6. IL RISVEGLIO
Il giorno del risveglio di Marco ero passata in ospedale alla solita ora. David era appostato su una delle poltroncine della sala d'aspetto con una rivista aperta sulle ginocchia. Le sue dita sfogliavano svogliatamente le pagine. Accanto a lui c'era suo padre, che teneva la nuca appoggiata al muro e gli occhi appena socchiusi. La signora Bucci invece era in piedi, vicino alla finestra, guardava fuori o chissà in quale altro luogo della sua mente. Un silenzio a dir poco inquietante regnava nella stanza.
Quando entrai lo sguardo dei presenti si dirottò su di me. Improvvisai un sorriso incerto. David balzò in piedi, lasciando cadere il giornale su un vecchio tavolino. Mi salutò con un abbraccio. Il gesto fu piacevole e confortante. Il contatto con lui, quasi inesistente in tutti quegli anni, negli ultimi giorni era divenuto una routine. Mi ritrovai a posare la tempia contro il suo petto e inalare il suo odore. Non era lo stesso profumo di Marco, ma era comunque buono. Quando tornai a debita distanza, notai che la faccia di David era strana. I suoi occhi erano un po' meno cerchiati dalla stanchezza dell'ultimo periodo, ma erano comunque spenti. Lanciai un'occhiata al resto dei presenti. Tutti quanti avevano quell'angosciante espressione di inquietudine. «Ci sono novità?» chiesi.
David abbassò lo sguardo a terra, sfuggente. La madre di Marco affondò il naso dentro a un fazzoletto tutto consumato. Deglutii e sentii le ginocchia molli. Lanciai uno sguardo alla stanza di degenza, la tendina era tirata e dal vetro non si vedeva nient'altro se non delle ombre che si muovevano all'interno.
«Cosa stanno facendo là dentro? È successo qualcosa?» Mi agitai.
«È tutto sotto controllo, i medici pensano che sia il momento di ridurre i sedativi, vogliono svegliarlo», mi delucidò la donna.
Guardai ancora una volta la faccia scura di David e quella impenetrabile di suo padre. Era una bella notizia, perché le loro facce erano così apprensive? La signora Bucci parlò di nuovo e la mia inconsapevolezza ebbe una risposta. «Ci sono delle complicazioni, pare che nell'impatto Marco oltre al trauma cranico abbia subito anche una brutta lesione vertebrale».
«Una lesione vertebrale?» boccheggiai. «Cosa vuol dire esattamente? E per quale motivo lo scoprono soltanto adesso?»
«Stamani i medici hanno fatto un esame più approfondito e ci hanno detto che le sue gambe non potranno più essere quelle di prima», disse lei.
Un'ondata fredda mi attraversò la schiena, fin dietro la nuca. David si passò le mani sulla faccia e attraverso i capelli, indietreggiò e si rimise a sedere.
«Cosa significa quelle di prima? Marco non potrà più nuotare?»
«Non potrà più camminare», mi corresse la donna per poi tornare a vagare con lo sguardo fuori dalla finestra.
Io e David ci guardammo. Lui pareva chiedermi come fosse possibile tutto questo. Suo cugino era un campione. Una promessa. Marco non aveva gambe, ma pinne che tagliavano l'acqua come saette. Lui ci viveva con quelle gambe, superava gli avversari, vinceva medaglie. Non sapevo cosa pensare. Era assurdo. Un incubo senza fine. Fu allora che capii il perché di tutta quella preoccupazione. Proprio adesso che Marco stava per svegliarsi, si veniva a sapere che il suo corpo non sarebbe più stato lo stesso. La sua vita non sarebbe più stata la stessa. Chiusi gli occhi. Sentii il cuore dividersi in due pezzi; una cretta così grande da lacerare l'anima. Quando la porta della sua stanza si aprì, tutti quanti ci voltammo. Un'infermiera uscì, spingendo un carrello, dopo di lei venne fuori un medico e poi un'altra infermiera.
«Qualcuno della famiglia desidera entrare? Marco sta riprendendo coscienza», disse il dottore.
La signora Bucci scoppiò a piangere come una fontana. «Ho bisogno di un paio di minuti, la prego, soltanto un paio di minuti, non voglio che mi veda in questo stato», singhiozzò.
Il medico restò a fissarci in attesa che qualcuno si proponesse.
David si fece avanti. «Vai tu, Greta, è giusto che vada tu».
