Parte 1

La prima volta che ti incontrai avevo da poco iniziato il mio terzo anno di liceo.

Faceva caldo – dovrebbe essere illegale iniziare la scuola quando l'estate ancora non è finita, ma purtroppo così è – e fumavo una sigaretta, del tutto incurante delle regole dell'Istituto, comodamente sparapanzato sui gradini di metallo della scala antincendio. Ero madido di sudore dopo aver salito sei piani a piedi, di primo mattino, il fiato già reso corto dal tabacco che mi bruciava i polmoni, per presentarmi alla prima lezione di quel giorno: Figura disegnata, aula 64.

Il professore, come sempre, era in ritardo e cercavo di carpire ancora un po' di tranquillità, di snebbiare la mente, dopo la levataccia alle sei e mezza, due autobus, la colazione trangiugata al bar dietro la scuola, senza neanche darmi il tempo di percepirne il sapore sulle papille gustative.

Ne stavo approfittando nella speranza di permettere a quell'impudente alito di vento, che tentava di smorzare i trenta gradi di quel giorno, di asciugare le pozze di sudore che mi avevano scurito la maglietta, a quadri rossi, all'altezza di entrambe le ascelle e le spalle.

Non dovevo avere un'espressione simpatica, quel giorno – non che di solito fossi il clown della compagnia – ma dire che avessi la luna storta già alle otto e quindici del mattino mi sembra un eufemismo.

Poi arrivarono gli idioti, Ludovico e Vittorio, quelli che proprio non c'avevo voglia di vedere nemmeno nei miei momenti di maggiore felicità, quelli che mi davano il tormento da tre anni, ormai, quelli che mi snobbavano perché l'anno precedente ero stato l'unico – sui ventiquattro studenti della mia stessa classe – a non partecipare al fantasmagorico viaggio d'istruzione a Firenze, restando a rosicare come una vecchia megera a casa, da solo, in attesa che quella settimana finisse e con lei tutto il mio disagio adolescenziale nell'essere stato escluso, per l'ennesima volta, dalle attività extra scolastiche – e solo perché mio padre è sempre stato un tipo fin troppo apprensivo.

Gli stessi idioti che mi prendevano in giro perché il mio stile punk-rock... dava loro fastidio? Non l'ho mai ben capito nemmeno io.

Gli stessi che, un giorno, mi avevano aspettato fuori scuola, al termine delle lezioni, con l'intenzione di menarmi, perché avevo fatto la spia la volta in cui ebbero la "geniale" idea di mettere la colla ai lucchetti che chiudevano la cassettiera della prof. di Ornato disegnato.

Il fatto che mio padre, proprio quel giorno, avesse deciso di venirmi a prendere a scuola, devo ammettere che fu provvidenziale e mi salvò dal loro pestaggio.

Proprio i due idioti ti stavano trascinando con loro, tra risate sguaiate e pacche sulle spalle, fuori, sul pianerottolo delle scale antincendio dove stavo anch'io.

-Ehi, Cire'! Che ci fai qui?- mi aveva chiesto Ludo, come se la cosa lo interessasse davvero, sempre con quell'aria da angelo pronto a pugnalarti alle spalle.
-Accellero i tempi- gli avevo risposto, indicando la sigaretta che tenevo tra due dita, alludendo alla morte precoce che prevedevo mi avrebbe colto se avessi continuato sulla strada del tabagismo.

Ricordo la scena come se fosse ieri: Ludo sollevò un sopracciglio con scetticismo, unì le mani in segno di preghiera, e assunse un'espressione sdegnata, voltandosi a guardare Vitto, che ricambiava il suo sguardo con un certo disagio.

-Ma questo è cretino! Che diavolo ti mangi a colazione?-
-Di solito cornetto e caffè macchiato, ma non disdegno qualche lettura degli aforismi di Wilde, ogni tanto- gli avevo risposto io e fu lì che proprio tu scoppiasti in una fragorosa risata, lasciando i due idioti senza parole.
-Me la devo segnare, questa- fu la tua risposta e quella volta toccò a me restare basito: qualcuno che capiva le mie agghiaccianti battute?

Pensai che, come minimo, dovevi essere imparentato con qualche alieno.

-Ah! Lui è Davide Gemma, della 3ª B! Il nostro salvavita personale!- aveva esclamato Ludo, picchiandoti l'ennesima manata su una spalla. Tu ricambiasti la sua presentazione enfatica con un sorriso imbarazzato, fissandolo da dietro le lenti dalla montatura rettangolare, chinandoti un po' in avanti, come se ti stessi accortocciando su te stesso nel tentativo di nasconderti.

Così come può nascondersi un ragazzo di un metro e ottanta in mezzo al nulla, circondato da coetanei che, a malapena, gli arrivavano al petto.

-Vitto! Dillo a Ciresi!- e Ludovico aveva iniziato a ridere di gusto, mentre l'amico arrossiva e mi fissava con quel suo solito sguardo con cui non ho mai capito se mi stesse chiedendo scusa per la stupidità di Ludo, oppure se si vergognasse di se stesso per essergli amico.

