"L'amico immaginario" di M4rtyPerl4
«Non serve a niente rifugiarsi nei sogni e dimenticarsi di vivere»
-Albus Silente
Smisi di tenere il conto dei miei anni un paio di secoli fa. Ne avevo fin sopra il cappello di quei dannati numeri! All'epoca non c'era la signora Willis, ma un uomo – l'unico –altrettanto torvo e scuro, basso, grasso e con la faccia ricoperta di peli, in mezzo ai quali erano incastonati due neri occhietti da topo, che mai vidi scomparire dietro le piccole palpebre a guscio di noce. Dopo di lui fu il turno di una donna, che giunse qui giovane e alta come una colonna greca, per uscirne un po' più vecchia e un po' più curva e un po' più grigia. Venne chiamata a sostituirla un'anziana dalle maniere raffinate, piccola e magra nel suo cappotto color camelia, che indossava i guanti in qualunque stagione e se ne andava in giro, sulle sue gambette corte, a bacchettare – letteralmente – chiunque compisse errori di grammatica in sua presenza. È facile intuire, tuttavia, che non riuscì a gonfiare neppure la metà delle mani che avrebbe voluto, giacché al suo arrivo aveva un piede nel convitto e l'altro in ben più lontane contrade. Non dovemmo aspettare molto, comunque, perché infinite altre si susseguissero al suo posto. Dei loro nomi, che non sono poi tanti, non mi è rimasta neppure l'ombra di una lettera, e le loro voci, che tuonavano nei corridoi all'ora dei pasti, si sono ormai scollate dai muri come carta da parati vecchia e marcia. I loro passi sono stati grattati via mille e mille volte, con acqua, sapone e olio di gomito, dalla pedata dei gradini e dai pavimenti di legno; persino i tappeti non ne conservano più il ricordo, rosicchiato dalle tarme insieme alle belle trame persiane. Ma dei bambini, invece, dei bambini nessuno si dimentica.
Incidono i loro nomi ovunque, quando nessuno li guarda, sui banchi, sotto alle sedie, sul fondo dei piatti; lo fanno specialmente nella prima solitudine dell'abbandono, quando si convincono che non ci sia più persona alcuna a voler loro bene e hanno paura dell'oblio, anche se non sanno come chiamarlo. Talmente tante volte hanno passato le dita sulle finestre, che né l'aceto bianco né il bicarbonato né le scaglie di drago possono nulla, e se fuori c'è abbastanza freddo e tu soffi abbastanza forte, i vetri si rivelano per quel che realmente sono: palinsesti indecifrabili, nei quali, calpestati da arabeschi fioriti e animali fantastici, teneri amori mai sbocciati rivivono ancora.
Sulla parete dietro al proprio letto, ognuno risponde alle parole di chi, come lui, lì ha trovato incubi e riposo, e vi aggiunge domande e paure e speranze, in quelle notti senza sonno cui neppure l'adulto sfugge. Sempre di notte, può succedere che qualcuno si svegli in preda alla fame – perché si sa, non tutti i bambini hanno il medesimo appetito – e allora, muto come neve, scivola, striscia, si accuccia, gattona in quei passaggi segreti che ha scoperto giocando a nascondino, verso la cucina. Le domestiche sono tutte troppo grandi o troppo tozze o troppo crick-crack per spingersi così a fondo con i loro manici di scopa, per questo la polvere è fitta e spessa e costellata di impronte regolari, vecchie di decenni, che il bambino si premura di seguire con una disinvoltura ormai acquisita, quasi ereditata.
Talvolta, certe piccole pesti accorte nascondono i loro giocattoli così bene, per non farseli rubare dai più grandi, che alla fine dimenticano dove cercare. Qualcuno salta fuori quando il suo bambino se n'è andato ormai da tempo, e così l'orsetto che aspettava quieto sotto alla pila di vecchie divise, con la pancia sazia del miele dei sogni, viene ritrovato smunto e triste, mentre la bambola di pezza che dormiva silenziosamente nell'imbottitura del cuscino ha gli occhi bassi e il sorriso sdrucito. Eppure, nel cuore dei bambini, che fra una conchiglia e un bel sasso fanno ben poca differenza, c'è spazio anche per loro. Li tengono stretti al petto quando mangiano, e ogni tanto passano loro un pezzo di pane, con lo stesso atteggiamento furtivo di chi stia dando asilo a un prigioniero evaso; poco prima dell'inizio delle lezioni, li gettano nella cartella, fra i libri, e attraversano il patio inondato dal sole con aria ostentatamente disinvolta. Si prendono cura di loro come di un tesoro inestimabile, li sottraggono all'ombra della dimenticanza dalla quale loro stessi temono di essere inghiottiti, almeno finché i genitori non gli spediscono un trenino o un pappagallo o un bambolotto di porcellana, accompagnato da una lettera scritta in bella grafia, di solito quella della madre.
