12-L'Inferno di Brown
Evan
«Dove eri andato a finire?»
Rientro nell'ufficio di Jake e la sua domanda è più che lecita. Mi ha visto sparire, mentre cercava di estorcermi spiegazioni su quel maledetto rossetto.
Ho preso un Kleenex dalla sua scrivania e ho sfregato, fino a unire il colore della pelle irritata con il make up lasciato dalla bionda. Avevo la scusa per andare in bagno a imbeverare il pezzo di carta sotto il getto caldo dell'acqua, ma la realtà è che dovevo rompere le scatole a Bambi.
In un certo senso, mi diverte vedere come entra in confusione. Anche se fa la frigida, riesco a notare i momenti in cui non capisce più nulla. E, questa volta, ci sono riuscito sul serio a toglierle le parole da quella bocca che non fa altro che blaterare.
«In bagno, te l'ho detto!» rispondo.
Alza gli occhi al soffitto bianco e le cornici in cartongesso appiccicate sopra, sembrano volersi staccare e crollarmi addosso, quando il suo sguardo indagatore punta, di nuovo, nella mia direzione.
«Quindici minuti alla toilette, per togliere una macchia dal viso?» chiede, mentre punta lo sguardo al quadrante dell'orologio da polso.
Ho fatto una piccola deviazione, al ritorno, ma, dettagli, Jake.
«Mh, mi tieni anche il conto dei minuti, ora?» domando, incrociando le braccia.
«No, Evan, ma ho notato che sei molto presente, in questo periodo e mi stavo domandando se la tizia che ti ha marchiato è il motivo per il quale, ultimamente, vieni a trovarmi più spesso.» Sembra quasi accusarmi di avere un secondo fine.
«Pensi che vada a letto con qualche tua dipendente?» Alla mia domanda sorride malizioso. Si mette a sedere sulla scrivania, a braccia conserte, aspettando una conferma alla sua supposizione. «No che non ci vado. Credi che non te lo avrei detto altrimenti?» Fingo di essere offeso. «Ho solo bisogno di avere notizie, tutto qua. Ho come la sensazione che più il tempo passi, più la possibilità di rivederla si allontani.»
La mia non è solo una scusa, ho sempre il pensiero fisso, ma ho appena utilizzato il mio dolore per giustificarmi e, un po', mi faccio pena.
«Evan...» prende un grosso respiro, prima di lasciarsi sprofondare sulla sedia, «sono riuscito a contattarla.» Ed è proprio ora, in questo minuscolo istante che segue le sue parole, che torno a respirare, ma credo di morire.
Rimango fermo, con gli occhi sgranati e la convinzione che se emettessi un fiato, anche uno di quelli minuscoli, scoppierebbe l'universo, allora aspetto.
Aspetto che mi dica qualunque cosa che mi faccia credere che esista ancora la speranza di rivederla, di sentire il profumo dei suoi capelli, mentre l'abbraccio con le labbra poggiate sulla testa, in una coccola che sa di casa.
«Ha utilizzato la sua vecchia scheda. Quando ha acceso il cellulare le sono arrivate le notifiche di chiamate e messaggi, sia miei che tuoi. Ha preferito chiamare me. È convinta che tu non la lasceresti parlare.»
«Mi sembra il minimo» rispondo alla stronzata che sto ascoltando «Dimmi subito dove si trova.» sbraito, battendo i pugni stretti in una morsa, sulla scrivania.
«Evan, spiegami, vuoi mandare tutto a puttane? Eravamo d'accordo che non avresti fatto cazzate.»
«Eravamo d'accordo che avremmo fatto di tutto per sapere dove si trova.» Non lo lascio continuare, ma lo vedo che vorrebbe aggiungere qualcosa. «Jake, sono anni che non la vedo. Anni! Non me ne frega un cazzo di fare il bravo bambino, ora. Deve solo tornare o me la vado a riprendere io.» Punto il dito sul mio stesso petto, sbattendolo con forza a ripetizione. «Ti rendi conto che sono stato zitto e buono per non turbare la sua serenità?» E io, intanto, sono morto dentro.
