7. AL LIMITE CON LA REALTA'

Nei giorni seguenti, Marco tornò più o meno nel nostro mondo e fu trasferito dal reparto di terapia intensiva a quello di degenza. Aveva una stanza tutta per sé con una finestra che guardava il viale principale.
Il via vai di auto e motorini era continuo e le ambulanze facevano andirivieni con le loro sirene spiegate e i lampeggianti accesi giorno e notte. Mi piaceva stare a guardare il traffico, lo facevo mentre Marco riposava e questo avveniva per la maggior parte della giornata. I medici avevano parlato di amnesia dovuta alla commozione cerebrale e infatti lui non ricordava niente di ciò che era accaduto, eccetto il fatto che si trovava sulla sua barca. Non appena le sue condizioni di salute furono stabili, uno psicologo si prese l'incombenza di parlargli. Spettò a un certo dottor Sabatini chiudersi in stanza con Marco e riferirgli che la sua vita non sarebbe stata più quella di prima. Eravamo tutti quanti in corridoio, quando sentimmo il suo grido di dolore, che poi non fu un vero e proprio grido ma un suono aspro, indefinito che squarciò l'animo di ogni presente. La signora Bucci si aggrappò alla maniglia, la strinse forte tanto che vidi le sue nocche impallidire. Sarebbe voluta entrare, sarebbe voluta correre da quell'unico figlio che aveva, ma non poteva perché doveva rispettare le regole, ma una madre non ha regole, non per la cosa più importante della sua vita. Io le andai vicino e le posai una mano sulla spalla, ma le urla di Marco proseguirono e allora non ci fu modo di trattenerla, lei mi allontanò con una piccola spinta ed entrò. Io e David la seguimmo.

«Non dovreste stare qua, non adesso» ci ammoní il dottore spostando lo sguardo da Marco a sua madre e poi a noi.

«Il mio bambino ha bisogno di me», replicò la donna e, senza dare ascolto allo psicologo, si gettò ad abbracciare il figlio.

Guardai Marco. Non lo riconobbi. Non riuscivo a trovare una singola cosa che mi facesse pensare al mio migliore amico. La sua bocca non aveva colore e la sua pelle pareva una maschera di cera. Il suo sguardo era spento, perso in chissà quale luogo. I suoi occhi guardavano nel vuoto, non vedevano sua madre né il medico che cercava di contenere tutta l'irruenza della donna, non vedevano neanche me e David, fermi sullo stipite della porta.

Le mani della signora Bucci avvolsero il volto stanco del figlio, lo racchiusero tutto dentro ai palmi. «Ce la faremo. Ce la farai. La medicina sta facendo progressi, ci sono un sacco di cure...»

Marco si lasciò consolare senza opporre resistenza, pareva un fantoccio.

Il medico chiese di nuovo di uscire. «Signora, la prego, la farò rientrare appena terminata la seduta. È un momento molto delicato per Marco, ha bisogno di una persona che sappia fargli gestire le emozioni. Ha bisogno di una persona qualificata per...»

«Lui ha bisogno di sua madre!»

Lo psicologo emise un lungo sospiro, poi andò a cercare una sedia, così che la donna potesse sedere accanto al letto. «E va bene, resti qui, ma voi due dovete andarvene», ordinò, puntando un dito contro me e David.

David mi trascinò fuori. «Vieni, Greta, lasciamoli soli».

Mi appoggiai con le spalle al muro e mi lasciai scivolare a terra, rannicchiata, con il mento che posava sopra le ginocchia. «Tu credi che Marco tornerà a essere il nostro Marco?» Dopo aver visto il suo sguardo, avevo seri dubbi che il mio migliore amico avrebbe ripreso le sembianze di un tempo. Era come se lo shock per la notizia appena ricevuta lo avesse trasformato in qualcun altro che non conoscevo più.

David si mise a sedere al mio fianco. «Io credo che dopo quello che è successo quest'estate nessuno di noi sarà più lo stesso».

Fissai le mie scarpette da tennis. Avevo le stringhe slacciate e un immenso senso di perdita dentro al cuore.

Quando il dottor Sabatini se ne andò, gli infermieri ci concessero di entrare nella stanza. Quasi avevo paura di farlo. Cosa avrei detto? Il silenzio ci avrebbe mangiati vivi? Sarei scoppiata in lacrime? Ogni mia aspettativa più tragica fu invece scongiurata, Marco ci accolse con un sorriso. «Ciao ragazzi, sono felice di vedervi, ma tu, cugino, che ci fai qui? Perché non sei da qualche parte del mondo a festeggiare la maturità?»

«Non avevo voglia di partire», rispose lui, lanciandomi uno sguardo interdetto. C'era qualcosa di semplicemente inquietante nell'enfasi di Marco. La sua voce era così esaltata da sembrare irreale.

