8. UN BICCHIERE DI TROPPO
«Non è un po' chic come posto? Non credo di avere l'abbigliamento adatto per entrare lì dentro», feci notare a David quando parcheggiò davanti al Plaza; uno di quei ristoranti inavvicinabili per la gente comune, frequentato da una ristretta cerchia di persone.
«Stai tranquilla, vai benissimo così», mi rassicurò, venendomi ad aprire la portiera.
Un cameriere ci accolse all'entrata e ci accompagnò in uno dei tavoli sulla terrazza. Non c'era molta gente, soltanto una coppia di anziani e un gruppetto di uomini giapponesi. Lo stesso cameriere mi scostò la sedia. Restai imbambolata a guardarlo, mentre David gesticolava per farmi capire che avrei dovuto sedermi.
Dopo essermi accomodata, aprii il menù che era sopra il tavolo. Sgranai gli occhi di fronte alle cinquantamila per un tramezzino e una manciata di salatini. «Quando intendevi mangiare un boccone, pensavi di vendere le nostre case per farlo?»
David rise. «Non devi preoccuparti, offro io».
Mi rilassai, guardandomi intorno, il posto era davvero magnifico. Eravamo molto in alto, tanto che sotto di noi potevamo vedere i tetti delle case che punzecchiavano il cielo rosso del tramonto.
«È una meraviglia, non è vero?»
Annuii, tornando al ragazzo che mi sedeva di fronte. David aveva i gomiti appoggiati sul tavolo, il volto accarezzato dall'ultima luce del giorno, che rendeva i suoi occhi più chiari di quanto lo fossero in realtà. Era bello, senza alcun dubbio. Immancabilmente pensai a Vilma e a cosa avrebbe detto se ci avesse visti in quel momento; sembravamo una di quelle coppie nella loro prima uscita, anche se eravamo tutto fuorché una coppia e quello non era affatto un primo appuntamento. «È qui che porti le tue conquiste?» La domanda mi uscii senza che potessi evitarlo. Era ovvio che quel posto era magico, così come era ovvio che uno come David Bucci sfruttasse la sua posizione sociale per stupire le donne.
«Non dirmi che Marco non ti ha mai portata a mangiare in posti del genere...»
«Marco non è il mio fidanzato, non deve fare colpo su di me», risi per l'assurdità della sua affermazione.
«È questo che pensi? Che ti abbia portata qui per far colpo su di te?» chiese lui, assottigliando lo sguardo.
«Cosa? No, non lo penso, tu mi hai portata qui per... per mangiare qualcosa... per... per stare tranquilli e mangiare qualcosa», balbettai a disagio.
David sorrise. «Sai che sei davvero carina quando arrossisci?»
Sentii le guance in fiamme. Perché mi ero infilata in quel genere di discorso?
«In realtà non sono mai venuto qui con una ragazza, eccetto te, adesso, ovviamente. In questo posto ci venivo da piccolo con i miei genitori. Era il posto preferito da mia madre», affermò con aria improvvisamente malinconica.
Pian piano percepii il calore sulle guance affievolirsi e mi sentii anche tremendamente stupida. Sapevo che la madre di David era morta quando lui era piccolo, ma sapevo anche che lui non ne parlava mai.
Dopo un breve e imbarazzante silenzio, David si frugò in tasca, tirò fuori il pacchetto di sigarette e me lo offrì; «Vuoi?»
Agitai una mano davanti al viso, in segno di rifiuto.
«Tu e Marco siete proprio uguali, eh...» Si accese la cicca e la portò alla bocca.
Io e Marco non eravamo uguali, ma ci incontravamo su molti aspetti e uno di quelli era il fumo. Non ci piaceva il sapore del tabacco, odiavamo l'odore che lasciava sui vestiti, sui capelli, sulla pelle.
«Marco non sa neanche la differenza tra una Malboro Rossa e una Camel light», ridacchiò.
Improvvisai un sorriso. Perché? C'era differenza?
Il cameriere ci prese le ordinazioni. David fece riempire il bicchiere di entrambi di vino.
«Un brindisi!» Alzò il calice. «Per Marco, perché esca presto dall'ospedale».
Lasciai che i nostri bicchieri si incontrassero, poi riappoggiai il calice sul tavolo.
David buttò giù un lungo sorso e mi guardò storto. «Un brindisi si fa bevendo», mi fece notare.
Guardai il vino bianco vorticare dentro la coppa di vetro.
«Soltanto un sorso», mi incoraggiò.
