Capitolo 6

È da un po' di tempo che mi sento più stressato del solito, sembra di trovarmi in un buco nero, pieno di rabbia e rancore. Solo in palestra riesco a sfogare un po' la mia rabbia, almeno mi tiene impegnato e non me la prendo con chi non c'entra, o peggio, gli oggetti in camera mia. Non sono riuscito a scoprire cosa c'è tra Watson ed Emy e questa cosa mi fa ammattire, non sono abituato a perdere, ho sempre ottenuto tutto ciò che volevo ma con Emy non funziona. Ora sono nella palestra della scuola e c'è pure la squadra di basket, forse dovrei parlare con Sam e costringerlo a confessare che intenzioni ha con lei. Senza indugiare oltre, sono già dietro di lui e il mio istinto vorrebbe sferrargli un pugno per aver condiviso un piccolo spazio con Emy, ma resto immobile.

«Watson!» lo chiamo.

«Mark, ciao.» mi saluta, mentre si volta.

«Conosci il mio nome?» chiedo accigliato.

«Certo, come tutti, d'altronde.»

Sapevo di essere popolare ma non immaginavo fino a questo punto. Sto per aprire bocca, quando Jake mi lancia la palla, che schivo prontamente. Quest'ultima finisce per colpire qualcuno, facendola cadere a terra svenuta. Sam corre verso la ragazza a terra e io faccio lo stesso, sgomitando tra la folla che si è creata. Cazzo, è Emy. Avrei dovuto prendere quella maledetta palla. Per quanto la odi e farei qualunque cosa per cacciarla via, non mi abbasserei a farle male fisico e nemmeno gli altri devono provarci, o se la vedranno con me. Sam la prende in braccio, impedendomi di constatare se sta bene. Osservo le sue mosse, dice qualcosa al professore e poi va via dalla palestra, con Emy svenuta tra le braccia. Il sangue mi ribolle nelle ma non ho potuto fare scenate e scatenare i pettegolezzi della scuola e del mio gruppo, avrebbero pensato che mi preoccupo per lei, invece devono credere che voglia soltanto bullizzarla perché è una debole. Senza indugiare oltre, esco dalla palestra, senza nemmeno chiedere il permesso. Devo sapere come sta, la pallonata è stata talmente violenta che le ha causato uno svenimento. Raggiungo immediatamente l'infermeria della scuola, la porta è socchiusa, così varco la soglia e li trovo dietro la tenda a confabulare. Emetto un sospiro di sollievo perché sta bene, ma mi infastidisco per la lo complicità. Raggiungo la tenda e la scosto di scatto, spiazzando entrambi.

«Watson, sparisci!» gli ordino con tono duro.

«Non voglio che Sam se ne vada!» controbatte lei.

«Io, invece, voglio che si levi dalle palle.» sbotto con aria di sfida.

«Ragazzi, tranquilli, me ne vado.» Sam si alza dalla sedia e si volta verso di me. «Non tormentarla.»

«Non ti riguarda quello che faccio con lei. Adesso vattene, sono già incazzato.»

Che ne sa lui di quello che accade tra me ed Emy? Non le avrà raccontato la nostra situazione familiare, spero. Mi da ascolto, lasciandoci finalmente soli. Mi guadagno un'altra occhiataccia da Emy e incrocia le braccia al petto. La osservo divertito, ma poi cambio immediatamente espressione, appena vedo il suo naso e lo zigomo arrossati. «Cosa voleva quel tipo?» le chiedo, cercando di restare calmo, ma lei resta in silenzio. «Rispondi, Emy!»

«Emily!» precisa. «Per te Emily, hai capito?»

Non riesco a restare serio, è davvero ridicola.

