ultima cosa.

Mi fermo davanti alla porta della sua stanza.

Il cuore mi batte forte.

Mi dico di non farlo.

Di non guardarlo.

Di non rendere tutto più difficile.

Ma non ci riesco.

Apro piano la porta, senza fare rumore.

E lì, nel buio della stanza…

Vedo Carl che dorme.

Il petto che si solleva e abbassa piano.

Il viso rilassato.

Come se per una volta non stesse lottando con il mondo.

Come se per una volta non stesse soffrendo.

Mi avvicino piano, quasi senza respirare.

Mi inginocchio accanto al letto, lo guardo per l’ultima volta.

E sussurro, così piano che nemmeno il vento potrebbe sentirlo:

«Ti amo.»

Poi mi alzo.

E senza voltarmi indietro, me ne vado.

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