Un morbido manto di neve. Almeno un metro, questo è certo. E in queste condizioni, neanche il paese più attrezzato ha gli strumenti adatti a consentire che le normali attività si svolgano senza problemi; tipo la scuola. O almeno spero.
Mr Dunky si crogiola nella trapunta di lana a lui riservata: si sdraia sulla schiena, allunga le zampe anteriori allargando gli artigli affilati e conclude l'esibizione con un soddisfacente sbadiglio. Porto la mano alla sua pancia bianca e morbida come il velluto, morbida come la neve.
«Dahlia!» mi chiama mia madre dal piano inferiore.
Sembra quasi strano sentirle nominare quel nome: sa di finto, di bugia, di costruzione. Sembra che abbia una sua consistenza, come se faticasse a pronunciarlo, quasi avesse la bocca impastata dal burro d'arachidi.
Ma è così che mi chiamo. Ora.
Scendo le scale non preoccupandomi di liberarmi del pigiama. Anzi, mi avvolgo addirittura con la spessa coperta di pile.
«Non ti vesti?» domanda alzando un sopracciglio intanto che fa girare in aria la frittella nella padella.
«Hai visto fuori, vero?» rispondo indicando la finestra, la voce ovattata dagli spessi strati di coperte, «Ci saranno almeno due metri di neve!»
«E allora? Viviamo in un paesino...»
«...di montagna e qui sono abituati e attrezzati per ogni evenienza.» concludo, alzando gli occhi al cielo, «Ma non vorrai davvero che vada a scuola con questo freddo, giusto?»
«Tuo padre non ne sarà contento...» risponde, intanto che riflette sul da farsi, «Però un modo per convincerlo a lasciarti restare a casa ci sarebbe...» ecco che, all'improvviso, compare il suo sorriso sornione.
«Sei inquietante. Lo sai, mamma?» dico, nascondendole un sorriso dietro la trapunta, «Quale sarebbe?»
«Beh, in effetti la neve è un bel problema. I servizi pubblici non si occupano di ripulire gli ambienti privati, quindi...»
«Quindi dovrei spalare tutta quella neve?» protesto, cercando di gesticolare energicamente sotto tutti gli strati di tessuto.
«E potresti anche avere un fantastica, meravigliosa, dolcissima cioccolata calda quando avrai finito.» aggiunge allargando le braccia dall'entusiasmo.
«Ma andiamo!»
«Beh, fai ancora in tempo a prepararti per andare a scuola.» conclude leccando il cucchiaio sporco di marmellata.
Venti minuti dopo, sono in mezzo alla neve imbardata come un eschimese. La vanga in mano e i moon-boots ai piedi. Sbuffo ad ogni spalata e borbotto qualcosa di incomprensibile perfino a me stessa. Amo il gelo, certo: ma visto dalla finestra della mia calda, caldissima camera.
L'aria odora di ghiaccio e di pino, il cielo è ancora una densa macchia bianca che minaccia dispettosamente una nuova bufera, e l'unico suono udibile è il gocciare di un paio di stalattiti formatesi sulle grondaie di casa.
Ad ogni affondo della vanga si sente lo scrocchiare soddisfacente del ghiaccio. Guardando i metri di candida, lucente, fitta neve al suolo, si può pensare che sia morbida e accogliente. In realtà, ad ogni passo, si percepisce la sua durezza e freddezza. La neve è una bugia, inganna, illude. Come le nuvole, che sembrano spessi soffici cuscini di zucchero filato. Come Dahlia, come il mio nome.
Quel pensiero mi irrigidisce. Negli ultimi giorni il sentirmi sull'orlo di una crisi, il sentirmi spaesata nella mia stessa pelle, è diventato qualcosa di estremamente occasionale. Forse è proprio per questo che, ogni volta che accade di nuovo, mi sembra impossibile da superare. Tutta questione di abitudine.
Un po' di neve cade dal ramo dell'albero proprio sopra di me, mi colpisce la nuca e scivola sulla schiena, beffeggiandosi degli strati di felpe e giacche che mi fasciano il corpo. Inarco la schiena sia per la sorpresa, che anche per il freddo; lascio che ogni centimetro del mio corpo si ricopra di brividi tanto profondi da perforarmi le ossa.
Nell'aria, solo il mio sospiro che forma una piccola nuvola di vapore sulle labbra rosse per la temperatura. Il mio è quasi un gemito: forse non disprezzo poi così tanto il gelo.
Ad accompagnare il mio anelito, l'ululato: una nota in la, il suono dell'universo, in un crescendo di volume. All'inizio avrei potuto confonderlo col mio stesso respiro; adesso, invece, è una vibrazione tanto forte da farmi credere che il lupo si trovi proprio alle mie spalle. È l'inverno fatto carne e sangue.
No, non lo disprezzo affatto il gelo.
Mi volto meccanicamente e scopro aldilà della prima fila di alberi che coronano la strada, nell'esatto punto di sempre, gli occhi ambrati di Akil. Sotto i riflessi del bagliore che colpisce la neve, sembrano quasi due diamanti colorati, le cui molteplici facce risplendono di luce propria.
Lancio un'occhiata alla finestra al primo piano e intravedo mia madre seduta al tavolo della cucina a leggere qualcosa, forse qualche vecchio libro trovato in cantina.
Lascio cadere a terra la vanga e cammino lentamente lungo il vialetto, pronta ad attraversare la strada per inoltrarmi nel fitto bianco della foresta.
