18. MI MANCHI
Il vapore dell'acqua aveva invaso il bagno, penetrando attraverso le fughe delle mattonelle e passando sotto agli infissi.
«Tesoro, sei sicura di star bene? Sta uscendo fumo dalla porta!»
Tra meno di pochi secondi la caldaia avrebbe cessato di dare acqua calda, dovevo sbrigarmi a sciacquarmi i capelli dallo shampoo.
«Tesoro, mi hai sentita?»
Feci capolino alla tenda e gridai un: «Va tutto bene». Sentii i passi della nonna ciabattare nel corridoio per tornare in cucina. Uscii dalla doccia con l'accappatoio legato in vita e un asciugamano arrotolato in testa. Accesi lo stereo che tenevo sopra la mensola, giusto in tempo per l'incipit di Mi piaci di Alex Britti. Mentre Alex gridava a squarciagola quanto fosse strana la donna della quale il tizio della canzone era innamorato, io mi tamponavo i capelli, il collo e la faccia. Per un istante mi soffermai allo specchio, notai due nuovi brufoli che facevano capolino a un lato del naso. La tentazione di premerli fu forte, ma non lo feci, frugai nel cassetto e cercai il dentifricio da metterci sopra.
«Greta, al telefono!» La nonna si affacciò al bagno. «È un sacco di tempo che ti chiamo, con quel coso a tutto volume voi giovani diventerete sordi», brontolò, indicando lo stereo.
«Se è Vilma dille che la richiamo dopo», affermai, prendendo in mano asciugacapelli e spazzola.
«Non è Vilma, è un ragazzo, dalla voce mi sembra proprio quel giovanotto carino... David...»
Le cose che tenevo in mano mi caddero all'istante, finendo sul lavandino con un tonfo. David era al telefono. Dopo giorni, settimane, lui era lì, dall'altro capo del filo.
«Che faccio? Gli dico che non puoi rispondere?»
Sorpassai la nonna in un lampo. «No, no, ci penso io, grazie».
Quando presi in mano la cornetta mi tremavano le ginocchia e sentivo anche ronzare qualcosa dentro le orecchie. «Pronto», sussurrai.
La voce di David si materializzò come per magia, arrestandomi il cuore. «Ciao, Greta».
«Ciao, David», biascicai.
La nonna mi passò vicino, diretta in cucina. La vidi sparire dietro ai fornelli. Sul fuoco c'era una pentola e l'odore del brodo aveva invaso l'intero appartamento.
Mi assicurai che lei non potesse sentirmi e buttai fuori: «A quanto pare sei vivo». Avrei voluto aggiungere che non si fa passare tutto questo tempo per sentire qualcuno, non se si tratta della persona che dici di amare.
«Scusa se non ti ho chiamata prima, sono stato molto indaffarato; i corsi mi prendono quasi tutto il tempo, torno molto tardi e devo gestire un mucchio di faccende».
David parlava della sua vita come se, improvvisamente, fosse la vita di una persona adulta e responsabile. Era entrato in quel mondo che faceva paura, ma che tutti quanti volevano a grande richiesta sperimentare; l'autonomia, la libertà.
«Capisco», mentii, in realtà non capivo per niente, una telefonata non gli avrebbe portato via così tanto tempo.
«Come stai?» chiese.
«Mi manchi», confessai, senza girarci troppo intorno. Da quando lui era partito mi ero sentita più sola che mai. Vilma non riusciva a coprire il vuoto che avevo dentro e Marco faceva parte più che mai di quel vortice di solitudine.
«Anche tu mi manchi».
Un fruscio sottostante disturbava la linea. Sentii la nonna muoversi in cucina, il rumore del mestolo che girava nel tegame si sovrappose al sottofondo confuso che avvertivo dentro la cornetta.
«Non abbiamo il telefono a casa, ti sto chiamando dalla cabina vicino all'Università, ci sono sempre un sacco di studenti in fila per telefonare, anche adesso, ho una coda dietro che nemmeno immagini», spiegò.
«Hai sentito Marco? Lo hai chiamato?»
«No, non l'ho fatto», rispose. La sua voce mi sembrò piuttosto fredda. «Avrei voluto», aggiunse, «lo avrei voluto davvero tanto, ma dopo quello che è successo prima di partire non sono riuscito a pensare a nient'altro che a mio padre...»
«È per questo motivo che non sei tornato, vero? Non c'entra niente l'Università, tu sei arrabbiato con tuo padre, non vuoi vederlo».
«Può darsi», ammise.
«Non puoi fuggire per sempre, lo sai? Prima o poi dovrai affrontare le cose».
