13. PS: I LOVE YOU

La stazione era gremita di gente. Io e Vilma correvamo verso i binari. Avevo il fiato corto e il cervello pieno zeppo di pensieri. Cercavo di farmi venire in mente un discorso per quando mi sarei trovata faccia a faccia con David, ma non mi veniva in mente niente. Quando passammo di fronte alla vetrina di un negozietto, mi ritrovai a specchiarmi, ma il riflesso che incontrai non corrispondeva a quella Greta Mori che conoscevo, piuttosto all'alone di una bambina con indosso un vestito troppo corto e le labbra troppo rosse. Era stata Vilma a insistere per il rossetto. Avrei dovuto essere bella, speciale, una di quelle ragazze che restano impresse come un timbro sulla carta, invece mi sentivo eccessiva e avevo soltanto una grande paura.

Vilma mi portò di fronte al tabellone e indicò in alto. «Binario tredici».

Una voce annunciò la partenza e gli ultimi ritardatari si affrettarono a salire a bordo. Vilma mi afferrò una mano e cominciò a correre ancora più veloce sulla banchina. «David! David!» gridava come una pazza fuori controllo, affacciandosi all'entrata di ogni vagone, ma di David non c'era traccia e quella corsa non era servita a niente, soltanto a renderci ridicole e incredibilmente stupide. In realtà, non sapevo se provare vergogna o tristezza per non essere arrivata qualche minuto prima.

Il rumore dei motori, il fischio di partenza e quello delle mille voci presenti si sommarono in un unico vortice di sconforto. «È davvero troppo tardi», costrinsi la mia amica a fermarsi.

Vilma mi guardò desolata. Aveva il fiatone.

«Non importa, ci abbiamo comunque provato». Cercai di nascondere la delusione, ma una voce cambiò ogni cosa; sentii pronunciare il mio nome con forza, come quando qualcuno vuole scandire ogni sillaba perché si capisca bene. Perché tutti possano capire bene. Mi voltai. Affacciato al vetro di uno dei primi vagoni c'era proprio lui, il ragazzo per il quale avevamo fatto quell'assurda maratona.

«Greta, che ci fai qua?» David si sporgeva con il busto fuori, quasi a volersi calare di sotto.

Mi ritrovai a boccheggiare come un pesce fuori dall'acqua. «Sono venuta a salutarti».

Il volto di David parve distendersi. Vidi il suo sguardo attraversare il mio e poi spostarsi sul mio vestito, sui miei capelli spettinati e sulle mie labbra rosse. «Sei bellissima», disse.

Il mio cuore balzò in gola.

«Mi dispiace per ieri sera, quello che è successo a casa mia, mio padre...»

Avevo il cuore a mille, avrei voluto parlare con David di come si sentisse, di quello che gli passava dentro, ma non c'era il tempo, non c'era lo spazio. Restammo a guardarci per un secondo che mi sembrò semplicemente infinito. Respirammo. Ci fissammo, poi lui spostò lo sguardo verso Vilma, che era ferma qualche passo dietro di me. Le accennò un vago sorriso che lei ricambiò, dopodiché lo vidi sparire, rientrando dentro al vagone. Vilma mi rivolse uno sguardo smarrito. «Dov'è andato?»

Scossi la testa, confusa più che mai. Il rumore dei motori si fece più intenso. Il treno sarebbe partito da un istante all'altro. Vilma prese a battere forte con il palmo della mano contro la ferraglia del vagone, chiamando il suo nome. Il finestrino restò vuoto per un tempo che mi sembrò lunghissimo, poi David riemerse da quel vagone che pareva averlo fagocitato poco prima. I suoi capelli castani dagli inconfondibili riflessi rossi sbucarono di nuovo dal vetro; lucidi, quasi brillanti sotto alla luce del sole cocente. Il treno cominciò a muoversi, lentamente e poi sempre più veloce, tanto che io e Vilma ci dovemmo spostare e poi metterci a correre per restare al passo con David.

«Questa è per te, Greta, te l'avrei spedita appena arrivato», gridò lui, lanciando qualcosa.

Una busta fluttuò in aria più e più volte, fino a cadere a terra a un passo dai nostri piedi. Il treno accelerò, divenne sempre più piccolo e alla fine scomparve velocemente dalle nostre viste, lasciando il binario vuoto. E di David, in meno di mezzo secondo, non ci fu più neanche l'ombra.

«È una lettera», disse Vilma, chinandosi a raccogliendola.

Guardai imbambolata il suo braccio teso che me la porgeva.

«Coraggio, prendila».

Aprire quella busta fu strano, mi sentii come se il mio corpo stesse girando a vuoto dentro al cestello di una lavatrice. Sul retro c'era il mio nome e l'indirizzo di casa. Strappai la carta con il terrore di ciò che avrei potuto trovare all'interno. Tirai fuori una foto. Il mio cuore si fermò per un tempo infinito.

«Cos'è? Che c'è scritto?» Vilma era curiosa, anzi era morbosamente curiosa. Era così curiosa che afferrò il mio polso e, con un movimento brusco, lo girò nella sua direzione affinché potesse vedere.