-A Firenze ci siamo ubriacati come bestie!- aveva continuato Ludo, imperterrito, mentre io già lo ascoltavo a stento, totalmente stregato dal modo accondiscendente con cui tu continuavi a prestargli attenzione, con i tuoi occhi castani colmi di una pazienza sconfinata e quel sorriso dolce e un po' rassegnato, incorniciato da una barbetta irregolare e ancora fanciullesca.

"Cosa ci fa uno come lui con questi due idioti?" fu il mio primo pensiero, mentre Ludovico continuava con il suo esilarante racconto – esilarante soltanto per lui, ma non sarebbe potuto essere diversamente nemmeno se la storia fosse stata davvero divertente: era il narratore che, a prescindere, non era affatto piacevole da ascoltare.

-E questo cretino di Vitto stava lì a frignare per Giulia! "Giulia ti amo, Giulia ti amo!" e io che stavo così fuori che non ce la facevo più ad ascoltarlo!- e lì a ridere, come se avesse appena pronunciato la battuta più incredibile mai udita da orecchio umano. -"Mi ammazzo! Ma mi hai rotto, non ti ascolterò più!" gli ho detto, e mi stavo per lanciare dalla finestra! Ma Davide mi ha salvato... Davide è il nostro salvavita!-

Ricordo che alla fine di quel strampalato racconto assottigliai lo sguardo e ti fissai pensando testualmente: "A volte sarebbe meglio evitare di fare la cosa giusta. Avresti fatti meglio a lasciarlo cadere di sotto" e quel pensiero finì per mettermi tanta amarezza addosso, perché, in fin dei conti, sapevo che, se mi fossi trovato al tuo posto, anch'io avrei finito per salvare quell'idiota.

Poi l'ultima campanella prima dell'inizio delle lezioni richiamò la nostra attenzione e tu andasti via, senza neanche sapere il mio nome, congedandoti con un: -Ma i quadri non erano passati di moda?- indicando la mia maglietta, mentre io per te avevo già sviluppato una certa e malsana curiosità.

Nel giro di un paio di giorni scoprii che eri single, che insieme alla professoressa di Storia dell'arte – che avevamo in comune – facevi parte del comitato per la Propaganda dei diritti LGBTQ+ nella nostra scuola. Scoprii che eri stato bocciato due volte alle medie e che quindi avevi già diciotto anni, due più di me. Come se non bastasse, venni a sapere che l'episodio con Ludo e Vitto, nell'albergo di Firenze, ti aveva aperto le simpatie dei miei compagni di classe – con cui io a stento ero riuscito a legare abbastanza, nei tre anni precedenti, per non trovarmi da solo durante la ricreazione.

E poi seppi che odiavi il motivo a quadri dei vestiti; cantavi all'interno di un gruppo reggaeton che avevi fondato tu con altri due ragazzi; che la tua lotta per la parità di diritti indipendentemente dal proprio orientamento sessuale non era soltanto una delle tue buone azioni e che le ragazze le snobbavi perché, proprio come me, anche tu preferivi i maschi.

E poi, non ricordo come, ci trovammo la mattina a fare colazione insieme con i miei compagni, nel bar di fronte la scuola dove, prima d'allora, non avevo mai messo piede per lealtà nei confronti del proprietario di quello che si trovava alle spalle del nostro liceo, ma pur di passare un po' di tempo con te e cercare di attirare la tua attenzione, cambiai persino le mie abitudini.

Quella del bar fu solo l'inizio.

Smisi di indossare vestiti a quadri; iniziai a leggere Harry Potter perché lo amavi tu e via anche con il punk-rock e passai al reggaeton.

Iniziai a frequentare Ludovico e Vittorio, che frequentavano te e così con te potevo stare anch'io.

Iniziai a frequentare le sale biliardo il sabato pomeriggio, anche se da principio non sapevo della differenza tra stecca e palla. Molto semplicisticamente, non avevo idea di che diavolo fossero.

Dopo di quello fu la volta delle domeniche al Giardino Inglese, a non fare null'altro se non occupare la panchina sotto al Ponte. Chiacchierare di cose prive di senso e logica, bere una birra bollente, comprata al chioschetto all'entrata dei giardini, pagarla tre euro e cinquanta e maledirne il sapore a ogni sorsata.

Ma nulla di tutto questo era paragonabile all'emozione impagabile dei nostri sabato sera, quando arrivavo alla bettola al Centro Storico, tra puzza di urina e alcol; il caldo soffocante pure in inverno; i fumi di sigarette, canne, e quelli sparati da sotto il palco che riempivano l'aria, rendendola irrespirabile, mentre lampi di luce blu, rosso, giallo e verde si infragevano sulle pareti, tra i vapori densi, colpivano gli occhi, e la tua voce mi arrivava dentro le orecchie, scendeva bollente nel collo, facendomi rabbrividire, infiammandomi il sangue e aumentando i battiti del cuore.

È successo proprio durante una di quelle sere: io ai piedi del palco, tu sul palco.

Io ipnotizzato e tu sirena.

E ho capito che mi ero innamorato di te.

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