«Ha intenzione di tornare, ma...» dice di un fiato, prima di interrompersi.
«Ma, cosa? Ma. Cosa. Cazzo. Di. Cosa?»
I "ma" non mi sono mai piaciuti. Ti illudono, nel momento che li precedono, per poi lasciarsi andare nello scoppio di una bomba nucleare.
«Vuole che firmi un accordo con qualche clausola.»
Si alza dalla sedia e gira intorno alla scrivania per raggiungere lo schedario, aprirne un cassetto e tirare fuori il mio fascicolo. Dall'interno, prende l'ultimo plico mentre mi raggiunge.
Saranno una decina di fogli spillati e inizio a pensare che con "qualche clausola", intendesse l'Inferno di Dan Brown.
Me li porge, li afferro ed entro in modalità ansia.
Posso firmare qualunque cosa mi chieda, la rispetterò, ma... potrei essere io a diventare bomba: una mina.
Una di quelle che se calpesti sei finito.
«Posso vederla solo se fingo di essere un'altra persona?» domando, quando noto, tra le varie richieste, una in particolare che mi lascia perplesso.
«Sì, Evan. La verità non deve uscire fuori. Tuo padre si è assunto tutte le responsabilità e lei-»
«Mio padre?» lo blocco sul nascere. Il solo sentire nominare quell'uomo mi manda fuori di testa. «Quello non è mio padre. Un padre non penserebbe mai di rovinare la vita del figlio togliendogli l'amore della sua vita. Quella persona ha accumulato così tanta merda che non servirebbe a un cazzo spalarla, Jake!» urlo, non per far sentire la mia voce, ma è un istinto che non riesco a controllare.
Lo sento nello stomaco, sulla pelle, nelle ossa che sembrano sgretolarsi al pensiero di tutto ciò che ha fatto. Un bruciore che potrebbe essere lenito solo con un bicchiere di rum.
«Lo so, Evan, ma devi prendere un grosso respiro e ritrovare il senno, ora. Torna domani, a mente lucida ti spiegherò ogni dettaglio. Purtroppo tu non sei nessuno e devi comportarti da tale.» Si avvicina, per accarezzarmi una spalla. «Abbiamo il tempo dalla nostra parte: resterà per sempre, se fai come ti dico e porteremo la legge dalla tua parte. Ora, fai qualcosa per tranquillizzarti. Scatta qualche foto; passa una bella serata con la tizia del rossetto; fai un po' il cazzo che ti pare, ma domani torna qui con uno spirito diverso.»
Alzo la testa verso il soffitto, chiudo gli occhi e sbuffo nervoso.
«Andiamo a bere qualcosa, stasera? Come i vecchi tempi.»
Potrei andare dalla bionda, mi ha chiesto lei di farlo e non sarebbe male spezzarla ancora; mi aiuterebbe a sfogare questo senso di oppressione che sento nel petto, ma qualcosa mi spinge a cercare un altro tipo di sfogo, con un amico.
«Mi spiace, Evan, ho già un impegno.» dice, mentre riporta il mio plico al suo posto, dopo averlo richiuso. «Posso provare a rinviare, nel caso, ti faccio sapere.»
«No, lascia stare, non c'è bisogno di spostare le tue cose per le mie.»
Credo di sapere dove deve andare e con chi, e va bene così. Naira è storia chiusa, anzi, è una storia mai aperta che non vale la pena forzare. Per cosa poi? Per un capriccio che mi ha portato a pensarla un po' troppo per i miei gusti.
Esco dall'ufficio e prendo il telefono per chiamare Collin. Risponde al primo squillo: «Cosa vuole la mia testa di cazzo preferita?»
