20. EQUAZIONE SBAGLIATA

Nei giorni che seguirono cercai di riempire il vuoto dato dall'assenza di Marco, ascoltando la sua musica preferita, quella degli 883. Avevo messo da parte per un po' le musicassette di Jovanotti per lasciare spazio alla voce di Max Pezzali. Io ci sarò passava a ripetizione nel mio stereo e nel mio walkman. La musica mi faceva sentire più vicina al mio migliore amico e colmava un po' quello spazio indecifrabile fatto di paura, ansia, caos e speranza.
Qualche volta mi ritrovavo con le ginocchia strette al petto a piangere per espellere tutta l'angoscia che portavo dentro, altre volte, invece, dopo scuola, passavo alla mensa degli sfollati; un saluto al vecchio Bube e uno alla Signora Lia, poi tornavo a casa, controllavo la cassetta delle lettere, restando ogni volta delusa perché non c'era niente indirizzato a me da parte di David. Alla fine, impiegavo la serata a studiare svogliatamente; la Smemo posata sulla scrivania, come testimone oculare di tutte le mie pene, l'astuccio pieno zeppo di penne che non avrei mai utilizzato e i libri presi al mercatino, fasciati con pellicola trasparente per farli sembrare nuovi. Era difficile concentrarsi sulle materie quando dentro la testa avevo un vero e proprio concerto rock.

Vilma era l'unica persona con la quale potevo sfogare le mie angosce. Un pomeriggio, stavamo rientrando a casa da scuola e stava piovendo a dirotto. «Oh, Vì, continuo a sentirmi così in colpa», piagnucolai, stringendomi a lei sotto all'ombrello. «Invece di aiutarlo, l'ho fatto cacciare in pasticci ancora più grandi. Continuo a pensare che sia per colpa mia se Marco si è preso tutte quelle pillole, voleva uccidersi. Che diamine! Voleva morire!»

«I sensi di colpa non servono a nulla, anzi peggiorano soltanto le cose», disse lei, guardando avanti.

«Se io non avessi lasciato il mio diario a casa sua, se lui non avesse visto quella foto...»

«Se, se, se... Non puoi continuare a tormentarti in questo modo, ormai è andata così, non ci si può fare niente. Marco ha fatto un gesto estremo, un gesto che ricorderà per il resto della sua vita, ma non lo ha fatto perché tu gli hai mentito, lo ha fatto perché sta male, perché deve imparare ad accettare la sua condizione, perché i suoi sogni si sono drasticamente spezzati», affermò, bloccando il mio elenco di colpe.

«Dovevi vedere i suoi occhi quando mi ha mandata via, dovevi vederli, era uno sguardo così vuoto e spento, cosa devo fare adesso? Non posso ignorarlo, capisci? Sono giorni che non lo sento, che non lo vedo».

«Tu sai come la penso, secondo me è giusto dargli un po' di tempo».

«Tempo, tempo, tempo! Io non ce la faccio più, voglio risolvere le cose tra noi».

«Non puoi, Greta, non adesso. Prima Marco deve risolvere le cose con sé stesso».

Sospirai, afflitta. Aspettare era sicuramente una buona medicina, anche se decisamente amara.

Appena giunte sotto al portico di casa detti l'ennesima sbirciatina alla cassetta delle lettere.

«Che c'è attendi ancora la mia cartolina delle vacanze?» chiese Vilma, curiosa.

«La tua cartolina e anche qualcos'altro», la stuzzicai, riportando la conversazione su toni meno melodrammatici.

«Ovvero?» cinguettò, curiosa come un gatto rosso.

«Due biglietti del treno per andare da David» buttai là.

«Cosa?» La voce di Vilma squillò come le campane di mezzogiorno.

«Hai capito bene. Mi ha chiamata l'altra sera, prima che succedesse tutta quella cosa con Marco e, ecco, lui vuole che andiamo a trovarlo».

«Andiamo?»

«Sì, tu e io», confermai. «Se ti va, naturalmente...»

«Ma certo che mi va! Sono già emozionata all'idea!»

La sua euforia era quasi contagiosa, tanto da strapparmi un sorriso.

«Quando arriveranno? I biglietti, intendo...» chiese ancora, evidentemente sovraeccitata.

