5. OLTRE IL VETRO

Avevo sempre cercato di capire cosa provassero le persone di fronte al vetro di una stanza di terapia intensiva. Mi chiedevo cosa passasse loro nella testa, come potessero resistere al dolore di vedere un proprio caro steso su un letto con tubi, cannule e monitor. In un solo istante di un giorno qualunque, tutte quelle domande trovarono risposta. Stare al di là del vetro era come stare di fronte a uno schermo, aspettando che la vita e la morte si sfidassero a vicenda. Non si provava niente, anzi sì, si provava così tanto da sentirsi vuoti. Appena avevo avuto notizia dell'arrivo di Marco in ospedale, mi ero fiondata fuori casa con l'euforia di rivederlo, ma quando mi ero trovata faccia a faccia con il suo corpo addormentato, ogni entusiasmo mi aveva abbandonata, come se un'entità superiore fosse scesa sulla terra e mi avesse rubato bruscamente i sentimenti.

«Ehi, sei qui...»

Una voce alle mie spalle mi fece voltare, distogliendo la mia attenzione dal ragazzo disteso sul letto in un'anonima stanza piena di aggeggi strani. David aveva le mani dentro le tasche dei jeans e l'aria di uno che ha passato la notte in bianco.

«Quello non è Marco, non può essere lui», farfugliai.

«È ciò che ho pensato anche io appena l'ho visto».

Tornai al mio migliore amico. Le sue palpebre erano abbassate, sembrava davvero che stesse dormendo. Aveva le labbra schiuse, un tubo verde abbastanza lungo gli penzolava dalla bocca. Dalla narice destra sbucava un altro tubo più piccolo e una sostanza bianca lo attraversava. I suoi capelli erano nascosti sotto a una cuffietta. Il suo corpo era coperto con un lenzuolo, eccetto le braccia che stavano dritte lungo i fianchi.

David si avvicinò a me. Lo sentii posare una mano sulla mia spalla nuda. «Stai tremando», affermò.

«È l'aria condizionata», mentii.

Lui si tolse la felpa, uno di quei modelli acetati con la zip e le tasche fonde, me la mise addosso, annodandomi le maniche davanti al collo. «Così andrà meglio».

Accennai un lieve sorriso. «Grazie».

David restò al mio fianco e insieme continuammo a guardare oltre il vetro. I nostri corpi erano presenti ed estranei allo stesso tempo. Entrambi parevamo due marinai a bordo di una nave in balia della bufera. Non sapevamo a cosa aggrapparci, era la prima volta che ci trovavamo in una situazione del genere ed era qualcosa di esageratamente grande per noi. «Il medico ci ha spiegato che l'impatto è stato davvero molto violento e Marco ha subito un forte trauma cranico. Lo stanno tenendo sedato per il suo bene, per fargli riposare il cervello, ma lo risveglieranno presto, non appena avranno fatto tutti gli accertamenti», mi informò David, rompendo quel silenzio così ricco di angoscia.

«Ce la farà?» Avevo un groppo in gola, non sapevo se farlo scendere o buttarlo fuori insieme a una manciata di lacrime.

David posò una mano sul vetro. Le sue dita erano dritte e affusolate. «Marco vince sempre, stai tranquilla».

Annuii, cacciando indietro un pianto imminente. Mi aggrappai a quelle parole come a una scialuppa di salvataggio e posai la mia mano a fianco alla sua. Marco avrebbe vinto. Ovvio che lo avrebbe fatto.

Due infermieri entrarono nella stanza e tirarono i tendaggi. Dentro di me supplicai che gli facessero qualcosa per farlo guarire, pregai che gli togliessero i tubi dalla bocca e dal naso così da vederlo sorridere di nuovo e parlare di nuovo. La sua voce mi mancava da morire.

Improvvisamente un gran trambusto ci fece voltare, tolsi la mano dal vetro e la ficcai dentro alle tasche dei pantaloncini. La nostra attenzione fu dirottata alla sala d'attesa dove qualcuno stava discutendo in modo molto animato. «È colpa tua, è tutta colpa tua!» gridava una donna. «Avresti dovuto stare più attento a quello che faceva tuo figlio invece di passare tutto il tempo a letto con la tua sgualdrina da quattro soldi!»

«Monica non è la mia sgualdrina ma la mia segretaria e tuo figlio è abbastanza grande da non aver bisogno della balia».

Quando ci affacciammo alla saletta, trovammo la madre di Marco in piedi di fronte al marito; lo aveva stretto in un angolo e gli puntava un indice contro. «Difatti questo è il risultato. Marco è in coma!»

«È stato un incidente. Un incidente!» replicava il signor Bucci.

La donna scoppiò in lacrime.