«Stasera ci sei per un drink?» Non gli dico di averne un eccessivo bisogno...
«Sempre, comunque e dovunque, ma il dovunque è al Troy, con Jay. Unisciti a noi e non fare storie.»
«Non credi che io sia di troppo?» domando scettico.
«Nah, ti mettiamo nel mezzo e ti diamo il biberon... di rum, intendo. Vienimi a prendere prima, così parliamo un po', e poi lo raggiungiamo al locale.» Il tono comprensivo che usa mi fa pensare che non era necessario dirgli quanto ne avessi bisogno.
«Ti porto a cena. Pago io!»
«Certo, sei tu quello ricco. Ti aspetto per le venti, giusto il tempo di fare una doccia e improfumarmi come una baldracca di lusso. Ah, è vieni con la macchina che l'ultima volta mi si è gelato il culo su quella moto, grazie!» Mi ordina, prima di chiudere la chiamata.
Con lui mi sento più a mio agio di quanto mi senta con Jake, eppure, non abbiamo la mole di tempo dalla nostra parte.
Jake lo conosco da sempre.
Collin l'ho conosciuto il secondo anno di università.
Gli stavo talmente sulle palle che una volta, durante una serata alcolica in un pub, ha lasciato il suo tavolo per venirmi a gridare in faccia quanto fossi stato stronzo ad andare a letto con la sua amica Brenda e fingere di non conoscerla il giorno dopo.
Neanche la ricordavo quella ragazza. Scoprimmo che aveva messo in giro la voce, per vendicarsi di un mio rifiuto sgradevole. Le risi in faccia, quando mi chiese di uscire, per poi darle della squilibrata mentre andavo via.
Non ho mai detto di essere un santo, né tantomeno lo ero prima di perdere tutto.
E quella era fuori di testa per davvero, non mi ero sbagliato.
Ero uno stronzo, ma non ho mai illuso nessuno.
Tutti al campus sapevano che avevo una storia sottobanco con l'assistente del professore di lettere. Taylor Vogue: un'altra stronza trascendentale. Di sicuro, è stata proprio la storia con lei a vedere il mio declino.
Non posso fidarmi dell'amore, e non perché lei andasse a letto con mio padre, ma proprio perché era l'uomo che avrebbe dovuto amarmi sopra ogni cosa ad essere stato il primo ad avermi tradito.
Forse, dare loro degli stronzi è un insulto per i veri stronzi.
🤬🤬🤬🤬🤬🤬🤬🤬🤬🤬🤬🤬🤬🤬🤬
«È follia!» Collin sembra avere un collasso quando gli elenco alcune delle numerose clausole che recitava il contratto, almeno, quelle che ricordo. «Lei tornerà a New York e tu, in pratica, dovrai starle a debita distanza, a meno che quel coglione di tuo padre non si alzi con il piede giusto e decida che è la giornata ideale per lanciarti qualche briciola? È questo il succo di tutte quelle cretinate messe su carta!»
«Credo che tu non sia molto lontano dalla verità!» Sento l'arrosto risalirmi su dallo stomaco, insieme ai tre calici di vino mandati giù, come acqua fresca, mentre sfreccio con la moto per raggiungere il Troy, continuando a urlare per riuscire a sentirci.
Siamo un po' in ritardo sulla tabella di marcia. Jay ha chiamato Collin da quasi un'ora, ma, tra un bicchiere di buon Chianti e il mio sfogo da pietoso imbecille, abbiamo perso la cognizione del tempo e quel tipo ha preferito non aspettarci al gelo ed entrare per riscaldarsi un po' il culo.
Non ho neanche pensato di dar retta a Collin e prendere la macchina, avevo bisogno di cambiare espressione, prima di far serata. Quale miglior occasione di appianare le rughe di una faccia corrucciata, se non quella di girare per le strade e procurarsi una paresi con qualche ventata gelida, su due ruote ben assestate.
