4. ANIME FRAGILI

A fine luglio la città si era quasi svuotata e io trascorrevo le mie giornate a leggere, a riordinare il caos che si era creato nei cassetti della mia stanza durante tutto il periodo invernale e provvedendo ai turni alla mensa dei poveri. Alla televisione c'erano le repliche di Non è la Rai. Mi piaceva guardare quel programma, lo facevo sempre quando tornavo da scuola. So che era ciò che faceva l'altro milione di ragazze adolescenti, ma non per questo io mi ritenevo una conformista. Era semplicemente il mio momento di distrazione, prima di sprofondare di nuovo con la testa dentro ai libri.

Quel pomeriggio trasmettevano una delle mie puntate preferite, sedevo al tavolo, vicino al ventilatore acceso, mangiando un piatto di pasta avanzata. Ero da sola, la nonna era appena uscita per delle commissioni. Non avrei dovuto mangiare fuori orario né avrei dovuto fare merenda semplicemente con un gelato come tutto il resto della gente, ma io ero in conclamata fase premestruale e avevo una giustificata fame da lupi. Qualcuno bussò alla porta, mi alzai controvoglia, portandomi con me il piatto. «Nonna, hai dimenticato le chiavi?»

Quello che mi passò con precisione per la testa in quell'attimo non lo ricordo, però ricordo che percepii elettrizzarsi i capelli dietro la nuca e il cuore freddarsi come intrappolato dentro a una lastra di ghiaccio per molto tempo. Non era affatto mia nonna. «David?» squittii. Avrei voluto aggiungere: cosa ci fai ancora in città? Non dovresti essere a festeggiare la maturità da qualche parte del mondo con i tuoi amici?

«Posso entrare?» chiese, a testa bassa.

Lo feci accomodare. Lui si mise a sedere sul divano in silenzio, si concentrò fin da subito sui rombi delle mattonelle mentre si torturava le pellicine ai lati delle unghie. Rimasi in piedi, fissandolo in modo palese. Aveva i capelli diversi dall'ultima volta che l'avevo visto quel giorno in cortile fuori da scuola, se li era rasati ai lati, lasciandosi più folta la parte alta della testa. La sua presenza in casa era alquanto strana, credo che quella fosse addirittura la prima volta che vi mettesse piede.

«Hai bisogno di qualcosa?» Non sapevo bene cosa dire, dal momento che lui se ne stava lì, seduto e fermo, imbalsamato nei suoi pensieri.

«Ti devo parlare», disse infine.

Quando alzò la testa, quella sensazione provata sulla porta mi si ripresentò più franca ed estesa che mai. Gli occhi di David erano gonfi e le sclere così rosse da sembrare ferite. Il freddo mi invase tutta, non riuscivo a scacciarlo via. Era estate, era caldo, ma io avevo fretto. Un freddo immenso.

«Marco ha avuto un incidente», annunciò, «ho pensato che dirtelo fosse la cosa giusta».

Il piatto che tenevo mi scivolò dalle mani, si fermò a terra, rompendosi in mille pezzi. Alla televisione, una pubblicità di non so cosa aveva monopolizzato lo schermo e il rumore del ventilatore si mescolava a quello così assordante dei miei pensieri.

«È successo in barca», continuò lui, guardando chissà cosa davanti a sé. «Me l'ha detto mio padre questa mattina, ha ricevuto la telefonata da mio zio. Pare che Marco si sia tuffato in una zona pericolosa, pare che ci fossero degli scogli e che...»

«Come sta?» Lo interruppi, cercando di trovare la forza di muovermi. Ero rimasta congelata in quella mia assurda posizione eretta, con le mani aperte, a stringere un piatto che non c'era più.

«Lo hanno portato in ospedale...»

«Come sta?» Non mi interessava dove si trovasse. Volevo sapere come stava. Volevo sentirmi dire che era vivo, che aveva rischiato grosso, ma adesso era tutto a posto.

«Le sue condizioni sono critiche, ha sbattuto violentemente la testa e ha perso conoscenza, adesso è in coma farmacologico».

Boccheggiai. «Cos'altro sai?»

David tornò a guardare il pavimento e a tirarsi le pellicine delle unghie. Quel suo gioco era odioso, mi dava ai nervi, così scattai contro di lui, bloccandogli le mani. Lo guardai dritto negli occhi e cercai ulteriori spiegazioni. Non poteva non averne, ma quando capii che tutto ciò che sapeva si limitava a quello che mi aveva appena comunicato, non ci vidi più. Mi inginocchiai vicino ai cocci del piatto rotto e cercai di radunarli tutti insieme, separandoli dai resti di cibo. Dovevo ripulire altrimenti la nonna si sarebbe arrabbiata e per farlo avevo bisogno di forza, quello era un lavoro che richiedeva energia. Molta energia. Sentivo le mani pizzicare, il respiro strozzarsi e le lacrime farsi strada dalle rime degli occhi. Più cercavo di mettere insieme tutti i pezzi, più i pezzi si sbriciolavano tra le mie dita. Lacrime calde caddero sul pavimento, accompagnate da singhiozzi crescenti. David si sollevò dal divano. Con la coda dell'occhio lo vidi accoccolarsi al mio fianco. Lo guardai da sotto i ciuffi di frangia che mi coprivano gli occhi e gli urlai: «Non è vero, non è vero niente di quello che hai appena detto! Sei un bugiardo!»

