CAPITOLO OTTAVO - parte 1
Fu strano per Natya tornare a casa, come niente fosse, sapendo che Toby era chiuso in quella cella.
Si diresse subito nella sua stanza, sedendosi sul letto con la testa tra le mani.
-Ho visto che stai molto meglio. I lividi stanno andando via?-. Era la voce di sua madre.
Natya non alzò neanche la testa, ed annuì debolmente.
-Natya, tesoro- disse ancora la donna mettendosi a sedere al suo fianco -Capisco come ti senti adesso, ma...-.
-No- la interruppe lei -Non lo capisci-.
La madre le avvolse un braccio dietro alla schiena e la strinse delicatamente a sé. -Hai ragione, forse non lo capisco. Ma io credo che le cose siamo andate esattamente come era meglio andassero. Tesoro, non lo vedi che quel ragazzo riesce solo a farti soffrire? È meglio così. Lui è mentalmente instabile, non può avere una vita normale. Devi fartene una ragione...-.
A quel punto la ragazza sollevò la testa. Si sentiva arrabbiata con il mondo intero perchè nessuno pareva capire; erano tutti molto bravi a giudicare, a puntare il dito facendosi idee sbagliate...Ma nessuno, nessuno mai si era preso la briga di provare davvero a capire.
-Toby non è... Non è pazzo- farfugliò soltanto, nonostante fosse scossa interiormente dalla rabbia.
-Non ho detto questo. È instabile, ecco. E potrebbe anche diventare pericoloso, insomma.... Sai quello che ha fatto-.
-Siete tutti talmente occupati ad incolparlo per quello che ha fatto, che non vedete quello che sta facendo- mugolò la ragazza, a pugni stretti.
-Che intendi dire?- chiese Marlene.
-Lui... Darebbe la sua vita per il mio bene, possibile che non te le sei resa conto?!-. Nemmeno si accorse che stava gridando.
-Basta, non ne parliamo più- intervenne la voce di Pietro, che ora era in piedi appoggiato allo stipite della porta.
La ragazza abbassò lo sguardo ed intrecciò le dita. -Lasciatemi da sola- si limitò a dire.
Marlene e Pietro si scambiarono uno sguardo comprensivo e uscirono assieme dalla stanza.
Natya si lasciò cadere sul letto, in preda alla disperazione. Nessuno credeva in Toby, nessuno l' avrebbe aiutata a salvarlo.
Che cosa avrebbe potuto fare, adesso?
Tornò in piedi con molta fatica e si diresse in bagno, dove si buttò subito sotto il getto tiepido della doccia. Appoggiò la schiena sulle mattomelle del muro, lasciando che l'acqua le percorresse il viso, e chiuse gli occhi. Era un vero strazio per lei sentirsi così impotente nei confronti di quello che stava accadendo, e l'immagine del volto perso di Toby continuava ad apparire nella sua mente.
Era solo, in quella cella.
E stava male.
Passò le dita sulla sua pelle nuda, ricoperta di lividi scuri che le dolevano al tatto. Pochi minuti dopo, uscì dalla doccia e si vestì, per poi tornare nella sua stanza.
Affondò la testa nel cuscino e puntò lo sguardo sul soffitto.
Era tutto perso. Ogni speranza era andata in frantumi.
All'improvviso però, il cellulare posto sul comodino squillò. La ragazza lo osservò per un paio di secondi, confusa, prima di afferrarlo.
Chi mai poteva chiamarla?
-Pronto?- mugolò.
-Salve, parlo con la signorina Natya Rods?-.
Una voce femminile parlava dall'altro capo della linea; era pacata ed amichevole, ma Natya era sicura di non averla mai sentita prima.
-Hmm.. Sì, chi è?-.
-Salve, sono l'avvocato Fradiani, quello d'ufficio che è stato assegnato in difesa di Tobias Rogers-.
La ragazza sussultò. -Lei può tirarlo fuori?- chiese immediatamente, annaspando per l'eccitazione.
-Non è così facile, ma abbiamo una carta da giocare. È per questo che l'ho chiamata, avrei bisogno di lei... Sempre che non cero disturbo- rivelò la voce della donna.
-Di..Disturbo? Assolutamente! Cosa devo fare?-. Il cuore nel suo petto aveva aumentato i battiti.
-Potremmo incontrarci domani? Posso venire a casa sua, se vuole-.
-Sì... Sì, va.... Va benissimo...-.
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