10. STELLE CADENTI

Il vecchio Bube era un uomo alto e robusto, sedeva sempre al tavolo delle donne perché sperava che qualcuna di loro, un giorno, gli concedesse un'uscita; una di quelle vere, naturalmente, con tanto di fiori e cinema a seguire.

«Ti è piaciuta la polenta?» Gli chiesi, portandogli via il piatto che aveva letteralmente spazzolato.

«Una delizia». Era quello che diceva di ogni pietanza. Per lui qualsiasi cosa era una delizia.

«Ne vuoi un'altra porzione?»

«Preferisco rimanere leggero». Si batté le mani sulla sua enorme pancia.

Mi affrettai a sparecchiare il tavolo, portai i piatti sul retro e li consegnai alla ragazza addetta alla cucina. Man mano che le persone terminavano di mangiare, io mi sbrigavo a riordinare. Quando passai la pezza bagnata sull'ultimo tavolo, la porta si aprì. La cucina stava chiudendo e io avevo già sistemato la sala, non c'era rimasto niente da mangiare, ma non appena alzai gli occhi sulla figura che stava entrando mi resi conto che non si trattava di un ritardatario. «David, che ci fai qui?»

Lui fece un paio di passi dentro l'enorme stanzone. Aveva in mano le chiavi della macchina, un giubbotto di jeans aperto lasciava intravedere la maglietta bianca che portava sotto. «Al telefono ti sei fatta negare, in ospedale sei scappata, avevo bisogno di sapere come stavi».

«È tutto a posto, adesso se non ti dispiace sto lavorando». Mi sentii crudele, non so per quale motivo avessi scelto una risposta così fredda e impersonale o forse sì, perché non ne avevo una migliore.

«Non devi averne ancora per molto, mi sembra che non ci sia più nessuno qua».

Mi guardai intorno. In effetti se n'erano già andati tutti, compreso Bube.

«Ti aspetto in auto, non scappare anche questa volta».

Lo guardai uscire. Perché mai David Bucci si preoccupava così tanto per me? Fino a pochi giorni fa ero soltanto l'amica di suo cugino, niente più. A malapena ci scambiavamo il saluto, cosa era cambiato tra noi? L'incidente di Marco ci aveva fatti avvicinare, ma a tal punto da dovermi seguire fino alla mensa dei poveri? Il bacio. C'era stato quel maledetto bacio e poi mi ero tolta i vestiti davanti a lui, ma questo non giustificava il suo comportamento. Da adesso in poi avremmo dovuto essere intimi per forza? Controvoglia abbandonai lo straccio sul tavolo e tutti i miei dubbi esistenziali dentro alla mensa, avvisai la ragazza sul retro che avrebbe dovuto chiudere lei e uscii.

David era seduto alla guida della sua Cabrio, aveva un braccio fuori dal finestrino e teneva tra le dita i residui di una cicca. Mi feci coraggio, aprii la portiera e saltai al posto del passeggero. Guardai a terra, fissai il tappetino come se rappresentasse la cosa più interessante del mondo. «Ti chiedo scusa per qualsiasi cosa abbia detto o fatto ieri sera. È stata la mia prima sbornia, non ho mai bevuto vino in tutta la mia vita. Mi vergogno da morire ed è per questo che oggi ho preferito non sentirti e non vederti. E sì, mi chiedo anche con quale spirito tu sia tornato a cercarmi, non ti è bastato quello che ho combinato?»

David restò in silenzio. Con la coda dell'occhio lo vidi gettare via la sigaretta. Pian piano alzai lo sguardo su di lui. Stava ridendo. Non ridendo proprio ridendo, ma aveva un sorriso muto che gli attraversava la faccia.

«Che c'è?» Non riuscivo a capire cosa ci trovasse di così buffo in quello che avevo appena detto.

«Ieri sera mi sono divertito», continuò a sorridere.

Mi portai i capelli dietro le orecchie, la frangetta mi pizzicava la fronte così soffiai affinché i ciuffi si muovessero di lato. «Ti ho vomitato in macchina», gli ricordai.

«Niente che acqua e sapone non abbiano già risolto» Indicò gli interni alla mia destra. Non c'era traccia del mio disastro e in effetti anche il cattivo odore era sparito.

«Ti ho detto di Vilma. Ti ho detto qualcosa che doveva rimanere un segreto».

«E lo rimarrà», disse lui con semplicità.

«Ti ho baciato sulla bocca», quasi sussurrai. Mi sentii le guance prendere fuoco. Quello era stato il mio primo bacio, ma questo particolare preferii ometterlo.

Lui allungò due dita e mi sistemò la frangetta. «I baci da ubriaca non hanno alcun valore», sentenziò, tornando serio.

I nostri sguardi si incontrarono e io sentii il mio volto prendere ancor più le sembianze di un peperone. Avevo caldo, mi mancava l'aria.

David posò il braccio sul mio poggiatesta e si avvicinò pericolosamente a me. «Che ne dici se andiamo in collina, pare che stasera sia la notte di San Lorenzo».

«È domani», precisai con il respiro strozzato a metà.