«Sei un emerito bastardo, Evan.» dice, quando posteggio la moto al parcheggio riservato. «Morirò assiderato a causa tua, prima o poi. Anzi, no! Morirò stasera stessa e tu dovrai sentirti in colpa per tutta la vita.»
«Non credi di stare esagerando, Coll?»
«Ho due cubetti di ghiaccio al posto dei testicoli, credi davvero che stia esagerando?»
«Un gin tonic e le braccia di mister belloccio basteranno a scaldarti.» Lo vedo sorridere non appena pronuncio quella frase. «Che c'è? Cosa ti ha fatto cambiare umore così velocemente?»
«Pensi davvero che Jay sia carino?» Si stringe nelle spalle e i fari che illuminano i mezzi fermi al parcheggio sembrano puntare tutti su di lui, quando arriccia il naso e la bocca, in una sorta di imbarazzo.
«Non dirmi che ti piace sul serio?» Lo canzono, cercando di dimenticare tutta la storia del contratto e del loro ritorno, solo per un po'. Solo per qualche ora.
Dalle tasche del giubbotto sfilo il pacchetto delle sigarette. Ne tiro fuori una, insieme all'accendino che incastro all'interno della scatolina. ci clicco sopra, senza distogliere lo sguardo dal mio amico che pare tentennare nel rispondere. Sospira, mentre io aspiro il fumo a pieni polmoni.
«Questa merda ti ucciderà.» dice una grande verità, mentre mi strappa la sigaretta dalle labbra e la spegne, premendo la punta della scarpa, dopo averla lanciata sull'asfalto. «Andiamo dentro, se non vuoi essere la causa della mia infelicità.»
«Perché potrei morire o perché hai preso una sbandata per quel ragazzo e hai paura di andare in bianco, stanotte?»
«Possibile che tu debba pensare solo al sesso?» domanda cinico, mentre si avvia verso il Troy.
«Penso alla salute psicofisica dell'essere umano.» controbatto.
Una volta all'interno del locale, vengo accecato dalle luci stroboscopiche e distratto dalla musica assordante che mi rimbomba nelle orecchie. Ho perso il mio amico tra la folla, ma sa bene dove andare... e anche io.
Il bancone del bar è pieno di gente che fa la fila per un drink. Prendo la corsia preferenziale e vado diretto dal solito barman di fiducia. Non sta facendo un cazzo. È palese che sia preso dalla conversazione e dalla scollatura della ragazza che ha di fronte. Non ho idea se le sue tette siano al vento, ma lo sguardo di Damian, puntato in quella direzione mi fa supporre che, la roba che ha davanti, non fa a pugni con il suo didietro poggiato su quello scomodo sgabello. I capelli, legati in una coda, lasciano il collo scoperto e, se Damian il barista, non ha intenzione di prenderlo a morsi, di certo, io non mi tirerò indietro.
Sento che un po' mi infastidisce che stia facendo il coglione con quella ragazza. Per carità, può fare il cazzo che gli pare, ma dopo avermi servito da bere. Quando sono un po' più vicino gli faccio un cenno inutile per attirare la sua attenzione. È così preso da Miss culo perfetto che non fa caso a me, neanche quando poggio i gomiti sul bancone.
«Una tequila!» Ho dovuto urlare, per farlo smettere di sbavare e darmi retta.
«Te la preparo subito, capo!» risponde, dandomi la sensazione di essere di troppo.
«Un'altra anche per me, Damian. Non dimenticare il sale e il limone.» ordina la ragazza, prima che mi renda conto che ad essere di troppo è lo sfigato, figlio di puttana che le aveva messo gli occhi addosso.
«Sei bellissima, cazzo!»
Cazzo!
Cazzo!
Cazzo!
Per quale cazzo di motivo mi ritrovo Naira sempre in mezzo alle palle.
E, soprattutto... cosa le ho appena detto!?
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