23. VENTI METRI DA TERRA

Il posto si trovava ad almeno venti metri da terra. David mi fece salire sulle scale del soppalco, mi portò sulla terrazza e da lì ci arrampicammo su una scaletta di ferro fino al tetto. «Hai paura?» Mi chiese, stringendomi la mano. In bocca aveva ancora la sigaretta spenta. La teneva di lato, tra i denti.

Mi guardai i piedi, erano ancorati al cemento come calamite. L'altezza mi provocava vertigini e io ringraziai me stessa per essermi concessa la Sangria. La sentivo scorrere ancora nelle vene e dentro la testa, la sentivo darmi un po' di coraggio. In basso, la strada sembrava un'arteria pulsante, le auto e le persone erano così piccole da essere scambiate per costruzioni Lego. Si muovevano, il traffico andava e veniva, generando un rumore di sottofondo che pareva un ronzio. La stretta di David attorno al mio polso era una morsa così forte da farmi sentire le pulsazioni lungo tutto il braccio. «Vieni, da questa parte».

Mi portò qualche passo avanti, strascicando i piedi l'uno dietro l'altro con la paura costante di perdere l'attrito creato tra le suole e le tegole. Ci spostammo oltre il comignolo, fino a raggiungere delle alte inferriate.

Ci sedemmo, le gambe penzoloni nel vuoto, il petto schiacciato contro le sbarre. Parevamo imprigionati in una galera in mezzo al cielo, dimenticati dal resto del mondo. Si sentiva il vento da lassù, quella brezza fredda che preannunciava l'arrivo dell'inverno.

David si accese la sigaretta senza toglierla dalla bocca. «Bello qua, non trovi?»

Annuii. Era davvero un bel posto. Alto, ma bello. «Ci vieni spesso?»

«Soltanto quando voglio stare per i fatti miei».

Il suono di clacson lontani faceva da sottofondo a quell'aria così strana da essere quasi surreale. Eravamo in cima al mondo, soli e vicini, ma tra noi continuava ad esserci una barriera invisibile. David si mise a fumare assorto, ogni tanto mi lanciava un'occhiata per assicurarsi che stessi bene ma poi tornava con lo sguardo perso chissà dove.

«Ti vedo cambiato», affermai, stringendo dentro ai palmi la sbarra di ferro.

Lui ispirò del fumo, lo lasciò uscire un po' dalle narici, un po' dalla bocca. «In che senso?»

«Ti vedo diverso dal ragazzo che mi ha portato a vedere le stelle o che mi ha condotto nella sua stanza a guardare Mamma ho perso l'aereo».

«Perché non siamo a casa, qui è tutto diverso. Anche le stelle sono diverse, lo vedi come sono spente? Le nostre stelle hanno molta più luce».

Alzai il naso verso il cielo. Aveva ragione. Le luci dei lampioni, delle case, del traffico rendevano quei corpi celesti meno vivi, meno veri, rispetto a quando li avevamo visti sulla collina, ma non era questo il punto. «No, non c'entrano le stelle, sei tu ad essere diverso».

David posò la fronte contro l'inferriata e mi guardò di traverso.

«È come se la vita che fai qua ti facesse sentire superiore», gli dissi.

«Ma io non mi sento superiore», si difese.

«Neanche al ragazzo che hai lasciato al liceo? Quello che guidava una Cabrio e si portava in giro le ragazze più carine?»

David scosse la testa. «Nella vita si cresce, non si può restare sempre alle superiori».

«Vero, però qua ti sei costruito una bella impalcatura, una realtà fatta di cemento, libri e stelle. Ti sei costruito il tuo angolo di mondo». Non riuscivo a guardare nient'altro se non il cielo, non riuscivo a sentire nient'altro se non il freddo della notte.

«Questo non è il mio angolo di mondo, è soltanto una casa per studenti».

«E tu ti ci sei rintanato come una talpa che va in letargo. Sei fuggito dalla tua vecchia vita, hai dimenticato di telefonarmi e di telefonare a Marco». Lo avevo detto. Lo avevo detto davvero. Quello che mi passava per la testa lo avevo buttato fuori senza filtri o giri di parole.