«Adesso non sono pronto, ho bisogno di tempo».
Tempo. Ecco venir fuori l'uomo non ancora maturo, il saggio mancato. Per quanto David volesse atteggiarsi da adulto, non riusciva a esserlo fino in fondo. Si era rintanato nella sua nuova dimora per studenti senza fare i conti che presto o tardi le magagne lasciate a casa avrebbe dovuto affrontarle. Quel padre che condannava era lo stesso padre che gli aveva comprato una Cabrio a diciotto anni, quello che gli pagava la retta e l'affitto. David Bucci si sentiva adulto, ma non lo era affatto.
«Non hai mai pensato di tornare per me?» Lo interrogai. Mi sentivo messa da parte da tutto quell'odio nei confronti del padre. «Forse non sono abbastanza importante per te».
Il suo respiro si scontrò con il mio orecchio, rimbombando come un'eco lontana. «Hai ragione, sono un cretino».
«Non sei un cretino. Fallo. Torna questo fine settimana. Torna per me. Ho voglia di vederti». Lanciai un occhio in cucina per assicurarmi che la nonna fosse sempre a debita distanza.
«Perché invece non vieni tu a trovarmi? Ti spedisco il biglietto del treno».
Restai con il fiato sospeso. Andare da lui. Io? Da sola? In treno?
«Puoi venire con Vilma, se vuoi». Parve leggermi nel pensiero. «Se hai bisogno che io parli con tua nonna posso farlo, credo che si fidi di me».
«Sarebbe molto bello... sì... lo sarebbe davvero...» Non riuscii a nascondere l'entusiasmo.
«Allora ti...»
Di nuovo la linea decise di frusciare, ma questa volta non ci furono segni di ripresa, ma soltanto il tu-tu-tu di chi dall'altra parte non può più sentirti. Restai davanti al telefono per i cinque minuti successivi, con i capelli umidi dentro l'asciugamano e l'accappatoio stretto in vita. Sperai che David mi richiamasse, lo sperai davvero con tutto il cuore, ma non lo fece. Aveva almeno capito che mi mancava da morire? Mi avrebbe spedito i biglietti del treno oppure lo aveva detto soltanto così, perché sono cose che si dicono tra due che sono quasi amici o quasi fidanzati? Me ne tornai in bagno con un gran trambusto interiore. La voglia di rivedere David aveva ripreso vigore con il sentire la sua voce.
«Greta, è pronto!» Era il richiamo della cena.
Non avevo più molto tempo per asciugarmi i capelli, così li legai in una treccia. Misi la tuta da casa e calzai le ciabattone di peluche con la testa di leone. «Arrivo!» gridai.
Spensi lo stereo. Prima di andare in cucina, preparandomi mentalmente ad almeno una dozzina di domande su cosa ci fossimo detti io e quel ragazzo carino che si chiamava David Bucci, andai in camera e presi il mio zaino. Cercai la Smemo, avevo bisogno di vedere la nostra Polaroid perché la voce a volte non basta, perché si ha bisogno di sfiorare la pelle, i capelli della persona che ci manca. Perché anche solo vedere un'immagine attenua quel prepotente senso di lontananza. Cercai il diario dentro lo zaino con il desiderio di prenderlo tra le mani il prima possibile, ma non lo trovai. C'era il quaderno di matematica, il libro di storia e quello di letteratura, l'astuccio, lo walkman, ma non la Smemo. Frugai, rovistai, scrollai lo zaino a capo in giù, lasciando cadere a terra tutto quanto; bigliettini, numeri di telefono, adesivi, penne, cose di alcun valore, ma del diario nessuna traccia. Mi si bloccò il cuore. Sentii ghiaccio in ogni singolo capillare.
«Greta, la cena si fredda, sbrigati!»
Ignorai la nonna, ignorai il mio cuore che non batteva più, trottava, semplicemente. Al galoppo. «Dove sei finita? Dove?» piagnucolai tra me e me. Razzolai tra le cose della scrivania, ma lo feci soltanto per scrupolo, nessuno di quelli era il suo posto. La Smemo stava nello zaino, ovunque con me, a scuola, in giro, poi ebbi un flash. L'ultima volta che l'avevo sfogliata era stato quello stesso pomeriggio a casa di Marco.
Mi bloccai nel mezzo della stanza, il cuore in gola, il respiro strozzato esattamente a metà. Cosa avevo fatto? Avevo lasciato il mio diario nel salotto di casa Bucci. E dentro c'era la foto del mio bacio con David.
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Pronte con le cuffiette?
Mi piaci di Alex Britti è il brano cult dell'estate 1999. Quanti ricordi!
Serena
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