La presenza di David, così vicina, così concreta e lucida mi metteva enormemente a disagio, tanto quanto l'idea di andare insieme a lui a vedere le stelle.

«Vuol dire che questa sera ci sarà meno gente e le poche stelle che cadranno saranno soltanto per noi».

Non riuscii a rifiutare. Non ne fui in grado, mi mancarono le forze, il fiato, le idee.

Lui tornò a debita distanza. Si allacciò la cintura e girò la chiave. Il rumore del motore si mescolò al battito irrequieto del mio cuore. Quando arrivammo a destinazione, lasciandoci la città alle spalle, David fermò l'auto davanti a una vecchia casa colonica disabitata e tirò fuori una coperta dal portabagagli.

«Cosa vuoi fare con quella?» Mi passarono dalla testa un sacco di idee inverosimili; sarebbe servita per uccidermi e nascondere il mio corpo oppure per fare sesso selvaggio in mezzo alla natura!

«Stenderla sull'erba per stare comodi?»

Mi uscii un sorrisetto stridulo. Lui per fortuna lo ignorò e chiuse lo sportello. Percorremmo alcuni metri. Il cielo era già carico di stelle. Il caldo del giorno aveva lasciato spazio alla frescura più piacevole della sera. Imboccammo un viottolo acciottolato. David procedeva un passo avanti, io rimanevo appena indietro, girandomi intorno guardinga; ero in un posto sperduto in mezzo alla campagna, di notte, insieme a un ragazzo e una coperta di lana che teneva in spalla.

«Appostiamoci lassù». Mi indicò un punto in alto alla nostra sinistra.

Lo seguii in silenzio. Risalimmo il dosso con un po' di difficoltà, aiutandoci anche con le mani. Quando arrivammo in alto però la fatica fu ripagata. La visione era da mozzare il fiato; la notte avvolgeva le viti già cariche di uva matura, si estendeva fino a valle, accarezzando quella città che pareva un miraggio lontano.

Intorno a noi non c'era anima viva, nessuna comitiva di ragazzi appostati qua e là, nessun rumore molesto del traffico. C'era soltanto il silenzio. E David.

«Ti piace?» chiese.

«È una meraviglia», ammisi.

Lui stese la coperta sul prato e mi fece cenno di sedermi.

«Quante ragazze hai sorpreso, portandole in questo posto?»

David si mise al mio fianco e sbuffò: «Possibile che ogni volta che ti faccio conoscere una visuale diversa di questa città, tu pensi che ci sia già venuto con una ragazza?»

Arrossii ma non mi importò molto, era buio e non si sarebbe certo notato.

«Non sono un tipo da notte di S. Lorenzo, non sono mai venuto fin qui con nessuna per vedere le stelle», mi informò.

«Capisco. Ci sei venuto per altri scopi...» Mi sentii la pelle del viso bruciare. Lo avevo detto veramente?

«Stai forse insinuando che ti abbia portata fin qui per approfittarmi di te?»

«No, io... fai finta che non abbia detto niente di tutto questo», sospirai.

Lui stese le braccia indietro e si appoggiò sopra i palmi delle mani, allungò anche le gambe, sovrapponendole l'una all'altra. Indossava un paio di Reebok così bianche da sembrare fosforescenti. «Perché hai questa idea sul mio conto? Perché pensi che io abbia così tante ragazze?» chiese.

«Forse perché sei o meglio eri uno dei ragazzi più popolari del liceo?» improvvisai.

«O forse perché Marco ha la lingua troppo lunga?»

«Marco non ha la lingua lunga, lo sanno tutti che hai avuto un sacco di storie», ribattei sulla difensiva.

«Nessuna che mi sia interessata veramente, in realtà», replicò, facendo spallucce.

Lo guardai di traverso, da sotto i ciuffi di frangia che mi ricadevano sugli occhi. «Tu e Marco siete così diversi, lui ha sempre avuto la fissa per quella Francesca, ma lei non gli ha mai voluto bene veramente», buttai fuori quello che mi passava dalla testa. Ancora non credevo possibile ciò che lei aveva fatto. Era fuggita da lui quando più ne aveva bisogno. Solo un codardo può fare una cosa simile. E, per me, Francesca Verdi, detta la Miss, codarda lo era senza ombra di dubbio.

«Non mi è mai piaciuta quella ragazza», confessò David, distendendosi a terra supino.

Pensare a Francesca mi fece pensare a Marco e pensare a Marco mi fece venire in mente la sua sofferenza e il suo abbraccio di quel pomeriggio. Sul mio volto passò un'ombra, più scura del buio, più densa della notte, tanto che David allungò due dita, sfiorandomi lo zigomo. «Che succede?»

Lo guardai, poi mi raggomitolai su me stessa, posando il mento sulle ginocchia.

«Stai pensando a Marco, vero? Non dovevo tirarlo in ballo...»

«Va tutto bene», lo rassicurai.

«Invece no, non va tutto bene. Tu non vorresti essere qui con me, o meglio, pensi che non sia giusto essere qui con me, mentre lui è bloccato su quel letto d'ospedale».