Lui le posò una mano sulla spalla. «Mi dispiace».

«Vattene, lasciami da sola».

«Non posso...»

«Vai dalla tua sgualdrina, amante, segretaria, vai da chi diavolo vuoi e lasciami in pace», ringhiò lei.

«Non me ne andrò da qui. In quella stanza c'è tuo figlio che è anche il mio».

David mi rivolse uno sguardo d'intesa. Senza fiatare ci allontanammo, percorremmo il corridoio fino agli ascensori. Le parole dei genitori di Marco mi rimbombavano dentro la testa, non riuscivo a cacciarle via. Esse si mescolavano all'immagine del mio amico sul letto d'ospedale. Cercavo di mettere insieme i pezzi, di capire cosa fosse successo davvero. Mi sentivo totalmente frastornata.

«Che ne dici di un caffè?» mi propose David.

Così mi lasciai condurre all'esterno. Sul cortile c'era un chiosco con i tavolini. Mi misi a sedere di fronte a David e lasciai che ordinasse anche per me. «Cosa è appena successo là dentro?» chiesi, guardandolo incrociare le braccia davanti al petto.

«Mio zio ha un'amante, Monica, la sua segretaria, e ha una storia con lei da un bel po'», mi informò senza troppi giri di parole.

«L'ha portata sulla barca?» chiesi, ben sapendo quale fosse la risposta.

«L'ha portata sulla barca, in settimana bianca, in ristoranti e in hotel da mille e una notte. Mio padre li ha trovati un paio di volte nudi in ufficio. Credo che lo stessero facendo sulla scrivania o qualcosa del genere...»

Storsi il naso, senza fiatare. Molte cose mi tornarono in mente; era per questo motivo che la signora Bucci non era andata in vacanza con la famiglia come ogni anno, ma perché Marco non me ne aveva parlato? Perché non mi aveva detto che tra i suoi genitori le cose non andavano bene?

David parve leggermi nel pensiero, infatti scosse la testa e disse: «Mia zia sapeva della loro relazione, ma non ha mai avuto il coraggio di lasciare mio zio, sai, per Marco, per non rovinare la famiglia...»

Una ragazza ci servì il caffè. Lo bevvi velocemente, amaro e bollente e poi rimasi a fissare il fondo della tazzina. «E Francesca? Non era anche lei su quella barca?»

«Per quello che ne so, la sera stessa dell'incidente, Francesca è rientrata in città con il primo traghetto», sbuffò.

Non potevo credere che quella ragazza avesse tagliato tanto facilmente la corda. Se n'era andata mentre Marco stava soffrendo, lasciandolo da solo. Non è così che si dimostra di amare qualcuno. David terminò il suo caffè. Lo fissai in modo attento; aveva due cerchi violacei intorno agli occhi e la fronte contratta. Era stanco, si poteva vedere da un miglio di distanza. «Credo che dovresti riposare un po'», gli feci notare.

Lui appoggiò i gomiti sul tavolo e fece ciondolare la testa in avanti. «Prima le selezioni per i Campionati, poi la maturità e adesso l'incidente di Marco, questo non è per niente un periodo facile...»

Provai tenerezza nei suoi confronti e, per la prima volta, lo vidi con uno sguardo nuovo. Lo avevo sempre catalogato come il cugino del mio migliore amico. Per me David era una specie di ombra, un alone sfuocato e indistinto di qualcun altro, ma non quel giorno. Quel giorno lo vidi come una persona in carne ed ossa. Nessuna scia.

«Mi sento come investito da un treno», confessò.

«Marco si sveglierà presto e tutto questo ci sembrerà soltanto un brutto sogno. Lui vince sempre, l'hai detto tu poca fa», affermai, incoraggiandolo a mia volta.

David alzò gli occhi nei miei e sorrise. Sentii il cuore affondare nel petto. Non capii se il motivo erano quelle labbra dolcemente increspate oppure quella rassicurazione che continuavamo a palleggiarci a vicenda per convincerci che quel brutto sogno sarebbe finito presto, tuttavia, presa dal momento, frugai dentro alla borsa alla ricerca di qualcosa per scrivere. Tirai fuori la matita nera per gli occhi e mi sporsi per afferrargli una mano. «Così non dovrai più attraversare l'intera città di notte soltanto per parlarmi».

David si guardò sorpreso il dorso della mano, gli avevo appena lasciato il numero di casa della nonna.

Gli sorrisi e lo salutai, ringraziandolo per il caffè e per la felpa. «Te la riporto», dissi.

«Puoi tenerla, se vuoi», fece lui, poi si accese una sigaretta e rimase seduto al tavolino, guardando la gente che andava e veniva con quei suoi occhi splendenti, cerchiati dalla stanchezza.

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