«Dovresti. Il viaggio della maturità non torna due volte», replicò, poi spostò l'attenzione su di me, parlando con il solito slancio. «E tu? Come va il tuo volontariato?»

«Ci sono andata poco in questi ultimi giorni», farfugliai.

«Hai ragione, sei quasi sempre stata qua, ma adesso sto meglio, tra poco uscirò da questo posto e tutto tornerà come prima, puoi riprendere tranquillamente i tuoi turni», mi concesse.

Feci un paio di passi avanti. La stanza mi sembrava così grande e io mi sentivo infinitamente piccolina.

Marco si tirò a sedere sul letto. I suoi movimenti non erano molto fluidi, era debole e aveva ancora alcuni fili che lo collegavano al monitor. Sua madre intervenne per sistemargli il cuscino dietro la schiena. «Piano, bambino mio, hai sentito il dottore, un passo alla volta...»

Lui scosse la testa e sorrise. I suoi occhi scuri luccicarono di qualcosa che non riuscii a capire, qualcosa che aveva sicuramente un nome, ma che in quel momento non sapevo identificare. «Qui dicono un sacco di bugie, io sto bene. Le mie gambe stanno bene».

Lo guardai come si guarda un uomo che ha perso il senno, infilai le mani nelle tasche della salopette e trattenni il respiro.

«Marco, noi, ecco, noi... quello che ti è accaduto...» David cercò le parole giuste per riportare il cugino alla realtà. Evidentemente c'era qualcosa nella sua testa che non gli faceva vedere le cose nitidamente. Non era vero che le sue gambe stavano bene. D'accordo, sarebbe uscito dall'ospedale, ma tutto non sarebbe tornato come prima. Nessuno di noi voleva crederci, speravamo, pregavamo che Marco tornasse a fare la sua vita, ma sapevamo che ciò che gli era accaduto lo aveva reso diverso.

«Quello che mi è successo ormai appartiene al passato. È stato soltanto un banale incidente che neanche ricordo. Dirò ai dottori di mandarmi a casa al più presto, mi devo allenare per i Campionati e poi stare tutto il giorno in questa stanza è così deprimente...»

«I dottori ti stanno curando. Sei stato in coma per giorni, bambino mio». La dolcezza di sua madre era disarmante, così come vederla lì, seduta, impotente, al fianco della persona più importante della sua vita.

«I dottori non sanno niente, loro dicono che le mie gambe non funzionano, ma io so che non è così. Le mie gambe funzionano, ovvio che funzionano, guardate!»

Quello che accadde subito dopo fu veloce come un battito di ciglia, Marco si tolse le lenzuola di dosso e si buttò giù dal letto. Sua madre gridò, spaventata. Alcuni fili che lo collegavano al monitor si staccarono, aggrovigliandosi a terra e lo schermo cominciò a suonare come un ossesso. I piedi di Marco toccarono il pavimento, ma il suo corpo non rimase eretto, le sue ginocchia si piegarono e il suo busto crollò in avanti. David si fiondò subito su di lui. Lo afferrò sotto alle braccia e lo stese di nuovo sul letto. Io intanto corsi fuori, gridando aiuto. Un medico e un'infermiera ci fecero uscire di nuovo dalla stanza, mentre Marco vociava a perdifiato: «Io sto bene, devo andare a casa. Lasciatemi! Lasciatemi!»

Poi ci fu silenzio. Improvviso. Dopodiché la porta si aprì di nuovo e quel gran trambusto di un attimo prima sembrò non essere mai esistito.

«Gli abbiamo fatto un sedativo così potrà riposare. Una persona può rimanere con lui», ci informò il dottore.

«Resterò io», si propose la signora Bucci

«No, resterò io!»

Tutti quanti ci voltammo. Era appena arrivato il padre di Marco. Con lui c'era una giovane donna con i capelli raccolti in una crocchia stretta e il volto nascosto dietro a un paio di occhiali da sole dalle lenti scure. A quanto pare si trattava di Monica.

La signora Bucci passò rapidamente lo sguardo dal marito alla sua amante. La fulminò. «Cosa ci fai tu qui?»

David mi lanciò un'occhiata di avvertimento, le cose non si stavano mettendo per niente bene.

«Sono venuto da mio figlio».

«Ti riformulo la domanda, cosa ci fai tu qui con questa sgualdrina?»

«Lei è Monica», disse l'uomo, risoluto.

«Non solo mi hai tradita, ma hai anche il coraggio di portare la tua amante in ospedale davanti a me?»

La giovane si appostò dietro alle spalle dell'uomo.

«Sono qui per mio figlio, non per te», ribadì il signor Bucci.

«Tuo figlio non potrà più camminare per colpa tua e della tua sgualdrina, lo hai capito questo oppure no?»

«Non dare colpe a chi non ne ha. Marco si è tuffato dalla barca per raggiungere quella sua amichetta che è sparita con il primo traghetto, non è colpa mia e nemmeno di Monica quello che è successo».

