XXXVII
Eva...
L'insegna al neon dell'ospedale brilla aldilà del muro di pioggia che picchia il terreno con insistenza. Le strade sono oramai coperte da neve in poltiglia, fango e catrame.
Il gelo si insinua nelle spaccature della mia pelle, bruciando come se fosse fuoco. Muovo qualche passo infermo sperando di non scivolare. Gli occhi fissi sulle centinaia di finestre che illuminano l'intera facciata dell'edificio. Annuso l'aria alla ricerca del suo odore, ma sono troppo debole perfino per fiutare il mio. Sarebbe più sicuro se riuscissi a mutare nella mia forma di serpe, ma non ne ho le forze; e anche se le avessi, il solo tentativo potrebbe ammazzarmi, visto lo stato in cui mi trovo.
Devo nutrirmi.
Le bestie della foresta sono diventate intelligenti, hanno imparato a prevenire ed evitare i miei tentativi d'attacco. Non riuscirei a catturare neanche una mosca, ormai. Sono tutti troppo svegli perfino di notte.
Non mi rimane che cibarmi di chi ancora non si aspetta i miei denti sulla propria gola: gli umani.
Stupidi, sporchi, inutili, umani.
Dahlia, un mio attacco se lo aspetta; ma lì dentro è sola e indifesa: abbastanza debole affinché finalmente io possa riuscire a metterle le mani addosso. E immaginerò di farlo per Liz, per Akil, per me. In realtà, lo faccio per il dolore, la gelosia, la vendetta. Lo faccio per la fame.
Striscio i tacchi delle mie costosissime Louboutin, simulando il fischio della mia lingua biforcuta. Nascondo le mani dalle unghie spezzate e sanguinati nelle tasche della giacca, spingo la porta a vetri con la spalla e mi riverso barcollando nella sala d'aspetto. Per fortuna non c'è nessuno svogliatamente seduto su quelle sedie di plastica azzurra, fingendo di leggere una rivista alla moda della quale non si ha il minimo interesse. Aldilà del bancone del punto informazioni, una signorina di colore dai ricci fitti e stretti, ciancica maleducatamente un'enorme gomma da masticare rosa intanto che blatera al telefono con quella che dovrebbe essere una sua amica. Mi nota, alza un sopracciglio e tappa la cornetta con una mano: le lunghe unghie verde fluorescenti sbattono contro il bancone producendo un sonoro "tac": «Serve aiuto?» domanda seccamente.
Scuoto la testa e lei arriccia il naso per il disgusto: deve aver notato le mie profonde occhiaie, le labbra spaccate e sanguinanti, i capelli radi sotto il cappuccio della giacca e le ossa che spingono pericolosamente contro la pelle.
«Aspetta un attimo, Crystal. Qui c'è una tipa proprio strana.» sussurra al microfono della cornetta, «Per il pronto soccorso deve andare al piano di sotto, reparto C2.» mi informa, indicando una scala illuminata da fastidiosissime luci fredde.
Annuisco: sembro uno zombie. In realtà spero solo di spaventarla un po', ho bisogno di vedere la paura negli occhi della gente, quasi che questa possa nutrirmi.
Dahlia avrà paura, penso con soddisfazione.
Arrivo alla scala indicatami dalla segretaria riccioluta, ma invece di scendere per raggiungere il pronto soccorso, inizio a salire. Ho finalmente fiutato una particella del suo odore: sento le pupille indurirmisi come acciaio, la peluria rizzarsi sulle braccia, la muscolatura divenire improvvisamente più salda e pronta ad affrontare gli sforzi. Adrenalina.
Porto il primo tacco sul primo scalino e mi sollevo, continuo lentamente ma con decisione, ignorando le proteste della ragazza al banco: «Ehi, dove vai? Devi scenderle quelle scale, non salirle! Maledetta idiota.» conclude lasciandosi nuovamente cadere sulla sedia girevole, arrendendosi alla pigrizia.
Dopo toccherà a te.
Seguo la scia del suo odore in un corridoio vuoto e quasi totalmente al buio, se non fosse per i neon che sfarfallano a causa del cattivo tempo. Trascino i piedi volontariamente per produrre rumore, come ad informala del mio arrivo. Scopro i denti, mi sento ringhiare come un cane rabbioso. Qualche filo di bava mi cola sul mento quando sento la traccia diventare più acuta.
È qui, penso famelicamente.
Spingo la porta di una stanza: questa cigola rumorosamente, si spalanca e mi mostra generosamente il suo interno. Tre letti disposti uno accanto all'altro, un televisore che trasmette un demenziale gioco a premi, due vecchie che dormono con la bocca spalancata. Il loro russare mi arriva al cervello come il ronzio di uno sciame d'api, un rumore abbastanza forte da riuscire ad attutire l'urlo mentale quando scopro che il terzo letto è vuoto. Vuoto.