Tutte queste storie, sussurrate giorno e notte dalle pareti e i pavimenti e le tende, non si contano sulle zampe di due tarantole. Alcune sono vere, altre inventate, altre si collocano a metà strada, ma – lo giuro sulla mia bacchetta – io sono una di loro.
All'inizio non desto molta simpatia nei più piccoli, per questo ho preso l'abitudine di presentarmi all'ingresso insieme alla rettrice ogni qual volta abbiamo un nuovo arrivato. Se, guardandosi intorno, il bambino mi vede accanto a una lampada o sotto a un attaccapanni, penserà subito che sono una presenza ordinaria, una parte dell'arredamento come lo è il portaombrelli a forma di zampa di elefante. Trascorrerà i primi giorni a pensarci un po' su, probabilmente, a squadrarmi da lontano, poi mi sentirà raccontare agli altri di quella volta che presi a bastonate Belzebù e capirà che non c'è alcun pericolo. I bambini vengono da me quando si sentono soli, o quando sono appena stati ripresi dalla rettrice e vorrebbero piangere sulla spalla della mamma e passare la mano sulla mascella ruvida del papà, o ancora, semplicemente, quando si annoiano a morte, perché è noto che l'ozio riporti a galla brutti pensieri. Li lascio accarezzare il mio vestito – le piume di grifone piacciono a tutti – e tirarmi un po' il naso, mentre io pronuncio qualche incantesimo semplice semplice che a loro suona come una ninna nanna, e così tornano tranquilli. È sufficiente che mi chiamino – non col mio nome, però, il mio nome non lo dico a nessuno, perché è una cosa preziosa – o che mi pensino, e in questo modo mi trovano dovunque.
«Non si può giocare a nascondino con te», mi disse ridendo, anni fa, una bambina di nome Mathilda, bionda e minuta come una spiga di grano, e aveva ragione.
Il più delle volte siamo solo io e loro, nel dormitorio o in soffitta, che quando l'affrontiamo insieme non fa rabbrividire più nessuno, nella sala grande o in giardino, e stiamo in cerchio, in fila, in punta di piedi, per non farci udire mentre sgraffigniamo qualche focaccia dalla dispensa. Tuttavia, ci sono anche lunghi periodi dell'anno in cui ci piace ricevere ospiti. Non scorderò mai quando Timothy ci raggiunse nell'orto accompagnato da una mummia in abito da sera. La rettrice, che allora era una donna pallida e affusolata, col portamento di una ballerina e un paio di occhiali minuscoli, stava seduta sulla veranda a leggere nella luce calda del primo pomeriggio. Timothy arrivò da noi di corsa, un gran sorriso stampato in faccia, saltando a piè pari i gradini sotto al portico, ma la mummia, dietro di lui, aveva qualche problema con lo strascico del vestito ed era molto meno agile di lui. Solo appendendosi alla lampada per le falene riuscì a non rovinare addosso alla rettrice, che continuava a tenere gli occhi fissi sul suo libro, imperturbabile. Mi pare si chiamasse Sheldon, la mummia di Timothy, mentre il cavaliere di Andrew era senza alcun dubbio Robin e non perdeva mai l'occasione per sfidare a duello Randal, il mago barbuto di Diane. E come dimenticare Ruby, la fata di Susanne? Piccola come una coccinella, amava farti il solletico nelle orecchie, con quelle sue dita microscopiche. Sfortunatamente, non appena i bambini soffiano via nove o dieci anni, per i loro amici arriva il momento di partire e non ci lasciano nient'altro che un addio zeppo di malinconia. Eppure, nessun addio sarà mai più doloroso di quello che sto per raccontarvi.