«Va bene. Per Marco». Buttai giù senza pensarci troppo.
Presto arrivarono le nostre ordinazioni. Mangiai e continuai a bere. Ogni sorso mi faceva bruciare la gola, ma lo continuai a fare in onore di Marco. Più bevevo vino e spiluccavo mollica di pane e formaggio, più allontanavo dalla mia testa tutte le cose brutte che erano successe. David riempì di nuovo i nostri calici fino a metà e io scoprii che la confusione del vino e il sorriso perfetto del ragazzo che sedeva al mio tavolo mi facevano stare un po' meglio. Dopo il secondo bicchiere persi l'imbarazzo iniziale, la timidezza che accompagnava quella strana uscita e divenni più disinvolta, quasi sfacciata. «Sai, David, stavo pensando... per essere il cugino del mio migliore amico io non ti conosco affatto...»
«Cosa vorresti sapere di me?»
«Umm...» Battei un indice sotto al mento per concentrarmi meglio. La mia testa era un po' confusa, ma era una confusione piacevole. «Il tuo profumo, quello sulla felpa che mi hai imprestato l'altro giorno, cos'era?»
«Stai cercando di dirmi che ti piace il mio profumo?» domandò lui, ammiccando.
Chiusi gli occhi, non era quello che cercavo di dire, semplicemente volevo sapere quale profumo utilizzasse; era così diverso da quello di Marco, ma era comunque buono.
«È una fragranza al sandalo che mio padre ha fatto fare apposta per me», disse.
Riempii di nuovo il bicchiere. Avevo un sacco di domande che mi frullavano in testa, ma senza l'aiuto del vino non sarei mai stata in grado di fargliele.
«Ehi, non starai bevendo troppo?»
Lo ignorai. Non stavo bevendo troppo. Stavo semplicemente rendendo le cose più facili. «Che musica ti porti nello walkman?»
Lui scosse la testa. «Io non ho uno walkman», affermò.
Lo guardai storto.
«Ho un lettore cd». Si caricò di orgoglio.
«Vuoi dire che tu sei uno di quei tipi che vanno in giro con quella sorta di disco ingombrante per ascoltare la musica? Porti con te un marsupio o roba simile per tenerlo?»
«Un marsupio? Per tua informazione io non vado in giro ad ascoltare musica, di solito lo faccio nella mia stanza e poi il suono di un cd è dieci volte migliore di quello di una musi-casetta».
«Allora che musica hai nel tuo lettore cd?» Lo canzonai.
«Ti dice niente Enjoy the Silence?»
«Oh... Depeche mode», affermai, continuando a bere.
«Losing My Religion?»
«R.E.M», dissi, decisa, ingurgitando altro vino.
«Sei brava», riconobbe, lasciando trasparire un sorrisetto.
«Solo informata, la musica fa parte della mia umile esistenza. Marco mi stressa la vita con gli 883, Vilma è in fissa con i Backstreet Boys, mia nonna ha una collezione di vinili di musica classica».
«E tu?»
«E io... Io adoro Jovanotti, conosco a memoria tutti i testi delle sue canzoni e ho il diario pieno delle sue foto ritagliate qua e là».
«Quindi tu sei una di quelle ragazze alla quale piace tenere un diario».
«Perché? Cosa c'è di male nel tenere un diario?»
«Voi donne ragionate troppo, siete capaci di rendere complesse anche le cose più banali e io credo che in parte sia colpa dei vostri diari. Date troppa importanza ai vostri dilemmi interiori, a volte bisogna smettere di pensare e agire d'istinto».
«E sentiamo, cos'è che dice di fare il tuo istinto in questo momento?» Presi il bicchiere e buttai giù il vino restante tutto d'un sorso.
«Riportare a casa una ragazza prima che sia troppo ubriaca?»
«Io non sono troppo ubriaca. Invece sai cosa dice il mio di istinto?» Balzai in piedi, mi sfilai l'elastico che teneva stretti i capelli in una coda e agitai forte la testa, lasciando esplodere una cascata biondo cenere. «Farci scattare una foto ricordo da uno di quei signori giapponesi, ho bisogno di qualcosa che attesti che sono salita su una terrazza da cinquantamila per uno spuntino». Indicai il tavolo di commensali dietro di lui.
David protestò qualcosa, ma io lo ignorai completamente e mi diressi dritta, o quasi, al mio obiettivo.
Gli uomini giapponesi furono felici di accontentarmi.
«Coraggio, David, vieni, ci fanno una foto con la loro Polaroid!» Lo chiamai.