Lei non c'è.
Fa caldo, un caldo tremendo. Mi avvicino alla finestra e la spalanco lasciandomi abbracciare dal vento rigido e totalmente anaffettivo.
Mi avvicino, poi, alle coperte accuratamente ripiegate sul materasso e vi ci affondo il viso: il suo odore è tanto forte da scatenarmi un'acquolina incontrollabile.
Ho fame, devo mangiare!
Mi volto meccanicamente verso le rugose signore, stringendo la mandibola e digrignando i denti nel tentativo di affilarli.
Mi posiziono ai piedi dei loro letti: le osservo, le annuso, le analizzo come si farebbe con un pezzo di carne al bancone del macellaio.
Quella fetta lì, per favore, direi indicando la donna più grassa.
Costeggio il lato del suo letto e mi accovaccio per annusarle il polso che pende verso terra. Percepisco il sangue pulsare tanto vivacemente da farmi dubitare che si tratti del cuore di una vecchia. Lecco la sua pelle dal palmo fino ad arrivare all'incavo del gomito.
La donna si sveglia, la sento borbottare qualcosa intanto che torna lentamente alla realtà. Cerca di tirarsi a sedere ma la trattengo con forza, infilandole gli spuntoni accumunati delle mie unghie nella carne. Sento l'odore del suo sangue e torno ad essere l'essere invincibile che si è divorato la propria migliore amica. Percepisco crescere dentro di me una forza tale da consentirmi di sollevare una montagna intera, la lingua si allunga e si biforca in due sezioni, gli occhi scintillano di centinaia di vive sfumature smeraldo.
La vecchia guarda in basso, nella mia direzione, proprio nell'istante in cui un fulmine dorato spacca il cielo a metà. La luce inonda la stanza, mostrando alla donna un mostro accucciato accanto al suo letto: i capelli biondi, i tacchi vertiginosi e la lingua biforcuta sulle prime gocce di sangue. Il sorriso crudele.
«Cosa diavolo...» dice terrorizzata in un sussurro.
Cerca di tirare via il braccio ma, con uno strattone, la trascino a terra. Salgo sopra di lei e le blocco le braccia sopra alla testa.
«Aiuto!» urla piangendo.
Scatto in avanti imitando il movimento meccanico del serpente all'attacco, affondo i denti nella sua guancia e strappo. Senza neanche masticare ingoio la carne ancora calda.
«Aiuto!» urla di nuovo, questa volta la voce rotta dal gorgoglio del sangue che le cola nella gola.
«Minnie? Minnie?» la chiama l'altra vecchia.
Scatto ancora e mi avvento sulla sua gola. Urla atrocemente, chiamando in suo aiuto tutta la forza dei propri polmoni.
Strappo, mastico, deglutisco.
Niente più urli, solo rantoli e violenti colpi di tosse.
«Aiuto!» ora è l'altra donna a chiamare i soccorsi, la sento premente il pulsante per avvisare le infermiere, «Aiuto!»
Affondo i denti nuovamente, assaporo l'aroma ferroso del sangue. La pozza densa e scura nella quale affondo le ginocchia, è ancora calda.
I serpenti sono animali a sangue freddo.
I serpenti cercano calore.
Mi sdraio sul corpo della mia grassa e succulenta vittima e mi lascio inzuppare dagli spruzzi scarlatti che zampillano brutalmente dal suo cadavere martoriato.
Ora sono forte, abbastanza forte da riuscire ad entrare nel mio corpo da serpente quando sento i soccorsi avvicinarsi.
«Minnie... Minnie!» balbetta la vecchia indicando il lago di sangue che cola da sotto il letto, espandendosi sul pavimento bianco.
Un infermiere si affaccia dall'altro lato della branda e mi trova avvinghiata gelosamente alla mia preda. Sibilo minacciosamente e scopro i denti appuntiti.
«Porca puttana!» l'uomo fa un balzo all'indietro, «Chiamate la polizia, i vigili del fuoco e chiunque sappia come acchiappare una cazzo di anaconda!» ordina alle donne dietro di lui.
Striscio sul pavimento, pronta ad attaccare le caviglie dell'infermiere che scatta all'indietro, vincendo ogni mio attacco. La vecchia sul suo letto urla tremante e piangente.
«Qualcuno porti via di qui la signora!» urla l'uomo che solleva una sedia e me la scaglia contro.
Tra poco le guardie zoofile saranno qui e mi cattureranno. Ma io, perlomeno, sarò sazia.
Nel preciso istante in cui formulo il pensiero, un cazzo di corvo spennacchiato plana nella stanza entrando dalla finestra che ho aperto qualche istante prima del massacro. Mi afferra con i suoi deboli artigli e mi solleva da terra. Gocce di sangue infiltratesi tra le mie squame scivolano a terra, mischiandosi con la pioggia che continua a picchiare il terreno.
Ma io sono sazia.
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