9. PUNIZIONE DIVINA

«Tesoro, svegliati».

Quando aprii gli occhi mi ritrovai il volto della nonna a un centimetro dal mio. Presi il cuscino e mi coprii la testa, mugolando qualcosa di indecifrabile.

Lei mi scosse le spalle. «C'è una telefonata per te».

«Umm... chi è?»

«Credo che sia David».

Il suo nome mi riportò alla sera precedente e al motivo del mio enorme cerchio alla testa. «Digli che sono uscita», borbottai.

«Perché? Non vuoi parlare con lui? È un così caro giovanotto...»

«Per favore...» la supplicai.

La nonna uscì dalla mia stanza, lasciando la porta socchiusa. Sentii che riprendeva la telefonata, mettendo in piedi qualche scusa. Mi stirai e mi tirai a sedere sul letto. Non era esattamente quello che si definisce un risveglio da favola, avevo un mal di testa terribile, mi dava fastidio la luce e mi sembrava di stare sopra una barca in mezzo al mare. I ricordi della sera precedente erano confusi, ma non abbastanza per aver dimenticato la serie di errori che avevo commesso. Quella sotto l'influsso del vino non era affatto la solita Greta che tutti conoscevano e che io stessa dicevo di essere, ma una persona estranea, così estroversa da aver avuto il coraggio di baciare il cugino del suo migliore amico e così stupida da vomitargli in macchina subito dopo. Se la nonna non fosse riapparsa sulla porta con le braccia incrociate e un inquietante sguardo severo e indagatore, avrei riabbracciato il cuscino e mi sarei rimessa a dormire, sotterrando la vergogna sotto alle lenzuola. «Greta, cosa è successo ieri sera?»

«Io e David abbiamo mangiato un boccone fuori, deve avermi fatto male qualcosa...»

Lei mi scrutò a fondo, assottigliando gli occhi. Tre rughe le attraversarono la fronte. «Per quale motivo non vuoi parlare con quel ragazzo? Ti ha riaccompagnata qui, ti ha tenuta aggiornata sulla salute del tuo amico per tutta l'estate...»

Mi portai le mani alla testa, martellava così tanto che pareva volesse scoppiare da un minuto all'altro. «Ho bisogno di fare una doccia».

Lei per fortuna annuì e non aggiunse altro. Prima di uscire dalla stanza si piegò a raccogliere la salopette e la maglietta che avevo gettato a terra. La sola vista di quei vestiti mi fece balzare il cuore in gola. David mi aveva aiutato a toglierli, quindi mi aveva vista quasi nuda. Chiusi gli occhi e cercai di scacciare quel fatto dai miei pensieri.

«Ti preparo una tazza di latte con i biscotti, ti farà bene», gridò la nonna dalla cucina.

«Certo, sto già meglio!» L'idea del latte mi fece salire la nausea e quella dei biscotti mi provocò un conato.

Corsi in bagno. Poggiai una mano contro il muro sopra la tazza, mentre con l'altra mi tirai indietro i capelli e vomitai. Era stata la mia prima sbornia e giurai a me stessa che sarebbe stata anche l'ultima. Non c'era niente di piacevole in quel risveglio, mi sentivo sporca, bugiarda e piena di vergogna. Come avrei guardato di nuovo in faccia David?

Nel pomeriggio mi recai in ospedale. Gli effetti del vino erano quasi evaporati e io avevo un gran bisogno di sapere come stava il mio migliore amico.

«Ciao, entra pure...» disse Marco, vedendomi fare capolino alla porta.

Nella stanza c'era la luce del neon accesa; nonostante fuori ci fosse il sole, le tapparelle erano completamente abbassate. Marco era steso sul letto, aveva la schiena appoggiata su una montagna di cuscini e un lenzuolo bianco lo copriva fino a metà busto. «Stai tranquilla, non ho intenzione di ripetere il brutto spettacolino dell'altra volta, vieni, siediti vicino a me», mi incoraggiò.

Feci come diceva. Era la prima volta dopo tanto tempo che ci trovavamo faccia a faccia. C'erano stati i giorni nei quali lui dormiva e io potevo vederlo attraverso un vetro, quelli dove lui era ancora debole e poco cosciente per interagire con gli altri e adesso, pian piano, tutto stava tornando alla normalità, o quasi.