Lui si mise in piedi e, svogliatamente, mi raggiunse.
Ci posizionammo davanti alla ringhiera. Dietro di noi c'era la foschia della sera e le prime stelle.
«Ehi, amico, abblacciala... colaggio!»
David sbuffò qualcosa di incomprensibile, a quanto pare non era un tipo troppo propenso a farsi ritrarre in fotografia, tuttavia si fece ancora più vicino e mi passò un braccio attorno alla vita, attirandomi a sé. Il suo tocco mi fece venire una leggera pelle d'oca. Lo guardai, cercando di mettere a fuoco il più possibile i lineamenti del suo volto. La mia vista era sfuocata, ma i miei occhi riuscirono a specchiarsi perfettamente nei suoi. La scia del suo profumo, la brezza della sera e quel suo sguardo così intenso, mi fecero girare ancor più la testa di quanto non mi stesse girando già. Fu un istante, impercettibile, quasi inesistente, nel quale pensai che io e David avremmo potuto essere una bella coppia insieme. In quell'attimo, chiusi gli occhi e lo baciai. Il flash della macchina fotografica mi fece riaprire le palpebre e tornare alla realtà.
«Ecco qua, bellissima foto licoldo!»
David rimase a fissarmi inebetito ed io mi chiesi se quello che avevo appena fatto lo avessi fatto sul serio. Avevo baciato David Bucci, senza un motivo e, soprattutto, senza vergogna. Non mi sentivo le guance in fiamme, non mi sentivo nemmeno in imbarazzo, mi veniva soltanto da ridere.
L'uomo giapponese mi dette la foto e io lo ringraziai. «È stato un piacele», disse, tornando al suo tavolo.
Mi rivolsi a David, intenta a dargli tutte le spiegazioni del caso: «Ti ho baciato, lo so, ma non era quello che volevo fare, cioè lo era, non dico che sei male e poi, in fondo, è stato soltanto un bacio... In realtà l'ho fatto per la foto, già, per la foto. Sai, Vilma crede che tu sia un gran figo e allora ho pensato che quando vedrà questa Polaroid lei non crederà ai suoi occhi...»
«Greta...»
«Oh, scusa, hai ragione, sto straparlando... Non avrei dovuto dirti che tu le piaci, adesso mi ucciderà, ma tu non le dirai niente, vero che non le dirai niente?»
David mi posò le mani sulle spalle, cercando di fermare la mia irrequietezza. «Non avrei dovuto lasciarti bere tutto quel vino, adesso ce ne andiamo a casa, coraggio...»
«No, non voglio andare a casa, voglio che tu mi prometta che non dirai niente a Vilma. Non deve sapere che tu sai che sei il suo sogno proibito, dopo Nick Carter ovviamente...»
«Andiamo, Greta!»
Lui mi tirò per un braccio, ma io mi liberai della sua presa, tornai alla ringhiera dove avevamo fatto la foto e lo affrontai, posando le mani sui fianchi. «Promettimelo», piagnucolai.
David venne a riprendermi. «Va bene, va bene, te lo prometto. Adesso vogliamo andare?»
«Cos'è ti stai annoiando? Sei abituato a ragazze più divertenti di me? Io... io... Ci sono! Sei arrabbiato per il bacio... però devi ammettere che siamo venuti carini, guarda!» Gli sventolai la foto davanti.
David mi prese di nuovo il braccio, questa volta più stretto di prima, tentando di trascinarmi via. Io allentai inavvertitamente la presa sull'istantanea. Fu un lampo, l'immagine mi sfuggì dalle dita, vorticò nell'aria e poi precipitò nel vuoto. «Oh no!» L'istinto mi fece sporgere sulla balaustra per riprenderla.
«Ma sei impazzita?» David mi trattenne, prima che mi sbilanciassi troppo e finissi giù di sotto insieme alla nostra fotografia, dopodiché lasciò i soldi sul tavolo e mi guidò via dalla terrazza e dal locale, riportandomi sulla sua auto.
Posai la testa sul sedile e sentii girare tutto quanto. Era una sensazione mai provata prima, anche a occhi chiusi il mio corpo girava oppure era il mondo che vorticava, non riuscivo a capirlo.
«Stavi per ucciderti». La voce di David era un suono ovattato dal rombo del motore che si accendeva.
«La nostra foto...»
David partì, facendo finta di non sentire le mie lamentele, ma alla seconda curva fu costretto a darmi ascolto.
«Credo di avere mal di stomaco», mugolai.