«Io non ho dimenticato di telefonarti e non ho dimenticato nemmeno Marco, come potrei dimenticarlo...»

«Invece lo hai fatto. Dov'è finito il ragazzo che trascorreva le sue giornate in ospedale senza dormire e senza mangiare, in attesa che il cugino si risvegliasse dal coma? Quel ragazzo che attraversava l'intera città a qualsiasi ora del giorno e della notte per venire da me? Dove?»

«E va bene, hai ragione. Hai ragione te, sono sparito, ma l'ho fatto soltanto per proteggermi. Tu non capisci quanto male faccia vedere il proprio padre con un'altra donna».

«Vero, non capisco. Io un padre non ce l'ho più».

«Scusa. Non volevo dire questo, è soltanto che io non voglio che lui dimentichi mia madre».

«Tua madre è morta che eri un bambino, David, tuo padre ti ha accudito, cresciuto, permesso di studiare. Credo che adesso sia giusto per lui pensare un po' anche alla sua vita. È ancora così giovane...»

«Non voglio che accada. Io non voglio avere un'altra madre, lo capisci?»

«Quella donna non sarà mai tua madre e tuo padre non cancellerà la sua vita passata, ma ha bisogno anche lui di un futuro, di qualcuno che lo ami».

«Sono io il suo futuro, non altre donne».

«Questo è un ragionamento molto egoistico». Scossi la testa, sconfortata.

David rimase in silenzio. Il suo mutismo mi metteva a disagio. Era qualcosa di innaturale, di maledettamente costruito che non mi permetteva di comprendere fino in fondo il suo dolore. Era chiaro che in tutti quegli anni non era riuscito a superare la morte della madre e, in fondo, lo capivo. Lo capivo molto bene, ma la sua reazione era esagerata perché adesso lui non era più un bambino. Era un uomo e doveva prendere in mano le sue paure, doveva combatterle. «Fuggire non è il modo migliore per affrontare le cose. Devi tornare, David, devi parlare con tuo padre», dissi seriamente.

«Tu non hai nessun diritto di dirmi cosa devo o non devo fare!», sbottò con stizza.

Rimasi impassibile. Sapevo che David non era con me che ce l'aveva, ma con il suo passato, con il mondo, con la voglia del padre di dare una svolta alla sua vita. «Può darsi», affermai, «ma voglio farlo. Voglio dirti cosa è giusto che tu faccia. E sai perché? Perché io ci tengo a te».

Lui si portò le mani tra i capelli e piegò indietro la testa. Chiuse gli occhi.

«Sai cosa è successo a Marco? Ha cercato di uccidersi con delle pillole», lo misi al corrente. Era il momento giusto per parlargliene? Forse no. Sicuramente non lo era, ma David doveva sapere quello che stava accadendo lontano dai suoi occhi. «Sai perché lo ha fatto? Perché si è sentito perso. Ha visto la nostra Polaroid e ha avuto l'impressione di essere stato messo da parte da te e da me. Forse è vero, sai, tutti e due lo abbiamo abbandonato. Tu sei fuggito e io non sono riuscita a dirgli una singola parola di quello che è successo tra noi».

«Marco sta male e basta. Noi non c'entriamo nulla».

«È la stessa cosa che dice Vilma. Non devo accollarmi sensi di colpa che non mi appartengono, ma i fatti parlano chiaro e Marco ha tentato il suicidio perché si è visto perso. Io non voglio che anche tu...»

«Io non sono Marco. Io non voglio uccidermi».

Lo scrutai. Le sue spalle appena curve e il colletto della polo alzato a nascondere la pelle del collo. Anche lui mi guardò, dapprima serio, poi con un'espressione più dolce. Le sue dita schiacciarono la cicca sul cornicione e il suo volto si avvicinò al mio. «Possiamo smettere di parlare? Siamo io e te e non ci vediamo da così tanto tempo...»

Le nostre pupille brillarono, all'unisono, molto più delle fioche stelle di quella sera.

«Allora un po' sei felice di vedermi?» sussurrai.

