Capitolo 13 - È follia senza Nam

Adesia ripose CasaDolceCasa su un ripiano di metallo e si lasciò cadere di nuovo sulla poltrona massaggiante, che prese a vibrare piano sotto il suo corpo. Con l'indice puntò Astrea e l'ologramma del suo pianeta si rivestì di una luce bianca, come fosse stato risvegliato dal suo torpore, poi si avvicinò lentamente fluttuando nell'aria e divenne sempre più grande.

Adesso erano ben visibili gli oceani, i ghiacciai, le montagne, la terraferma; e man mano i fiumi, le verdi praterie, i sentieri in pietra lavica e i pozzi rilucenti di verde e azzurro come se nelle pareti rivestite di mattoni e cemento vi fossero stati incastonati tanti piccoli smeraldi. Ora i tunnel che portavano alle varie città sotterranee, il sole artificiale, i navigli attraversati da velieri rapidissimi, miniere di minerali e gemme preziosi. I binari della metropolitana che si diramavano in migliaia di direzioni e collegavano i centri urbani dell'intero pianeta, e poi il grattacielo blindato del Congresso, le abitazioni del corpo degli scienziati, i laboratori di ricerca.

Polvere nel cosmo. Perduto. È finita.

Adesia abbassò lo sguardo sulla bottiglia di vino e fissò il liquido rugginoso al suo interno; pareva diventare l'unico modo per affrontare la solitudine e non pensare più a nulla per uno o due giorni dei tre restanti per giungere su Artis, ad Artenia. Quella bottiglia cominciava ad assumere un significato del tutto diverso da quello che aveva sempre avuto prima che Axel, la sua migliore amica, morisse. E a un tratto acquistava anche un nuovo valore: oscuro, ingannevole, consolatorio. Un'importanza che, prima di rimanere sola in quella stanza semibuia situata all'estremità dell'astronave, non avrebbe mai pensato potesse avere.

È finita. Tutto perduto.

La Fuori Tempo viaggiava nello spazio da tre giorni galattici ma ad Artenia era passata una sola notte, eppure il suo stomaco bruciava a quel pensiero: il tempo. Era strano non poterlo toccare più con mano. Lei che era cresciuta tra un'epoca e un'altra, infiltrandosi con brio e abilità fra popolazioni rudi e barbariche o civiltà moderne. Imparando centinaia di usi e costumi diversi, apprendendo la storia delle origini, del pianeta azzurro, della Terra.

Tutto perduto. Finito.

Astrea, i suoi genitori, la sua migliore amica si erano smaterializzati nell'universo e qualcosa dentro di lei era morto insieme a loro. Svitò il tappo con uno scatto d'ira e bevve un lungo sorso di vino come per farsi del male, come se qualcosa nella testa la obbligasse a farlo. Quando allontanò le labbra dal collo della bottiglia, fece un profondo respiro, tossì e l'odore sgradevole dell'alcool le salì in gola, poi dentro le narici. Portò il dorso della mano sinistra davanti alla bocca e i suoi occhi si inumidirono.

Sei debole, Adesia, le sussurrò la mente. Lasciati andare, i tuoi genitori non sapevano un bel niente sul futuro, o forse sapevano talmente tante cose da scaricare tutto su di te, l'unica loro erede. Senza Sonantis, Kur ucciderà chiunque gli ostruirà la strada verso la supremazia. Tobia Muna? Tobia, chi? Quel ragazzo svenuto tra le braccia di un povero vecchio? Lui sarebbe il discepolo degli dèi superiori di Nam? Se si è lasciato andare lui, puoi farlo di certo anche tu. Ma la lettera dice... La lettera dei tuoi genitori non dice niente, non ha alcun valore. Vuoi forse rileggerla per l'ennesima volta? Forse non ho letto bene... Hai letto benissimo! Forse l'hanno scritta di fretta e... Oh, certo! Che motivo c'era di scriverti per filo e per segno la successione degli eventi futuri alla loro morte, al fine di sconfiggere un Dio che si è servito dell'ingenuità della tua gente per annientare i suoi simili? Gli dèi dell'universo superiore Nam sono morti per colpa tua, dei tuoi genitori, degli scienziati di Astrea. È finita. Perduto. Polvere nel cosmo.

Adesia improvvisamente scoppiò in lacrime e portò le mani davanti agli occhi piegando il busto sulle ginocchia. La bottiglia di vino cadde sul morbido pavimento scuro senza fare alcun rumore e rotolò per qualche metro spargendo il suo liquido per terra.

"Adesia!" esclamò George, sbucando all'improvviso oltre la porta di quella stanza.

"Vattene via!" urlò Adesia, guardandolo con gli occhi pieni di lacrime. "Non puoi aiutarmi, non può farlo nessuno!"

Sulla parete più larga della stanza fu proiettata l'immagine di un cielo rosso cupo.

"Artenia" disse Albert. "Sta andando tutto in pezzi."

Gocce di sangue cadevano sopra grattacieli che crollavano su strade distrutte. Il cemento ribolliva e sputava macerie, le persone si scagliavano sassi sulla fronte fino a spaccarsi i crani, tra la polvere grigia che il vento teneva compatta e asfissiante a pochi metri dall'asfalto. Il fuoco aveva preso le sembianze di anaconde che strisciavano sui macigni crepitando, afferrava le caviglie delle persone e le stringeva fino a tranciarle; si attorcigliava su autovolanti e navi spaziali e lo stridio di metallo accartocciato sovrastava le urla disperate dei cittadini.

"Tobia Muna" sussurrò tra sé e sé Adesia. "Non ce la farà."

Albert lanciò il comando di aprire lo sportello della Fuori Tempo e Adesia si incamminò verso la soglia che separava la navicella dal vuoto cosmico. George aveva sollevato un braccio come per fermarla, senza convinzione, e piangeva. L'universo appariva come una scatola chiusa e buia al cui interno fuochi d'artificio esplodevano prima di toccarne la superficie. Vi erano sempre più ammaccature, sempre più vicine, sempre più profonde. Adesia fece per toccarne una e venne risucchiata fuori.

Un istante dopo si trovava per terra, sul pavimento della sua stanza nella Fuori Tempo, abbracciata a George, mentre Albert riproduceva in sottofondo "The sound of silence" di Paul Simon e Art Garfunkel. Era stato tutto un maledetto incubo. O forse si era aperto uno strappo momentaneo sul futuro?

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