Tantissimi anni fa - tanti quanti ne ho io, vi direi, se ancora li contassi, o se mi piacessero i numeri – il Convitto di St. Agatha era in realtà un collegio, frequentato dalle sole figlie femmine delle famiglie più ricche della città. Una di queste bambine si chiamava Odette. Doveva il suo nome alla nonna materna, che era francese e aveva vissuto in casa loro per anni. Era stata lei a insegnarle la postura e il galateo, e cose più divertenti come leggere e scrivere – non far di conto, però, perché la matematica l'aveva sempre lasciata al marito – e assieme a lei Odette aveva cominciato a inventare le prime storie: oceani popolati da sirene con code sgargianti, cieli infiammati dalle ali di mille fenici, montagne spostate da immensi giganti... Quando sua nonna morì, tuttavia, i genitori si resero conto che non c'era più nessuno in grado di garantire alla loro figlia un'educazione adeguata e, dal momento che amavano la loro creatura più di qualunque altra cosa al mondo e volevano solo il meglio per lei e per il suo futuro, la mandarono al St. Agatha. Qui, però, nessuno ascoltava mai le sue storie. Le sue compagne erano tutte, per usare un'espressione che piaceva tanto a sua nonna, delle piccole "prime donne", troppo diverse da lei che avrebbe voluto calzare un'armatura piuttosto che un corsetto. Trascorreva la maggior parte delle sue giornate a scarabocchiare su un taccuino, cercando di eludere i dispetti delle altre bambine e non farsi rimproverare dalla rettrice, che sembrava averla inspiegabilmente presa in antipatia. Poi, un giorno, quando stava pianificando di arrampicarsi sul melo per non scendere più, arrivò Cherie.
Oltrepassò la soglia del cancello senza che il guardiano le dicesse alcunché, e imboccò il vialetto con un'andatura traballante, che ricordava molto quella di una grossa e grassa gallina. Indossava un mantello nero spesso almeno due dita, che le arrivava all'incirca alle ginocchia, e un altissimo cappello a punta che le rimbalzava su e giù sul capo a mo' di fisarmonica e le nascondeva il volto sotto le tese larghe. I capelli erano ricci e di un argento opaco e puntavano in ogni direzione, ondeggiando tutti insieme a ogni suo passo come i tentacoli di una medusa. Giunta ai piedi del melo si fermò, e così fece anche Odette, che aveva già scalato metà del tronco, strappandosi calze e guanti. La vecchia alzò lo sguardo su di lei, lasciando che il cappello le scivolasse indietro sulla testa. Aveva una faccia piccola e rugosa come una prugna secca, magra quasi fino all'osso e col mento pronunciato. Gli occhi grigi erano infossati sotto un paio di sopracciglie foltissime e continuava a muovere la bocca chiusa, senza parlare, come se stesse cercando di ingoiarsi la lingua. Il naso era lungo e appuntito e orribilmente butterato. Odette la trovò subito simpatica.
«Be', cos'hai da guardare?»
La voce della nuova arrivata le traforò i timpani come il richiamo di una cornacchia.
«Sei una strega?», le domandò Odette, le braccia ancora avvinghiate attorno al melo.
«Sono Cherie, prima di ogni altra cosa», replicò la donna, «Ma se tu scendessi da lì potrei anche essere una strega, chissà»
Funzionò. La bambina si lasciò scivolare lungo il tronco dell'albero, lasciando lembi di vestito attaccati alla corteccia, e atterrò con un balzo a pochi centimetri da Cherie, che la squadrò divertita. «Sembri un folletto dei boschi», le disse sogghignando. La sua risata era un concerto di scoiattoli.
«E tu sembri una strega», insisté Odette.
Cherie fece schioccare la lingua, soddisfatta.
«E strega sia»
Dopo quell'incontro, le giornate di Odette parvero cominciare a risplendere di una luce del tutto nuova. Poco importava se nessuna delle sue compagne la voleva accanto a sé a colazione, se la rettrice le faceva lavare la divisa delle altre per aver strappato la propria o se i suoi genitori non le avevano spedito neanche una lettera da quando era entrata al St. Agatha: lei aveva Cherie e ora era tutta un'altra storia. Trascorrevano interi pomeriggi a discutere di pozioni e creature magiche, che Odette trovava puntualmente la maniera di inserire nei propri racconti, ed escogitavano ogni sorta di percorso alternativo per evitare di incappare nelle trappole che le altre bambine preparavano apposta per lei (già due volte le era successo di scivolare su una macchia di melassa appena fuori dalla sala da pranzo.) La parte più divertente era che, di notte, specialmente quando il tempo non era dei migliori, tutte le bambine tremavano di terrore nei loro letti, mentre Odette se la rideva di gusto sotto le coperte, ben sapendo che tutti quei tuoni erano opera della sua formidabile amica. Tutto andava per il meglio. Almeno fino a quando...
«Posso diventare una strega anche io?»
La bambina e la strega erano in soffitta, sedute a terra, intente a dividere con cura i petali di rosa da quelli di genziana, che Odette aveva raccolto ai piedi del melo. Cherie le aveva detto che con quelli si poteva preparare un decotto che avrebbe fatto ridere per ore chiunque l'avesse ingerito.
«Certo che no», rispose la vecchia, cominciando a tritare i petali con un pestello che la bambina le aveva portato dalla cucina.
«Ma perché?», si lagnò la piccola.
«Perché non sei ancora pronta»
«E perché non sono ancora pronta?»