«Non lo so, spero prima della tua cartolina». Feci spallucce.

«Sai cosa dovremo fare? Smettere di inviarci stupide cartoline quando andiamo da qualche parte, tanto finiamo sempre per vederci prima del loro arrivo!»

Sorrisi con più trasporto. Aveva ragione. Chi diamine aveva inventato quella stupida usanza?

«Vedi che qualche volta riesco ancora a farti ridere, sono brava, no?» Mi strizzò l'occhio.

La pioggia rinforzò. Le gocce cadevano pesanti e senza sosta, riempivano le grondaie e creavano pozze enormi sull'asfalto. Vilma tentennava a salutarmi, alla fine si strinse dentro al suo giacchetto e disse a bruciapelo: «Anche Giulio mi ha chiamata».

«Cosa?» Mi sbalordii. «Questo non è per niente divertente».

Lei si morse il labbro inferiore e aggrottò leggermente la fronte. «Mi ha invitata fuori per una pizza».

«Tu le hai detto che non andrai, ovviamente».

«Sarà soltanto una pizza».

«Non è mai soltanto una pizza!» esplosi.

«Giuro che lo sarà. Mi ha chiesto scusa, è giusto concedergli una seconda occasione».

«Non farlo, Vì», la implorai, ma lei sfuggì alle mie suppliche, si diresse verso il suo portone, spedita sotto all'ombrello e sotto a quel temporale che pareva non finire più. Lo zaino le ciondolava dietro la schiena e il manto di capelli bruni seguiva ubbidente la sua andatura. «Perché mi dici le cose, se poi non ascolti i miei consigli?»

Vilma si voltò poco prima di entrare e mi fece un piccolo cenno con la mano. «Perché sei un'amica».

«Appunto», sospirai. Pensai che stesse per commettere uno degli errori più grandi della sua vita.

La mattina seguente, il mio timore divenne realtà.
Vilma giunse a scuola in ritardo, nascosta dietro un paio di occhiali dalle lenti spesse e scure. Si limitò a farmi un debole cenno di saluto e si mise a sistemare i libri sul banco a testa china. Capii subito che qualcosa non andava.

«Della Scala le pare questa l'ora di arrivare?» cinguettò la Vinci dalla cattedra. «Venga a risolvere l'integrale che trova scritto alla lavagna, la aiuterà a svegliarsi».

Vilma si alzò con titubanza.

«E tolga quegli occhiali, non siamo mica in spiaggia!»

Lei eseguì il comando. Notai che aveva gli occhi gonfi e rossi. Si posizionò davanti alla lavagna a fissare quell'espressione che pareva non saper decifrare, stringeva il gessetto tra le dita, rigirandolo fino a farsi venire i polpastrelli bianchi.

«Allora?» fremeva la professoressa.

Vilma batté il piede, visibilmente in difficoltà. Era girata di spalle alla classe, i capelli le scendevano morbidi dietro la schiena. Il maglioncino che portava era rosso come immagino fossero anche le sue guance in quel momento. Alla fine, posò il gessetto sul bordo della cattedra. «Non sono riuscita a studiare ieri», si giustificò.

La Vinci balzò in piedi. «Qui non si tratta di ieri, stiamo studiando gli integrali da almeno dieci giorni».

Il chiacchiericcio che si era creato nella classe si interruppe bruscamente, mentre Vilma continuò a mantenere lo sguardo fisso sui suoi anfibi.

«Della Scala vorrei ricordarle che c'è la maturità quest'anno, le consiglio quindi di mettersi a studiare al più presto se non vuole rimanere al liceo a farci compagnia», sentenziò la professoressa, facendo segno alla nostra compagna di riprendere il suo posto.

Vilma tornò al suo banco, prima di sedersi chiese: «Mi metterà un'insufficienza?»

«Ovviamente», decretò la Vinci.

La classe riprese a borbottare mentre la professoressa tracciava uno zero tondo come una palla di neve accanto al nome della mia amica, ma si zittí nell'istante stesso in cui l'indice grassoccio della donna iniziò a scorrere sull'elenco, fermandosi quasi in fondo. «Ricciardi, che ne dice di venire lei a risolvere l'integrale?»

