debiti da pagare


La farmacia è silenziosa.

Troppo silenziosa.

Non c’è il solito rantolo basso dei vaganti, nessun rumore di passi strascicati sulle piastrelle polverose. Solo il nostro respiro e il fruscio leggero degli scaffali vuoti mentre cerchiamo qualcosa di utile.

Mi piace il silenzio.

Mi fa sentire in controllo.

Ma so che è solo un’illusione.

Carl si muove vicino all’ingresso, il fucile pronto. Io mi addentro di più, passando tra gli scaffali vuoti.

Qualche scatola di medicinali generici, un paio di garze.

Non abbastanza.

Abbasso lo sguardo su un bancone rovesciato. Un mobiletto è ancora chiuso.

Forzo la serratura con il coltello e la porta si spalanca con un cigolio fastidioso.

Perfetto.

Antibiotici, antidolorifici, un paio di confezioni ancora intatte.

Sorrido appena e allungo la mano per prenderli.

Ed è in quel momento che sento il rumore.

Un sibilo dietro di me.

Il suono di qualcosa che si muove troppo in fretta.

Mi giro di scatto, ma è tardi.

Un vagante esce da dietro il bancone con una velocità che non gli appartiene, le braccia magre che si protendono verso di me.

Cazzo.

Indietreggio d’istinto, il cuore che mi esplode nel petto.

La mia schiena urta contro uno scaffale. Non ho abbastanza spazio per muovermi, per schivarlo.

Alzo il coltello, ma il bastardo mi piomba addosso troppo in fretta.

Le sue dita sfiorano il mio braccio, le unghie sporche che mi graffiano la pelle.

Sto per colpire, ma il colpo non arriva mai.

Un’esplosione.

Un proiettile trapassa la testa del vagante, e il suo corpo si accascia a terra con un tonfo sordo.

Mi blocco, il respiro ancora mozzato in gola.

Carl è lì, con il fucile ancora puntato, il dito che si stacca lentamente dal grilletto.

Mi fissa.

Io lo fisso.

L’eco dello sparo rimbomba ancora nelle mie orecchie.

Poi, con un movimento lento, Carl abbassa l’arma.

«Mi devi un favore.»

Sbatto le palpebre, ancora scossa. «Cosa?»

Lui si avvicina di qualche passo, gli occhi chiari fissi nei miei.

«Ti ho appena salvata. Adesso mi devi rispondere.»

Mi irrigidisco. «Non funziona così.»

«Ah no?» Carl inclina la testa, il cappello che gli oscura leggermente il viso. «Perché a me sembra un buon affare.»

Stringo i denti. «Non ti devo niente.»

Carl si avvicina ancora, abbastanza da farmi sentire il calore del suo corpo.

«Zaira.» La sua voce è bassa, calma. Ma c’è qualcosa sotto. Qualcosa di più pesante. Di più serio.

«Rispondi.»

Respiro forte dal naso, le mani serrate a pugno lungo i fianchi.

Lo odio.

Lo odio perché ha ragione.

Perché senza di lui, ora sarei morta.

E perché, per quanto mi sforzi di negarlo, qualcosa dentro di me si è spezzato quando ho sentito quello sparo.

«Fai le tue domande,» sibilo, senza guardarlo.

Carl accenna un sorriso. «Brava.»

Si appoggia a uno scaffale, ancora con quel suo atteggiamento rilassato, ma so che non è casuale.

Sta scegliendo bene le sue parole.

«Quando è stata l’ultima volta che hai avuto una casa?»

Inspiro piano. «Non lo so.»

Carl non si beve la mia risposta.

«Quanto tempo hai passato da sola?»

«Abbastanza.»

«E prima?»

Silenzio.

Lui non si ferma.

Non mi lascia scappare.

«Quanto spesso lo faceva?»

Mi si blocca il respiro.

Mi volto di scatto verso di lui. «Cosa?»

Carl non abbassa lo sguardo.

Non si tira indietro.

E in quel momento capisco che ha messo insieme tutti i pezzi.

Capisce chi era mio padre.

Capisce cosa ha fatto.

Mi sento nuda sotto il suo sguardo, esposta in un modo che mi fa venire voglia di scappare.

Ma Carl non mi lascia.

«Non devi dirmelo,» dice piano. «Ma so che non era solo uno stronzo qualunque.»

Il mio cuore martella forte contro le costole.

«Lascia perdere.»

Carl sospira. «Se fosse così facile, lo avresti già fatto.»

Abbasso lo sguardo.

Il mio corpo trema appena, impercettibilmente.

Non per paura.

Ma perché lui sa.

E questo cambia tutto.

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