La strega ripose a terra il pestello e si poggiò le mani sulle ginocchia ossute.
«Perché se diventassi una strega, smetteresti di invecchiare, rimarresti una bambina per tutta la vita e saresti per sempre felice», si sporse verso di lei, sfiorandole il viso col suo naso che sembrava di gomma, «E non combineresti nulla»
Odette batté i piccoli pugni sul legno.
«Ma io voglio rimanere una bambina!»
«No, non lo vuoi», controbatté calma Cherie.
Odette ricambiò lo sguardo della strega, il viso rosso che le fremeva di pianto.
«Tu non vuoi che io sia felice»
Si alzò, calciando via i mucchietti ordinati di petali. Cherie avrebbe desiderato alzarsi e seguirla, ma Odette non voleva. Odette voleva chiudersi nel dormitorio e rimanere sola, e così Cherie non si mosse. Nelle settimane seguenti, la bambina e la strega non si scambiarono una sola parola, né si incontrarono in giardino per cuocere al sole qualche intruglio magico. Continuò così per molto, molto tempo, finché non venne l'alba in cui i genitori di Odette tornarono a prenderla. Portarono via solo lei. La strega rimase al St. Agatha, insieme alle paure, alle speranze, ai nomi incisi nel legno e alle bambine. E poiché, come Odette, queste potevano vederla, cominciò a fare per loro quel che aveva fatto per la sua bambina. Lavava via le loro lacrime, giocava con loro a un-due-tre-stella, insegnava incantesimi e cantava le antiche litanie della sua stirpe, e le bambine diventavano sempre meno donne e sempre più bambine e smantellavano le trappole e le barriere e dicevano "Mi manca la mamma" e "Non lo voglio, il corsetto."
Molti anni dopo, quando per il collegio erano ormai passate un gran numero di rettrici senza che Cherie desse ancora segno di stare per svanire, una piovosa sera di novembre qualcuno bussò alla porta. Sulla veranda c'erano due donne, e una di queste era così anziana e così debole, che per reggersi in piedi si aggrappava al braccio della seconda – una nipote, probabilmente – Chiesero ospitalità, indicando il tempo che imperversava all'esterno, e la rettrice le fece accomodare nella sala grande, davanti al camino, affinché si asciugassero i vestiti.
Cherie, che come sempre era andata ad accogliere i nuovi venuti all'ingresso, si era accorta del diverso modo in cui la più vecchia delle due donne aveva guardato nella sua direzione. Solitamente, gli adulti facevano scivolare gli occhi su di lei come su un comune tavolo da tè o una parete, ma questa volta era stato diverso. Quando la rettrice invitò la ragazza nella sala da pranzo per prepararle qualcosa, l'anziana donna restò sola davanti al fuoco, su una silenziosa sedia a dondolo.
«Lo so che sei qui, Cherie», la chiamò con un filo di voce.
La strega le si avvicinò, trascinando i piedi stanchi.
«Cosa hai fatto senza di me?», le chiese, porgendole le mani. L'altra gliele strinse appena fra le dita gracili.
«Sono diventata una scrittrice», bisbigliò l'anziana, il volto che le si stropicciava in un largo sorriso, «Ho viaggiato molto, ho scritto tanto. Ho versato tante lacrime, sai? Ma ho anche riso più di quanto tu possa immaginare. Mi sono innamorata, ci crederesti mai? Io, vestita come una principessa, che percorro una navata senza inciampare. Sì, ho scritto di questo. Ho scritto anche di questo posto, ho scritto dei nomi incisi nel legno. Ho scritto di me e di te. Ci ho rese immortali. È per questo che non te ne sei mai andata»
Miriadi di scoiattoli si risvegliarono nella bocca della strega e l'altra rise con lei.
«Pensi che sia pronta, adesso?»
Cherie si liberò le mani dalla presa dolce della donna e cominciò a muoverle davanti a lei come seguendo una coreografia. Disegnò linee e punti e tagliò fili e cucì l'aria, fino a che tra le dita non le apparve un cappello. Era persino più alto del suo.
«Sì, Odette, adesso sei pronta»
E mentre Cherie le adagiava il cappello sui boccoli d'argento, questi cambiavano colore, tingedosi prima di rame e poi di bronzo. Le guance della donna tornavano lisce e rosee e gli occhi le si aprivano come soli, mentre le gambe si allontanavano sempre più dal pavimento e le mani acquisivano forza. «Un'eterna bambina», le sorrise la strega.
Odette saltò giù dal dondolo, stringendo le tese del copricapo per paura che le balzasse via.
«Non farli smettere di sognare»
E questa volta mi disse addio per sempre.
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