Mi mossi come un automa, lasciandomi vestire con camice, mascherina e cuffietta da una delle infermiere e mi feci condurre dentro la stanza. Stavo per vedere Marco aprire gli occhi, finalmente stavo per parlare con lui, eppure mi sentivo scombussolata, confusa e con una voglia immensa di correre a casa, chiudermi nella mia cameretta e piangere per il resto dei miei giorni.
«Puoi parlargli, lui ti sentirà», mi disse l'infermiera, chiudendo la porta dell'anticamera alle nostre spalle. «Ti ho vista spesso in questi giorni, sei la sua ragazza?»
Scossi la testa. «Sono soltanto un'amica», affermai.
Lei mi sorrise e mi disse di seguirla. Marco era sempre supino sul letto, immobile, coperto soltanto con un lenzuolo che lasciava intravedere il suo petto nudo. La differenza era che non aveva più il tubo dentro la bocca e neanche quello nel naso. Mi avvicinai cauta, mentre l'infermiera rimase alcuni passi dietro di me. Mi feci coraggio e mi avvicinai ancora di più. Con l'indice sfiorai le dita di Marco. Il contatto mi scatenò dentro un mondo di illusioni; immaginai i suoi occhi aprirsi e la sua bocca sorridermi, ma non accadde niente e Marco continuò a dormire.
«Ehi, ti sembra questo il modo di tornare a casa dopo una vacanza in barca?» Le note della mia voce erano basse. Volevo essere naturale, mostrarmi serena, ma non c'era niente di normale e rilassante in quella situazione. Ero agitata. Mi tremavano le gambe e sentivo il respiro strozzarsi dentro la mascherina che mi tappava la bocca. «Là fuori c'è un sacco di gente che ti aspetta, sai, c'è tua madre, ci sono David e tuo zio». C'è anche tuo padre, avrei voluto aggiungere, ma non volevo dirgli una bugia. Suo padre non lo avevo più visto dopo la litigata con la moglie. David mi aveva detto che aveva fatto le valige quel giorno stesso e si era trasferito a casa di Monica. L'idea che Marco al suo risveglio si sarebbe trovato di fronte a una famiglia divisa mi squartava l'anima.
«Hai intenzione di dormire ancora per molto?» Gli parlai di nuovo. Intanto continuavo a giocare con le sue dita, fin quando non le sentii muoversi, dapprima a scatti, poi più fluidamente. «Marco, sono Greta, sono io, ehi, sono qui...»
Lui aprì lentamente gli occhi. Quando incontrai le sue iridi scure come due pozzi neri senza fondo, il mio cuore si fermò e io mi ritrovai a piangere e a ridere come una scema.
L'infermiera mi venne vicino. Sistemò una mascherina di plastica sul volto di Marco. «Un po' di ossigeno lo aiuterà», spiegò, lanciandomi uno sguardo rassicurante.
Marco sbatté le palpebre. Le sue labbra si mossero appena, pareva volessero dire qualcosa, ma in realtà non lasciarono uscire alcun suono.
«Coraggio, torna tra noi, coraggio», sussurrai, stringendogli la mano con decisione. Avevo la faccia impiastricciata di lacrime, sentivo il loro sapore salato sulla bocca. «Io ti voglio bene».
Il suo petto si alzò e poi si abbassò pesantemente. Il suo sguardo incontrò il mio e questa volta le sue labbra riuscirono a parlare davvero. «Pulce», sussurrò, appannando la mascherina, poi non aggiunse altro. La sua faccia tornò a distendersi e lui piombò di nuovo in quel dolce dormiveglia, ma per me fu sufficiente quella parola a farmi esplodere il cuore di gioia. Solo lui mi chiamava così, solo lui mi avrebbe mai chiamata così. Fui felice, come quando aveva vinto la gara per la selezione dei Campionati, come il primo giorno che mi aveva chiesto di seguirlo nel suo angolo segreto, al ruscello, oltre il muretto del giardino. In realtà fui molto più che felice; entusiasta, viva. Rinata. Poi spostai lo sguardo sul suo corpo, soffermandomi sulle sue gambe e la gioia si mescolò al dolore. La confusione più totale si impadronì di me stessa. Marco era tornato tra noi, ma non sarebbe stato più lo stesso. Mai più. Un tuffo aveva cambiato per sempre la sua vita. E anche la mia
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