Lui sorrise e io sentii il cuore balzare in gola. Le vertigini adesso erano dovute alla sua vicinanza e non più all'altezza di quel palazzo. Mi ritrovai a fissare le sue labbra con sguardo languido e malinconico, con terrore e speranza di sentirle di nuovo sulle mie. «Ho paura, sai, ho una maledettissima paura di questo ragazzo così diverso, così distante e lontano», confessai.

«Shh», sospirò lui, poi piegò leggermente la testa e chiuse gli occhi. Avvicinò la sua bocca alla mia, la sfiorò con una delicatezza incredibile. E poi la sfiorò ancora e ancora.

Smisi improvvisamente di pensare e parlare. Le sue labbra lasciarono sulla mia bocca un sapore che credevo aver dimenticato. Mi sentii stordita, inebriata e confusa.

David intrufolò la sua lingua dentro la mia bocca, cercò la mia con movimenti scivolosi, pian piano sempre più profondi e avvolgenti. Con una mano manteneva il suo corpo, e di conseguenza il mio, stabile contro la balaustra mentre con l'altra si intrufolava lentamente sotto alla mia maglietta. Le sue dita bruciavano, scottavano mentre mi attraversavano la pancia e si avvicinavano sempre più al ferretto del reggiseno. Respirai a fatica. Avevo il suo fiato contro il mio, la sua lingua dentro la mia bocca e il suo profumo dappertutto. Ovunque. Tutto quel coinvolgimento mi fece salire una stretta che mi avvinghiò la gola, mescolandosi al desiderio di David e alla voglia che avevo di lui. Non volevo che quelle dita si fermassero, le desideravo sui miei seni e desideravo il corpo di quel ragazzo così bello e impossibile più vicino al mio, ma allo stesso tempo volevo tornare a respirare. L'emozione si mescolò alla paura, tanto da farmi afferrare il polso di David e sussurrargli con voce strozzata: «No, fermati, per favore».

Lui non mi ascoltò, mi attirò con più forza al suo corpo.

«Ho detto di fermarti», dissi più decisa.

Le labbra di David si staccarono dalle mie, lasciandole gonfie e piene del suo sapore. I suoi occhi splendenti si aprirono di colpo e la sua mano si retrasse bruscamente. Respirai più e più volte con affanno.

«Scusa, mi sono lasciato prendere dall'eccitazione, io... perdonami... avevo soltanto voglia di te», affermò.

Annuii. Non era lui il problema. Lui c'era abituato ad accarezzare la pelle delle ragazze, a spingersi oltre. Per me invece tutto quello era nuovo. «Torniamo dentro, okay?»

«Va bene». Si era incupito di nuovo, come prima di arrivare su quel tetto, come prima di baciarmi.

Ci rimettemmo in piedi e con cautela tornammo alla scaletta di ferro che portava alla terrazza.

In silenzio accedemmo al soppalco e poi giù, di nuovo in cucina.

La porta era socchiusa e non si sentiva alcuna voce o rumore all'interno. Quando entrammo, capimmo il perché. La bocca di Vilma e quella di Aleandro erano impegnate a fare ben altro che parlare. Esse erano unite, incollate come ventose l'una all'altra e anche i loro corpi lo erano. Aleandro aveva le braccia introno al collo di Vilma e lei gli stringeva i glutei come se avesse tra le mani due spugne impregnate di acqua.

Sentii David irrigidirsi al mio fianco, poi emise un colpo di tosse.

I due si riscossero, si voltarono verso di noi e si ricomposero. Aleandro si tirò su la cintura dei pantaloni e sentii il bisogno di giustificarsi. «Ehi, amico, tranquillo, ci stavamo soltanto baciando!»

David scosse la testa, nero in volto. Percepivo il suo disappunto, lo palpavo denso e corposo nell'aria. «Forse è meglio uscire», grugnì.

«Certo, vado a prendere la borsetta», disse Vilma, smorzando la tensione. Ci passò nel mezzo, evitando lo sguardo di rimprovero di David, prima di allontanarsi però mi afferrò un polso e mi trascinò nell'altra stanza con sé. La conoscevo. Non vedeva l'ora di sapere cosa fosse successo tra me e David durante la nostra assenza e poi fremeva di raccontarmi di lei e Aleandro. Lanciai uno sguardo indietro.

David ci stava guardando e i suoi occhi non erano per niente rassicuranti. 

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