«Come stai?» chiesi, titubante. Non so se fosse la domanda giusta da fare a un ragazzo che aveva da poco scoperto che il suo corpo non sarebbe più tornato a camminare.

«Sto».

«Ti hanno tolto il monitor...» Mi guardai intorno. La stanza senza i macchinari sembrava molto più spoglia.

«Non ne ho più bisogno, non sono più in pericolo di vita, l'ematoma si è ridotto», disse, sfiorandosi dietro la nuca.

Notai che aveva un cerotto e tutto intorno gli erano stati rasati i capelli. «Vuoi che ti sistemi meglio i cuscini?»

Lui scosse la testa. «Lo hanno appena fatto le infermiere. Sono tutti molto carini qui, mi trattano come un re. Sono un ragazzo fortunato io. Il re dell'ospedale. Chi non vorrebbe essere un re!»

«Non dire così...» Sentii lo stomaco contrarsi. Quel modo di scherzare non mi piaceva per niente.

«Scusami, non volevo, certe volte mi chiedo come mi sia potuta succedere una cosa del genere, mi sforzo di riportare alla mente quel momento, ma non ci riesco, vedo tutto completamente annebbiato, è così brutto non ricordare niente...» Le sue iridi scure si confusero con le sue pupille, talmente tanto da sembrare due macchie indistinte.

«Pare che tuo padre ti abbia salvato la vita, altrimenti saresti annegato», gli rammentai.

«Una promessa del nuoto che muore in mare, non è una bella fine, sembra quasi una barzelletta, vero? Invece così va molto meglio. Sono vivo, anche se costretto in questo dannato letto».

Avvertii il sangue gelare nelle vene. Sentire Marco continuare a parlare in quel modo di sé stesso mi faceva stringere il cuore. «Non dirlo, tu non sei costretto in un letto».

«Hai ragione, ho detto letto, ma intendevo sedia a rotelle. Che stupido! Perché, sai, in questi casi, la distinzione è cruciale. Se avessi avuto una lesione cervicale avrei potuto morire o restare paralizzato a tutti e quattro gli arti, invece i medici mi hanno spiegato che ho avuto una lesione molto bassa e questo mi ha permesso di conservare le funzioni vitali più importanti. Posso respirare senza l'aiuto di un macchinario, posso parlare, posso mangiare e bere in autonomia e anche fare pipi senza un catetere. Sono cose importanti queste! Praticamente posso fare tutto, eccetto quella stupida cosa che è stare eretto sulle proprie gambe. Quindi, hai ragione, non sarò condannato in un letto, ma su di una sedia a rotelle per il resto della mia vita. Ti ripeto, questione di fortuna!»

Provai ad aprire bocca, volevo dire qualcosa che stroncasse quel suo monologo raccapricciante, ma lui non mi permise di fiatare. «Ci pensi quante belle cose si possono fare su due ruote? Si può vagare tra la folla, ci si può spostare dentro casa e anche uscire con gli amici. E poi io amo le due ruote, lo sai!»

«Marco, per favore...»

Lui mi fissò dritto negli occhi, pareva volesse sfidarmi, ma in realtà era soltanto ai suoi pensieri e alle sue parole che cercava di dare un freno. «La verità è che questo incidente me lo sono meritato. Io sapevo tutto di mio padre e Monica. Lo sapevo da molto tempo, ancora prima che venisse a scoprirlo mia madre. Ho accettato che quella donna venisse in barca con noi al posto di mia madre. Non so perché l'ho fatto, forse perché volevo mantenere quell'equilibrio precario nel quale si trovava la mia famiglia. Mio padre e mia madre erano già in crisi da mesi, mamma soffriva per la storia dell'amante, ma non avrebbe mai lasciato mio padre, un po' per me e un po' perché non ne aveva davvero il coraggio. Tra loro c'era come un tacito accordo del quale, adesso, mi sento responsabile e complice. Quello che mi è successo è la punizione divina per non essere stato il figlio che avrei dovuto essere».