Non c'era una lettera, niente poesia o pensieri contorti e profondi, ma soltanto tre parole incise di rosso sopra allo scatto del nostro bacio sulla terrazza panoramica. Tre parole che mi svuotarono l'anima.

«Ps: I love you», disse Vilma ad alta voce. «Firmato David».

Boccheggiai, totalmente incapace di esprimere qualsiasi cosa mi stesse passando dentro. «È la nostra foto. La Polaroid che ho lasciato cadere dalla terrazza quella sera che siamo stati al Plaza, lui l'ha recuperata...»

«E ha scritto che ti ama», ribadì lei.

Continuai a guardare quella foto e quel "post scrittum" e a chiedermi che cosa mai potesse significare quel gesto. Non avevo mai avuto un ragazzo prima di adesso e, in un'estate, era successo ciò che sarebbe potuto accadere nell'arco intero di una vita, ma era davvero così importante quello che c'era tra me e David? Poteva un ragazzo scrivere qualcosa del genere e poi fuggire su un treno per un'altra città e un'altra vita? Era da vigliacchi o da grandi? Forse ero io che non ero abbastanza matura per tutto quello oppure David era soltanto un bambino, che non aveva avuto il coraggio di confessare i suoi sentimenti faccia a faccia? Ma forse era così che si faceva, forse i pensieri più profondi si scrivevano perché restassero impressi per sempre, come una sorta di prova d'amore.

«Greta, tutto questo è così romantico», sospirò Vilma, facendomi abbandonare le mie congetture mentali.

Distolsi lo sguardo dalla fotografia e guardai la mia amica. «Stai sbagliando, non c'è niente di romantico, David se n'è andato, l'estate è finita e con essa anche qualsiasi cosa ci sia mai stata o possa esserci tra noi». Mi allontanai dai binari a passo svelto.

Vilma mi corse dietro. «Greta, ma che ti prende? David ha detto che si è innamorato di te. Quella foto siete voi. Tu e lui. Cos'è che ti turba? Non sei felice? Sembra la scena di un film».

«Non voglio illudermi, quel ragazzo è partito. Avrà una nuova vita e nuove amicizie. Io non voglio innamorarmi di lui. Okay, il suo gesto è stato carino, dolce, romantico, quello che vuoi, ma questo è comunque un pezzo di carta, niente più. David non ha avuto la forza di dirmelo guardandomi negli occhi, come potrà mai reggere una storia a distanza tra noi?»

Vilma non fu d'accordo con me. Secondo lei ogni lasciata era persa e avrei dovuto vivermi quel momento e anche quelli dopo che sarebbero venuti, perché David non era andato via per sempre, ma io mi chiusi in un mutismo insopportabile anche a me stessa. Salimmo sul bus per tornare al nostro quartiere e io mi raggomitolai in uno degli ultimi sedili, appoggiando la testa al vetro. Tra le mani stringevo la Polaroid, cercando di trovare un senso alle sue parole e ai miei pensieri.

Quando arrivammo a casa, Vilma disse che sarebbe andata a disfare le valige. «Non arrovellarti troppo il cervello, questi anni non torneranno più. Vivi il momento», mi disse, prima di scomparire dentro il suo portone.

Il momento. Il momento era quello di guardare avanti. David Bucci era stato una bellissima parentesi in un'estate fatta di dolore. Nessun rimorso, nessun rammarico. Ma non era parte della mia vita. Non lo era mai stato e non lo sarebbe stato da adesso in avanti, a chilometri di distanza. Presa da un raptus, strappai la foto in due pezzi e la gettai nel secchio dell'immondizia davanti casa, poi entrai.

Quella notte gli incubi non mi dettero tregua. Sentivo il rumore del treno, sentivo la voce di David e il suo profumo al sandalo. Avevo chiuso la sua felpa dentro l'armadio, ma avevo un desiderio tremendo di indossarla, poi sentivo la sua voce, calda e sensuale come sempre, forse ancora più di sempre. Presa dalla smania di porre fine a tutte quelle assurde sensazioni, scesi dal letto, in punta di piedi andai in cucina, mi affacciai al corridoio per controllare che la nonna stesse dormendo, aprii la porta e scesi le scale di corsa. Avevo i piedi scalzi e il fiato corto. Andai al cestino dove avevo gettato la foto e frugai nell'immondizia, pregando che non fosse passata la nettezza a svuotarlo. Trovai entrambi i pezzi. Li presi.
Tornai nella mia stanza attenta a non fare rumore. E, una volta chiusa la porta, li guardai ancora. Quelle due immagini divise, quel bacio strappato dalla furia di un attimo. Da un lato il mio profilo dai capelli biondi fluttuanti nel vento e la mente annebbiata dal vino. Dall'altro lui, il ragazzo dei sogni, sorpreso da quel gesto così naturale e impulsivo. Con lo scotch riunii i due pezzi e con un sospiro li avvicinai al petto.
Io ti amo. Anche io, pensai. Anche io.
Poi nascosi la foto dentro la Smemo e portai il diario con me, sotto al cuscino. Finalmente mi addormentai. 

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