Muovo qualche passo sulla strada e Akil mi viene in contro. Le sue enormi zampe grigie calpestano la neve non producendo alcun suono, forse il lontano e ovattato scricchiolio del ghiaccio. Con il muso fa capolino tra la corteccia degli alberi ed io allungo la mia mano gelida, pronta al contatto caldo e rigenerante del suo pelo.
Lo stridere delle catene delle ruote mi costringe a ritrarre di scatto la mano, ma non faccio assolutamente in tempo a correre via verso casa: mio padre, accompagnato dal capo della polizia per una breve vista dei luoghi disabitati (forse alla ricerca della giusta ispirazione per il suo prossimo libro) mi inchioda sul posto con il suo sguardo furente. Abbassa il finestrino e si sporge con la testa: «Dove diavolo credi di andare?»
«Io... io, ecco... stavo solo...» cerco di giustificarmi, non trovando però nessuna scusa plausibile.
«Signorina Leiden,» mi chiama con calma il poliziotto, «non si muova.»
L'uomo scende lentamente dall'auto: i folti baffi bianchi nascondono una smorfia di paura, le gambe corte e tozze fasciate degli spessi pantaloni della divisa producono uno scrociare rumoroso, la mano sulla fondina e le dita sulla pistola.
Mi volto: il muso di Akil ancora sporge dai solidi arbusti che costeggiano la strada. Il suo respiro si fa più pesante e gli occhi gli si induriscono per la paura.
Scappa, penso.
L'uomo, in uno scatto fulmineo che non credevo possibile dato il suo fisico fin troppo robusto, estrae l'arma e spara un colpo. Il proiettile va a conficcarsi nella spalla di Akil.
Il lupo rotola nella neve in un guaito. Il duro tappeto di ghiaccio si macchia in fretta del suo scuro e denso sangue.
«Scappa!» questa volta urlo, correndo nella sua direzione come a volergli fare da scudo.
Mio padre mi raggiunge e mi afferra per le spalle, pronto a trascinarmi in casa. Vedo Akil alzarsi da terra e correre nella foresta, ignorando temerariamente il dolore. La lunga scia di sangue potrebbe tradirlo.
Con determinazione, riesco a sfuggire alla presa di mio padre e a fiondarmi tra gli alberi; sono perfino capace di schivare il poliziotto che si lancia in avanti nell'invano tentativo di acciuffarmi. Lo sento sbattere contro la strada in pendenza e rotolare per qualche metro imprecando il Signore.
Seguo la scia di sangue calpestandola con i piedi nella speranza di riuscire a seppellire le tracce. Corro per qualche minuto e finalmente raggiungo il punto in cui terminano le impronte rossastre. Akil, ancora nella sua forma di lupo, è sdraiato a terra. Il muso poggiato sulla neve fino quasi a sprofondare, qualche fiocco gli ricopre la testa e il resto dell'intero manto dalle diverse tonalità di grigio. Allungo la mano chiedendogli il permesso di ispezionare la ferita dalla quale continua a sgorgare il liquido scarlatto che imbratta il terreno tutt'intorno.
Il lupo ringhia scoprendo i denti, ma volta la testa concedendomi di esaminargli la ferita: il foro largo un centimetro sulla spalla è contornato da una cerchiatura nera, come se il proiettile lo avesse bruciato. Cerco di tamponare la ferita con la sciarpa che mi srotolo dal collo ma scopro che non ce n'è affatto bisogno: miracolosamente, la ferita smette di sanguinare; anzi, addirittura inizia a restringersi.
Capisco, allora, che tra le tante capacità dei Totem, esiste perfino quella in grado di accelerare la guarigione.
Starà bene, ma solo se mi allontano da lui prima che mi trovino.
Lo guardo dritto negli occhi e trovo la sua approvazione, come se fosse riuscito a leggermi nel pensiero.
Mi alzo da terra dopo essermi pulita nella neve il sangue sulle dita. Copro in fretta le mie impronte, torno indietro, cambio strada e direzione, lasciando che mio padre e il poliziotto mi trovino accanto a una profonda grotta dalla quale provengono dei suoi inquietanti.
«Sei impazzita?» sbraita mio padre afferrandomi per il braccio, «Che diavolo ti è preso!»
«Non doveva sparargli.» affermo, indicando l'anziano omuncolo dai minuscoli occhi color ghiaccio, «Non voleva farmi del male.»
«Signorina, i lupi sono bestie selvagge. Vanno ammazzate.» asserisce, alzando il mento in segno di superiorità.
Guardo mio padre e noto la disapprovazione di quell'assurda affermazione dipinta sul suo viso.
Il poliziotto, improvvisamente a disagio, tenta di correggersi dicendo: «Dovresti esserle grata,» mostra la pistola, «ti ha salvato la vita! Se non fossi intervenuto, i tuoi genitori avrebbero dovuto raccogliere i brandelli della tua carne sulla strada!»
Mio padre stringe le labbra e aggrotta la fronte al pensiero. Io mi sento solo, energicamente, implacabilmente infastidita.
«Torniamo a casa.» ordina, stringendomi la spalla.
Sotto le sue dita, quella mia stessa spalla pulsa di dolore. Non un dolore atroce, solo un pizzicore insistente nella carne.
Come se, in fondo, i nostri corpi fossero collegati.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top