«Cosa?» squittii, «quello che ti è accaduto non c'entra niente con i problemi dei tuoi. È stata una disgrazia, un maledetto incidente, un...»

«So che al mio risveglio c'eri tu, lo ricordo molto bene», mi interruppe. Il suo sguardo si piantò nel mio come un pugnale dritto allo stomaco. «Grazie».

Scossi la testa. Non c'era motivo per ringraziarmi. Nessuno. Il mio posto era con lui quel giorno, in quel momento e lo sarebbe stato anche in futuro, per tutti gli altri momenti cruciali che avremmo dovuto affrontare. Marco mi cullò la guancia con una carezza, il suo sguardo si spostò dai miei occhi alla mia bocca e poi fuggì lontano, in qualche angolo nascosto, che soltanto lui riusciva a vedere.

«Che succede? Ehi...»

Lui lasciò andare la presa sul mio volto, sentii scivolare via la sua mano lentamente, fino a vederla posarsi di nuovo sulle lenzuola.

«Marco?» Lo chiamai, cercai di scrollarlo. Lo presi sotto al mento e gli girai il volto, affinché lui mi guardasse di nuovo, ma i suoi occhi erano in un mondo che non riuscivo a capire, in un territorio sconosciuto che mi faceva un'immensa paura. «Devo chiamare qualcuno? Devo...»

Prima che l'ansia mi mangiasse viva, divorandomi a morsi, lui tornò a guardarmi. Una lacrima gli solcò la guancia, finendo la corsa tra le mie dita.

«Oh, Marco...» Mi buttai a capofitto sul suo corpo. «Mi dispiace, mi dispiace per tutto questo. Io... io vorrei... vorrei che fosse soltanto un brutto sogno, io vorrei... vorrei poter fare qualcosa, come riavvolgere il nastro di una cassetta con la matita o cancellare con il bianchetto quel maledetto giorno».

Sentii le sue braccia avvolgermi. Mi strinse forte contro il suo torace e iniziò a piangere. «Ho paura. Ho una maledettissima e fottutissima paura».

Non risposi perché qualsiasi cosa avessi detto sarebbe stata soltanto inutile. Mi limitai ad abbracciarlo. Non ricordo per quanto tempo restammo avvinghiati l'uno all'altra, io con la testa sul suo torace e lui con il respiro tra i miei capelli, forse per cinque minuti oppure per un'ora, ma Marco per tutto quel tempo pianse e io lo lasciai fare, consapevole che tutte quelle lacrime erano necessarie. Per lui. Per il suo dolore e per me stessa.

Quando arrivò l'infermiera con le medicine, io uscii fuori dalla stanza. Nel corridoio mi ritrovai faccia a faccia con l'ultima persona che avessi voluto vedere in quel momento; David.

«Ciao, Greta, ti ho cercata questa mattina, come stai?»

Avevo il cuore a pezzi, l'animo stanco e il magone allo stomaco di chi ha trattenuto fin troppo dolore dentro sé. «Va meglio», risposi secca. Non lo guardai negli occhi, in realtà cercai di non guardarlo affatto. Non notai neanche come fosse vestito, se avesse una tuta o un paio di jeans o dei pantaloncini. Non guardai se indossasse una maglietta o una camicia. Mi incamminai a passo svelto verso l'uscita.

David cercò di fermarmi, trattenendomi per un polso, immagino volesse parlare della sera precedente, di quello che era successo o, meglio, di quello che avevo combinato, ma io non volevo. Non era il luogo, il momento, l'argomento più adatto da affrontare. In realtà, se avessi potuto scegliere, avrei depennato totalmente dai miei ricordi quell'uscita. Niente sbornia, niente bacio, niente vomito, niente spogliarello. «Sto andando di fretta, ho il turno alla mensa dei poveri tra pochi minuti, devo arrivare dall'altra parte della città e con i mezzi pubblici è sempre un gran problema», mi giustificai, scivolando via dalla sua presa. Imboccai le scale e corsi giù, lasciando David a guardarmi, sorpreso e indeciso.

Pregai che non gli venisse in mente di seguirmi. Per fortuna non lo fece.

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