«E di chi sarebbe la colpa? Di una ragazzina? Tu sei suo padre, tu dovevi stare attento».

«Io mi sono tuffato per salvarlo. Sono stato io a riportarlo in superfice prima che morisse annegato».

«Quindi adesso vorresti dire che sei una specie di eroe?»

«Non sono un eroe. Tutto questo non sarebbe mai dovuto accadere, ma è successo e stare qui a puntare il dito su chi ha o meno la colpa non è certo la soluzione migliore. Non ho visto mio figlio tuffarsi, è vero, ero da un'altra parte della barca, ero con Monica, ma questo non significa che sia colpa mia o sua. Marco si stava soltanto divertendo, è stato un incidente, lo capisci?»

L'atmosfera era tesa, quasi irrespirabile. Monica continuava a nascondersi dietro al signor Bucci e lui si proteggeva dalle accuse della moglie con tutta quanta l'energia che possedeva.

Il medico si mise in mezzo, prima che ne uscisse fuori una rissa. «Scusate, signori, ma questo non è né il luogo né il momento adatto per discutere dei vostri problemi familiari. Di là c'è un ragazzo che ha bisogno di aiuto. Dell'aiuto di ognuno di voi».

«Ha ragione, dottore, mio marito se ne andrà subito».

Il signor Bucci aggrottò le folte sopracciglia scure e scosse energicamente la testa. «Ti sbagli, io non andrò da nessuna parte. Non c'ero quando mio figlio si è svegliato dal coma, voglio esserci adesso che dovrà riprendere in mano la sua vita e tu non puoi impedirmelo».

Lei lanciò uno sguardo alla stanza di Marco, chiuse gli occhi, fece un bel respiro e annuì. «Va bene, resta tu con lui, ma non credere che questo allevi il tuo senso di colpa. Tu non sei un buon padre, non lo sei mai stato».

«Tu non sei nessuno per giudicarmi», replicò lui.

«Sono tua moglie».

«Ancora per poco, ho messo in atto le pratiche per la separazione».

Lo sguardo della donna vacillò.

L'infermiera si affacciò alla stanza di Marco. «Chi resterà?» chiese.

Suo padre si fece avanti, lasciando le due donne l'una di fronte all'altra. Entrò nella camera e chiuse la porta, senza voltarsi indietro. L'infermiera e il medico si allontanarono verso le altre stanze.

«Hai ottenuto ciò che volevi, hai rovinato una famiglia, complimenti!» disse la signora Bucci alla giovane.

Quest'ultima però non rispose, rimase impassibile e lasciò che la sua contendente in amore fuggisse via, poi girò i tacchi e se ne andò anche lei, senza degnare me e David di uno sguardo.

«Tutto questo è al limite della realtà», affermai.

David mi posò un braccio attorno alle spalle, forse per riportarmi sulla terra o semplicemente per trovare un minimo di conforto. Inevitabilmente mi ritrovai a guardare la porta chiusa della stanza di Marco. In questo momento stava dormendo, ignaro di quello che accadeva alla sua famiglia.

David mi guidò fuori, era quasi sera, eppure faceva ancora molto caldo. L'aria era appiccicosa e si incollava addosso, su quella nostra pelle che sapeva fin troppo di ospedale. «Sono digiuno da questa mattina, ti va di andare a mangiare qualcosa?»

«A patto che non facciamo troppo tardi», concessi.

«D'accordo», fece spallucce.

Lo seguii fino al parcheggio. Quando salii a bordo della sua auto, mi sembrò di montare su un'astronave con tanto di sedili in pelle e Arbre Magique appeso allo specchietto. «Bella, vero? È una Cabrio/GT, me l'ha regalata mio padre per i miei diciotto anni, è una specie di figlia per me!»

Lo sapevo bene quanto lui tenesse a quell'insieme di ferri di lusso. A scuola, io e Vilma lo vedevamo sempre lustrare la carrozzeria con un panno di pelle di daino e accarezzarla ogni qual volta vi passava vicino. Marco lo prendeva sempre in giro per questo. A Marco le auto non interessavano, lui era un patito delle moto, diceva che con due ruote era più facile spostarsi nel traffico e poi erano anche più veloci e divertenti. Il ricordo mi fece male. Non avrei più visto Marco a cavalcioni della sua Honda Dio. Mai più. Cacciai indietro le lacrime e mi allacciai la cintura.

David mi lanciò uno sguardo, era come se avesse un sesto senso per riconoscere le mie emozioni. Ero rimasta in silenzio al suo fianco, eppure lui sembrava capire tutto il mio disagio, come se ci stessimo parlando. Probabilmente lo stavamo facendo davvero. Inconsapevolmente.
Erano le nostre anime a parlarsi. Entrambe sottosopra. Entrambe disorientate e perse.

Gli feci un debole sorriso e gli assicurai che era tutto a posto, almeno apparentemente. 

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