Il Mio Peggior Difetto
Il lavoro è stato una merda.
Non perché fosse più pesante del solito, non perché non sia abituato.
Ma perché ho dovuto sopportare stronzate per ore.
E io non sono bravo a sopportare stronzate.
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Uno dei capi ha voluto impormi regole senza senso.
Parole a caso su come dovrei fare il mio lavoro, su come dovrei comportarmi.
E la mia pazienza?
Non esiste.
Non con gente così.
Abbiamo litigato.
Forte.
Quasi arrivavamo alle mani.
E ora sono incazzato.
Incazzato e stanco.
L’unica cosa che voglio fare è chiudermi in camera e stare per conto mio.
Ma appena entro in casa, vedo Zaira.
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È seduta sul divano, con le ginocchia raccolte, una bottiglietta d’acqua in mano.
Mi guarda, sorride piano.
«Ehi.»
La sua voce è dolce, come sempre.
Come se fosse felice di vedermi.
Ma io non sono dell’umore.
«Ciao.»
La parola mi esce piatta, fredda.
Non le do nemmeno il tempo di dire altro che mi tolgo la giacca e mi dirigo in camera.
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Lei mi segue.
Ovviamente.
Perché non mi lascia mai da solo quando capisce che qualcosa non va.
«Tutto ok?»
Il suo tono è più attento adesso.
Ma io non ho voglia di parlare.
«Sto bene.»
«Non sembra.»
Sbuffo, non rispondo.
Inizio a togliermi gli stivali, evito di guardarla.
Lei si avvicina, si inginocchia accanto a me.
Le sue dita sfiorano il mio braccio, leggere.
«Carl, cos’è successo?»
E io dovrei rispondere.
Dovrei dirle che ho litigato con quel coglione.
Dovrei dirle che sono furioso e che tutto oggi mi ha fatto schifo.
Ma sono troppo incazzato per parlare.
Così mi alzo, mi allontano da lei.
«Non è niente.»
La sua espressione cambia.
Diventa più incerta.
Più tesa.
«Perché mi stai evitando?»
«Non lo sto facendo.»
Un’altra bugia.
Ma io sono troppo incastrato nella mia rabbia per ragionare.
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Zaira cerca ancora di avvicinarsi, ma io continuo a rispondere a monosillabi, a spostarmi, a chiudermi.
Alla fine, vedo che qualcosa nei suoi occhi si spegne.
La sua solita espressione sicura e testarda svanisce.
Le sue spalle si abbassano leggermente.
E per la prima volta, non cerca più di parlarmi.
Si limita a fissarmi per un lungo momento.
Poi annuisce piano, abbassa lo sguardo e si gira.
«Ok.»
E se ne va.
Lasciandomi con un senso di merda che mi stringe il petto.
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Passano minuti.
Forse ore.
Non lo so.
So solo che il mio umore non migliora.
Anzi.
Peggiora.
Perché ora oltre alla rabbia, mi sento una merda.
Perché so di averla ferita.
So che non aveva fatto nulla per meritarselo.
E adesso mi odia.
Cristo.
Perché sono così?
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Mi alzo, la cerco in casa.
La trovo sul divano, le braccia incrociate, il broncio sulle labbra.
Lo conosco bene.
È lo stesso broncio che fa quando qualcosa la ferisce, ma non vuole ammetterlo.
Mi avvicino piano, mi siedo accanto a lei.
Lei non si gira.
Non mi guarda nemmeno.
«Zaira…»
Silenzio.
Merda.
Mi passo una mano tra i capelli, sospiro.
«Mi dispiace.»
Nessuna risposta.
«Ero incazzato, ma non dovevo trattarti così.»
Ancora niente.
Mi volto verso di lei, la osservo meglio.
Il labbro inferiore leggermente spinto in fuori, lo sguardo fisso davanti a sé.
Sta facendo apposta.
Mi sta punendo.
E la cosa peggiore?
Funziona.
Mi avvicino di più, le sfioro la gamba.
«Fenice… non fare così.»
Lei finalmente mi guarda.
Mi fissa con quegli occhi scuri e profondi.
E poi, con la voce più piatta del mondo, dice:
«Vai a dormire, Carl.»
E io capisco che sarà molto più difficile farmi perdonare stavolta.
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