Lui mi lasciò gridare e poi mi abbracciò. Ci stringemmo forte l'uno all'altra, sperando che servisse a qualcosa, ma il dolore era così grande per entrambi che quell'abbraccio ci fece soltanto capire quanto piccole e fragili fossero le nostre anime.

I giorni che seguirono rimasi scossa, sconvolta, sotto sopra come una frittata girata più e più volte sulla padella. Ce l'avevo con il mondo intero per ciò che era accaduto. Una bellissima vacanza trasformatasi in tragedia. Non me ne davo pace, ma quello che mi faceva stare più male era non poter vedere Marco, non poter essere vicino a lui in quel momento. La nonna era riuscita a mettersi in contatto con l'ospedale dove era ricoverato. Un'infermiera ci aveva comunicato che il ragazzo era ancora in coma. Odiavo l'idea che il mio migliore amico fosse così distante, mi mancava il fatto di non poterlo vedere, toccare, abbracciare.

Vilma mi chiamava tutte le sere, con la speranza che le dessi buone novità, ma ogni volta non avevo molto da dire e così pian piano anche le sue telefonate si ridussero.

Poi una sera David tornò a trovarmi. Era tardi. Quasi mezzanotte. Faceva un caldo pazzesco, tanto che era impossibile dormire. Avevo lasciato aperte le finestre e il ventilatore accesso, ma l'afa non dava tregua. Quando suonò il campanello schizzai sul letto come una molla, la nonna mi seguì sul corridoio un istante dopo. Tutte e due ci guardammo intimorite e curiose di sapere chi diavolo fosse. Fu lei ad aprire.

«Scusatemi per l'ora», esordì David, grattandosi la testa, impacciato.

«Entra, giovanotto, non stare sul pianerottolo». Lo lasciò passare.

David indossava una camicia fine a mezza manica e aveva un paio di pantaloncini azzurri del circolo di nuoto, identici a quelli di Marco. La cosa mi turbò, ma mi ripresi quasi subito quando mi accorsi che lui mi stava fissando palesemente le gambe.

«Perché sei qui?» chiesi, cercando invano di tirare un po' più giù la stoffa dei miei pantaloncini da notte quasi inesistenti.

«Oh, avrei dovuto aspettare domani, ma appena l'ho saputo non ho resistito e sono corso da te...» balbettò, imponendosi di guardarmi negli occhi e non da altre parti troppo scoperte. «Se avessi avuto il tuo numero avrei potuto farti una telefonata, in realtà avrei potuto cercare nell'elenco ma poi ho pensato che ti saresti spaventata...»

La nonna mi venne vicino, intuendo che c'era in ballo qualcosa di importante. Sentii la sua mano posarsi sulle mie spalle. «Si tratta di Marco, non è vero?» Riuscii a fiatare.

«Domani lo porteranno con l'elicottero nell'ospedale della città», comunicò.

«È una notizia magnifica», disse la nonna, scrollandomi.

Ero rimasta senza parole. Marco era ancora in coma, ma sarebbe stato in coma vicino a me. Lo avrei rivisto e sarei potuta andare da lui ogni giorno. Non era una notizia magnifica, ma era comunque un piccolo passo avanti. Le mie labbra si schiusero in un leggero sorriso. «Hai fatto bene a passare».

David ricambiò il sorriso. «Adesso vado. Buonanotte signora», si rivolse a mia nonna, poi si avvicinò a me e mi sorprese, sfiorandomi la guancia con un bacio. «Buonanotte, Greta», sussurrò.

Quando la porta si chiuse, buttai fuori un respiro così lungo che neanche sapevo di star trattenendo. Mi resi conto che avevo le mani sudate e il cuore a mille.

«È così un caro ragazzo quel giovanotto», sospirò la nonna, diretta verso la sua stanza.

«Già, davvero molto caro», acconsentii, poi anche io tornai a letto. Lo sguardo rivolto al soffitto e le cuffiette nelle orecchie. Nello walkman avevo la cassetta che mi aveva lasciato Vilma prima di partire, quella dei Backstreet Boys. Nick Carter era la sua fissa, tanto da sognarlo la notte. Schiacciai play e lasciai partire I Want it that way

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Nick Carter, AJ McLean, Howie Dorough, Kevin Richardson e Brian Littrell. I fantastici BSB. Milioni di ragazzine sono impazzite per loro negli anni novanta (io tra queste!)
Adesso mettetevi comode e fate partire il video YouTube,
I want it that way. Si torna nel 1999!

Serena

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