Tutti quanti tirammo un sospiro di sollievo e al contempo ci girammo verso Franco, il quale tirò indietro la sedia con sicurezza. Franco Ricciardi aveva la media del sette e mezzo. Non era un genio ma neppure uno stupido e a matematica se la cavava piuttosto bene. In pochi minuti risolse l'integrale.

«Ha visto, Della Scala, era semplice, no?» La Vinci si rivolse a Vilma con un ghigno subdolo al lato della bocca.

Sentii la mia amica irrigidirsi al mio fianco e trattenere il respiro. Scommetto che avrebbe voluto trafiggerla con lo sguardo, anzi decapitarla o fulminarla sul posto, ma si limitò a chiedere il permesso per uscire.

«Posso andare con lei?» chiesi quasi pietosamente, sollevando il braccio.

La professoressa fece un cenno di assenso con la testa e allora io le corsi dietro.

«Ho bisogno di stare da sola, per favore, Greta», mugugnò Vilma non appena mi vide entrare nel bagno al suo seguito.

«Non posso lasciarti da sola, la Vinci ti ha appena fatta a pezzi», protestai.

«Cosa vuoi? Vuoi sentirti dire che avevi ragione? Allora ti dirò che avevi ragione. Me la sono meritata questa insufficienza, anzi me la sono proprio strameritata, così imparo a uscire la sera con un bastardo che non sa fare altro se non rovinarmi la vita».

«Io non voglio sentirmi dire niente, soltanto capire cosa è successo», affermai.

«Giulio è fidanzato con una che lavora con lui e la sua pizza non era una vera pizza, ma voleva soltanto portarmi a letto. Una notte di sesso in ricordo dei vecchi tempi, figo, no?»

Cercai di afferrarle il braccio per placare il suo malessere, ma lei schizzò via da me, saltò sul davanzale interno e si mise a sedere di fronte alla finestra aperta. Dalle tasche tirò fuori un pacchetto di sigarette e me lo porse. «Ne vuoi una?»

La guardai dal basso verso l'alto come si guarda qualcuno che pare aver perso improvvisamente la ragione. «Da quando fumi?»

«Da quando ho scoperto che sono soltanto una seconda scelta».

«Tu non sei una seconda scelta, devi semplicemente lasciar perdere quello là».

Vilma agitò il pacchetto davanti al mio naso. «Ne vuoi una oppure no?»

Scossi la testa.

Allora lei si accese la cicca con un accendino che poi ripose insieme al pacchetto di nuovo in tasca.

«Chi te l'ha data tutta quella roba?»

«Ho rubato il pacchetto a mio padre, penserà di averlo perso da qualche parte». Fece spallucce.

«Non fa per niente bene».

«Ma che ti sei messa a fare la moralista adesso?» Si rivoltò.

«Non sopporto di vederti così», le dissi.

«Mi passerà».

La porta del bagno si aprì per lasciar passare delle ragazze del primo anno. Erano ancora delle bambine, portavano i pantaloni con gli elastici sotto ai piedi e un paio di ballerine lucide. Indossavano camicette fiorite e gilet. Lanciarono uno sguardo fugace a me e a Vilma e si diressero dentro allo stesso cesso, quasi di corsa e senza voltarsi indietro. Forse avevano avuto paura di noi; due maturande affette dalla sindrome dell'incomprensione, del senso di colpa e dell'abbandono.

Vilma non parlò più, buttò la cicca dalla finestra e posò la nuca contro il muro. Chiuse gli occhi.

Mi posizionai sotto di lei, a terra, e restai a fissare le mattonelle sporche del bagno.
Nel muro di fronte erano ancora incisi due cuori che circondavano un'equazione scritta anni fa.

Un'equazione che pareva non essere più così esatta; Giulio + Vilma = amore. La Vinci avrebbe detto che il risultato era errato. Forse lei l'avrebbe scritta così adesso: Giulio + Vilma ≠ amore. 
________________________________

Io ci sarò, 883. Fine anni '90.
Il cuore, la mente, l'anima immerse in una marea bellissima di ricordi.
Buon ascolto!

https://youtu.be/dzRLln3ggzQ

Serena

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top