frammenti di pace
La notte è passata.
Sono tornata a casa, mi sono infilata nel letto, ma il sonno non è mai arrivato davvero. Ogni volta che chiudevo gli occhi, sentivo ancora il peso del suo sguardo su di me. La tensione della lotta. Il modo in cui nessuno dei due ha fatto il primo passo per fermarla davvero.
Non so cosa diavolo sia successo ieri.
E non voglio pensarci.
Mi alzo prima dell’alba, senza far rumore. La casa è silenziosa, e per la prima volta da quando sono qui, mi concedo di osservarla davvero. Ogni oggetto racconta una storia che non mi appartiene.
Scendo le scale lentamente, i piedi nudi sul legno freddo.
Rick non c’è. Michonne neanche.
Meglio così.
Mi dirigo in cucina e apro un armadietto a caso. La maggior parte del cibo è in scatola, ma trovo una mela. La prendo e mi appoggio al tavolo, mordendo il frutto senza fretta.
Un rumore di passi mi fa irrigidire.
Mi volto di scatto.
Carl è lì, appoggiato allo stipite della porta, i capelli spettinati, il cappello assente.
Il suo occhio visibile è ancora pieno di sonno, ma quando mi vede, si sveglia subito.
Non dice nulla.
Io neanche.
Per qualche secondo ci limitiamo a guardarci.
Poi lui sbadiglia e si stropiccia la nuca. «Sei sempre in piedi a quest’ora?»
«Tu?» ribatto senza emozione.
Carl scrolla le spalle e si avvicina al tavolo, prendendo la mela dalle mie mani e mordendone un pezzo senza nemmeno chiedere.
Lo fisso. «Sul serio?»
Lui sorride con noncuranza. «Hai lasciato la porta aperta.»
«E questo ti dà il diritto di rubarmi la colazione?»
«Non è rubare se non te ne accorgi.»
Scuoto la testa, strappandogli la mela dalle mani. Lui non oppone resistenza, ma il suo sorrisetto rimane.
Silenzio.
Un silenzio strano.
Di quelli che non so ancora se mi danno fastidio o mi fanno sentire a mio agio.
Carl si siede su una sedia, allungando le gambe sotto il tavolo.
«Allora, Fenice—»
Gli tiro la mela in faccia.
Lui si scosta appena in tempo e ride piano.
«Quanto sei prevedibile.»
Incrocio le braccia sul petto, senza abbassare lo sguardo.
«Non chiamarmi così.»
Carl appoggia un gomito sul tavolo, inclinando appena la testa.
«Sai che più mi dici di non farlo, più mi viene voglia di farlo, vero?»
Lo fulmino con lo sguardo.
Lui non si scompone.
E so che è un gioco.
Uno che non voglio giocare.
Mi giro e mi dirigo verso la porta, lasciandolo lì.
Ma quando sto per uscire, sento la sua voce, bassa e tranquilla.
«A stasera, Fenice.»
Non mi fermo.
Ma so che ha vinto questa volta.
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