Sentii la gola chiudersi. Aveva colto nel segno. Spostai l'attenzione sul suo volto, centrai i suoi occhi e li fissai cacciando via la vergogna. Erano occhi sinceri, occhi che parevano conoscermi anche se, in fondo, non mi conoscevano poi così bene. Non mi conoscevano affatto, in realtà, perché non mi avevano mai vista in pigiama appena sveglia o mentre mi affogavo di Nutella e mascarpone. Non mi avevano vista piangere per quella maledetta canzone degli U2, One, e nemmeno andare sui pattini a rotelle senza cadere almeno una volta con il sedere sull'asfalto.

«Ti capisco», aggiunse per colmare il mio silenzio. «Ho annullato il viaggio della maturità, ho trascorso l'estate nell'attesa di un suo risveglio, eppure mi sento in colpa ogni volta che vado fuori, anche solo per comprare le sigarette, ma cosa possiamo fare? Ci chiudiamo entrambi nelle nostre stanze? Pensi che risolveremmo qualcosa così? No, te lo dico sinceramente, fermare le nostre vite non servirebbe a niente. Non a far guarire Marco, almeno».

Il suo monologo era sensato ed esaustivo e io non riuscii a fare nient'altro se non acconsentire.

«Stenditi vicino a me». Battette un paio di colpetti sulla coperta. «Da lì non riuscirai a vedere nessuna stella cadente».

Feci come diceva, mi sdraiai al suo fianco. In quella posizione, le nostre spalle si toccavano e anche i nostri fianchi. Guardavamo la volta celeste con il naso all'insù e con la speranza che da uno di quei pianeti luminosi qualcuno scendesse per darci un consiglio oppure per prenderci per mano e spiegarci quello che dovevamo fare. Pensai a mia madre e a mio padre, al dolore della nonna nel perdere quell'unica figlia che aveva. Ero sopravvissuta a un incidente d'auto mortale, per quale motivo? Forse c'era un piano per me, un destino già scritto, oppure, semplicemente, ero così piccola e paffuta che i miei cuscinetti avevano ammortizzato l'impatto.

Per Marco era la stessa cosa, soltanto che a lui l'impatto non lo aveva ucciso e nemmeno salvato, ma gli aveva cambiato tragicamente la vita.

«Devo dirti una cosa», disse David, rompendo il frastuono dei miei ragionamenti. «Ancora non lo sanno neanche i miei. Tu sei la prima...»

Mi girai a guardarlo e anche lui fece lo stesso. I suoi occhi brillavano magnificamente nel buio.

«Questa mattina è uscita la graduatoria dell'Università e io sono tra gli ammessi, mi trasferirò e inseguirò il mio sogno, quello di diventare un giornalista. In fondo, ho sempre saputo che il mio domani sarebbe stato dietro a una scrivania e una pila di libri e non in una vasca».

La notizia mi lasciò di stucco. Sapevo che David avrebbe continuato gli studi, sapevo anche che dopo l'ultima gara avrebbe lasciato il nuoto per sempre, ma non credevo che avesse fatto domanda per una Università fuori città.

«I corsi inizieranno tra un paio di settimane, ho qualche giorno per scovare una casa per studenti dove non ci siano topi e muffa sulle pareti».

Mi feci seria e lui se ne accorse.

«Guarda che tornerò ogni fine settimana», cercò di tranquillizzarmi.

La cosa non mi rassicurò molto, tuttavia improvvisai una specie di sorriso e gli feci le mie congratulazioni. Ero felice per David e per la sua nuova vita da grande, ma allo stesso tempo mi sentivo un pizzico più sola. Quell'estate tra noi era successo qualcosa, ci eravamo avvicinati molto, forse troppo o forse non abbastanza. Sentii il cuore stringersi in una morsa dolente e un groppo fermarsi in gola. Spostai di nuovo l'attenzione verso l'alto e, proprio in quel momento, una scia luminosa solcò il cielo. «Una stella cadente!» gridai, puntando l'indice contro la volta scura.

David guardò nella direzione che stavo indicando, ma non riuscì a vedere niente perché come tutte le cose belle quella luce era sparita troppo presto e troppo velocemente. «Devi esprimere un desiderio», mi incitò.

Chiusi gli occhi e mi concentrai. Avrei potuto chiedere qualsiasi cosa; un secondo bacio da parte di David, un voto esagerato alla maturità, ma mi venne in mente una cosa soltanto. Volevo che Marco tornasse ad essere quello di prima. Il mio Marco. Il mio campione. Il mio migliore amico.

Quando ripresi a vedere, però, mi resi conto che avevo commesso un errore perché la mia richiesta sarebbe stata impossibile da realizzare, anche per le stelle.

David notò il mio turbamento, ma non disse nulla e lasciò che posassi la testa sulla sua spalla. Insieme continuammo a guardare il cielo, le stelle, i pianeti e l'universo intero. In silenzio. Io, David, tutti i nostri desideri e le nostre più grandi paure a far rumore.

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Con gli auricolari oppure a tutto volume sul telefonino? Non è importante come ascolterete questa canzone perché questa è La Canzone. ONE. U2. 1992.

Serena
 

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