Inchiodò, ma io non feci in tempo a scendere che vomitai tutto quanto avevo mangiato e bevuto.
«Porca miseria!»
Le ingiurie di David si mescolarono al mio disastro. Avevo sporcato gli interni dell'auto e la mia salopette.
«Cosa ho fatto? Cosa ho fatto?»
«È tutto a posto, non importa...»
Posai la nuca contro il poggiatesta e lasciai che David cercasse di dare una ripulita, poi mi fece scendere e mi fece sciacquare la bocca con una bottiglietta d'acqua. Quando ripartimmo mi disse che sarei dovuta rimanere in silenzio per il resto del viaggio. Lo feci. Restai zitta e immobile, priva di forze e con tutti i ricordi confusi di ciò che era accaduto quella sera. La mia prima sbornia. La odiai e odiai anche me stessa per essere stata così stupida.
«Scendi, ti accompagno», mi disse David quando arrivammo sotto casa.
«No, c'è mia nonna, non voglio che mi veda così». Mi sembrava di essere una bambina capace soltanto di fare i capricci.
David si piegò per aiutarmi. «Le diremo che ti sei sentita male, niente accenno al vino, tranquilla».
Mi calmai, mi appoggiai al suo corpo e lasciai che lui mi sorreggesse fino in cima al pianerottolo. Camminare era una fatica enorme. David suonò il campanello, spiegò alla nonna che mi ero presa qualcosa di gastrointestinale e avevo bisogno di riposare, poi mi portò fino alla mia stanza e mi adagiò sul letto.
«Mi dispiace, ti ho rovinato serata e auto», piagnucolai.
Lui si passò una mano tra i capelli. «Dirò a tua nonna che ti aiuti a mettere qualcosa di pulito».
«No», lo fermai, prima che se ne andasse via. «Non voglio che nonna sospetti qualcosa, ti prego, fallo tu. Dovrei avere i pantaloncini in quel cassetto e la maglietta in quell'altro». Gli indicai l'armadio.
David restò un paio di secondi a fissarmi.
Mi sentivo sporca, anzi, lo ero. Ero sporca, puzzolente e avevo soltanto voglia che quella nausea tremenda sparisse magicamente dal mio corpo. «Per favore», lo supplicai.
«D'accordo», acconsentì lui, spostandosi a prendere i miei vestiti.
Mi tolsi le bretelle e feci scorrere la salopette, buttandola ai piedi, poi sfilai anche la maglia e aspettai che David mi portasse il cambio.
«Non riesco a trovare la tua maglietta... però ho trovato questo, dovrebbe essere un pigiama o qualcosa del gen-e-re». Il suo sguardo si fermò sulle mie gambe nude, salì sulle mie mutandine, sulla mia pancia e infine sul reggiseno.
Se fossi stata sobria sarei arrossita dalla punta dei capelli fino alle unghie dei piedi, sarei corsa a coprirmi con qualsiasi cosa avessi trovato a tiro, una tenda o una tovaglia, ma in quelle condizioni riuscii soltanto a biascicare: «Andrà benissimo, adesso girati per favore, devo vestirmi».
David mi mollò gli abiti sul letto, poi si voltò e raggiunse la porta. «Buon riposo, Greta».
Non so perché fuggì via in quel modo, ma ne fui quasi felice. Avevo bisogno di dormire, smaltire quel vino maledetto e, soprattutto, dimenticare quello che avevo fatto. Lo avevo baciato. Io, Greta Mori, avevo baciato un ragazzo per la prima volta. Avrei dovuto essere felice, invece mi sentivo uno straccio.
Primo, il ragazzo era David Bucci, il cugino sexy del mio migliore amico e, secondo, lo avevo fatto da ubriaca, vomitandogli in macchina subito dopo. In realtà c'era anche un terzo, avevo scelto il momento peggiore. Il mio migliore amico era in ospedale e io lo avevo abbandonato per sbronzarmi a una cena su di una terrazza panoramica mozzafiato. Che razza di amica ero?
Chiusi gli occhi, lasciai che il soffitto vorticasse ancora e ancora e ancora, poi mi addormentai.
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Mettete di nuovo i vostri auricolari e fate partire questa magnifica canzone, Enjoy the silence. Siamo agli inizi degli anni novanta e i Depeche Mode cantano "...tutto ciò di cui abbiamo sempre avuto bisogno è qui tra le mie braccia"; il silenzio. E allora lasciamo spazio al silenzio perché il silenzio è infinito. Il silenzio è tutto ciò che a volte ci serve.
Serena
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