«Sei una povera scema.» la prendo in giro, cercando di infastidirla. Sta diventando davvero un osso duro, prima bastava uno sguardo minaccioso per farla parlare, ora mi risponde a tono. Dove ha trovato tutto questo coraggio? Mi sfida e la cosa quasi mi piace. Ma che cazzo penso? Ignora il mio insulto e volta il viso altrove, lasciando intravedere di più il gonfiore sul naso. Senza pensarci oltre, mi avvicino a lei e afferro il suo viso tra le mani, per guardare meglio. «Quella palla ti ha conciato proprio male, hai il naso gonfio.»

Continua a restare in silenzio, mentre i nostri occhi sono ipnotizzati da noi stessi e i nostri nasi quasi si sfiorano. Mi allontano immediatamente e mi mordo il labbro. Cosa diavolo stavo per fare? Sembrava come se non aspettasse altro che essere baciata. Deglutisco al solo pensiero e poi comincio a guardarla male, per cambiare la strana atmosfera che si stava creando, dopodiché esco dalla stanza, respirando di nuovo regolarmente.

Dopo le lezioni sono corso subito a casa, ignorando chiunque provasse a fermarmi, non mi andava di spiegare dov'ero. Purtroppo quando sono uscito dall'infermeria c'era Tiffany ed aveva un'aria davvero strana. Chissà cos'avrà pensato. Ignoro i pensieri assurdi e cerco di studiare, ma è difficile. Forse dovrei pagare una per delle ripetizioni? Sarebbe troppo umiliante. Mi sdraio sul letto e comincio a leggere la lezione di oggi. Che cosa assurda, la scuola.

Ormai sono chiuso in questa stanza da ore, cercando di studiare e credo che per oggi possa bastare. Sono quasi le otto e il mio stomaco comincia a brontolare, mi chiedo che fine abbia fatto mia madre, a quest'ora avrebbe già chiamato per la cena. Mi alzo dal letto e mi siedo sulla sedia vicino alla scrivania, afferrando il cellulare. Mentre sto per comporre il suo numero, bussano alla porta della mia camera e dalla sagoma credo di capire chi sia. La ignoro e riprendo a guardare il cellulare. La porta si apre senza il mio consenso e Emy varca la soglia, diventando immediatamente rossa alla mia vista, dato che indosso soltanto i boxer. Almeno si rifarà un po' gli occhi.

«Non ti hanno insegnato le buone maniere?» chiedo irritato, mentre mi volto per guardarla meglio.

«Sai, è difficile usarle con uno come te!»

Ignoro le sue parole e faccio l'unica cosa che mi riesce meglio; insultarla.

«Cosa vuoi, sfigata?»

Alza gli occhi al cielo e sbuffa.

«Volevo sapere se hai notizie della mamma, non la sento da oggi pomeriggio.»

Lei non è sua madre, perché si ostina a non capirlo? Se non fosse stato per i miei, starebbe ancora marcendo in quel fottuto posto. Mi alzo di scatto e mi avvicino tantissimo a lei, guardandola minaccioso e sperando di farle paura come un tempo.

«Non chiamarla mai più mamma, lei non è tua madre!» le dico a pochi centimetri dal viso.

«Vedi, caro fratellino...»

Sgrano gli occhi e le poso una mano sulla bocca per zittirla. Mi dà la nausea sentire quella parola uscire dalle sue labbra. Sta cercando di farmi irritare? Ci sta riuscendo benissimo.

«Non azzardarti a chiamarmi in quel modo.» quasi urlo.

Resta a fissarmi a disagio, dopodiché abbassa gli occhi verso il pavimento. Perché non piange come al solito? Perché non mi implora di lasciarla andare? Cazzo, non la capisco più. Odio l'effetto che mi fa, non riesco a tenerlo sotto controllo. Le libero la bocca e poi serro la mascella. Se non andrà via da sola, allora la caccerò io. Afferro le sue spalle e la spingo fuori dalla stanza, sbattendole la porta in faccia. Devo starle il più lontano possibile, sta succedendo qualcosa e non voglio che le cose vadano oltre.

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