1. (prima parte)
Amo la periferia più della città.
Amo tutte le cose che stanno ai margini.
Carlo Cassola
La situazione precipitò giorno dopo giorno senza che nessuno potesse intervenire. Restavamo in balìa degli eventi, sconfitti da una monotonia omicida.
Eravamo riuniti a casa mia, fuori si scatenava il temporale e un vento gelido scoraggiava anche i più spavaldi ad uscire. Non avevamo voglia di andare al parchetto di zona con quest'acqua, non ci balenava in testa l'idea di aspettare l'autobus che ci portasse al centro commerciale e per cosa poi? Io e Massimiliano odiavamo gli sguardi diffidenti della gente, il loro modo di serrare la presa sulle borse o di attirare a sé il bambino di appena sei anni che non ne comprendeva ancora il motivo. Non facevamo nulla per meritarci un simile trattamento, eppure a loro bastava un solo sguardo per immaginare la nostra vita, per giudicare le nostre scelte troppo spesso imposte da una società che di quelli come noi se ne fregava da sempre. Loro si limitavano a guardare, non avrebbero capito mai…
Fiamma, al contrario nostro, ci sguazzava benissimo tra quelle accuse taciute. Ci aveva raccontato spesso del modo in cui era cresciuta, tra cene di beneficenza e inutili chiacchiere di circostanza. Ripugnava quel mondo costruito sulle apparenze e sulle menzogne, odiava i loro vestiti cuciti con le migliori stoffe sul mercato, i loro sguardi invidiosi, le loro lingue malevole.
Lei apparteneva a un altro mondo, ma era molto più simile a noi che a loro, nonostante avesse frequentato una scuola privata, nonostante avesse già trovato un lavoro.
Cecco, Massimiliano e Fiamma: avevamo diciannove anni, tante speranze e un futuro incerto.
Poi c’era Benedetta, la mia sorellina di diciassette anni che della vita aveva già capito abbastanza.
Ce ne stavamo seduti sul pavimento della nostra stanza a giocare a Risiko, dove i giudizi della gente non potevano ferirci. Stavano vincendo Fiamma e Benedetta, conquistando ad ogni turno almeno un territorio costringendo me e Massimiliano alla resa.
Finché non sentimmo delle urla provenire dal piano sottostante, ci stavamo divertendo. Ci scambiammo delle occhiate confuse, ma si sa: l’essere umano non è nato per farsi i cazzi propri, quindi ci dirigemmo al corridoio delle scale condominiali per sentire meglio cosa stesse succedendo.
<< Sei solo un bastardo e quella che ti scopi è soltanto una grandissima troia! >>.
La signora Pina, arzilla cinquantenne, era rossa in volto e sul collo mentre inveiva contro il marito di qualche anno più giovane di lei.
<< Ti prego, posso spiegarti. Non urlare così, ci stanno guardando tutti >> stava provando a calmarla lui con le mani protese in avanti, probabilmente nell’intento di parare qualche suo schiaffo.
<< Bene! Molto bene! Almeno tutti sapranno quanto fai schifo tu e quella puttana che si definiva mia amica! >> continuava lei come un fiume in piena.
Nessuno dei due l’aveva nominata, ma tutti supponevano una qualche tresca extraconiugale tra suo marito e Antonietta, una giovane vedova di quarantaquattro anni che, probabilmente, stava ascoltando da dietro lo spioncino della porta blindata. Effettivamente la signora Pina, con il viso rosso, i capelli scarmigliati e gli occhi quasi fuori dalle orbite, incuteva davvero spavento.
In un condominio come il nostro ne succedeva sempre qualcuna, c’era sempre qualcosa su cui le mamme spettegolavano sedute davanti a un caffè amaro. Una volta Giulia era stata abbandonata sull’altare. Un’altra volta, Maurizio e Giuseppe avevano litigato per il troppo chiasso che il figlio di quest’ultimo faceva quando rientrava tardi la notte. Un’altra ancora, Marina si era rivolta all’amministratore del palazzo perché Katia occupava sempre il suo posto auto. Insomma, ne succedeva una a settimana, ma almeno non ci si annoiava mai.
<< Ci siamo innamorati, non era previsto. Ma secondo te, se avessi voluto mi sarei presa tuo marito? >> le disse Antonietta, quasi supplicandola di comprendere, uscita giusto un minuto prima dalla sua tana.
A quel punto, Pina cercò di aggirare il marito per affrontare faccia a faccia la donna che aveva mandato all’aria dieci anni di matrimonio, ma lui le si parò davanti nel nobile tentativo di proteggere la propria amante dalla furia della moglie.
<< Fiamma, non è buona educazione origliare le conversazioni altrui. Torna subito a casa >> le ordinò la madre senza neanche degnarci di uno sguardo.
Miranda non tollerava che la sua unica figlia avesse stretto una così intima amicizia con noi, era convinta che “chi andasse con lo zoppo, imparasse a zoppicare” e quindi temeva che potesse prendere una cattiva strada. Incolpava me, Massimiliano e Benedetta sempre: quando la figlia rincasava tardi, quando le rispondeva male e non le obbediva, era persino a causa nostra se Fiamma si era rifiutata di scegliere una buona università.
<< Non sto origliando, ci siamo preoccupati sentendo così tanto chiasso >> le rispose senza neanche degnarla di uno sguardo.
Non ci voleva un genio a comprendere che tra madre e figlia i rapporti erano davvero molto tesi, che l’una non sopportava l’altra, per un motivo o per un altro.
<< Ti ho detto di tornare a casa. Subito! >> le disse afferrandola per un braccio.
Fiamma ci aveva ammonito con lo sguardo di non immischiarci e si era lasciata trascinare dentro l’appartamento senza un briciolo di gentilezza.
<< Se quelle sono le buone maniere dei ricchi, preferisco essere considerato un cafone >> disse infastidito Massimiliano, dopo aver sentito la porta dell’appartamento chiudersi.
Sia io che Benedetta annuimmo, avevamo smesso da mesi di provare a farci conoscere e a rassicurarla che a Fiamma non sarebbe accaduto nulla. Ci disprezzava, semplicemente perché non eravamo facoltosi come loro, perché ancora non avevamo trovato un lavoro, perché i nostri genitori erano umili.
Pina continuava a urlare, ogni tanto spintonava il marito perché vederselo davanti proprio le mandava il sangue al cervello, diceva.
Noi ce ne eravamo tornati a casa, ma avevamo accantonato Risiko dal momento che Fiamma se n’era andata.
<< Vai a studiare che domani hai l’interrogazione di storia. Se prendi un brutto voto, mamma se la prende con me e non mi va di starla a sentire >> avevo detto a Benedetta che di studiare, quel giorno, non ne aveva proprio voglia.
<< Non mi va, lo so quasi a memoria >>
<< E allora studia qualcos’altro. Non voglio che tra un paio d’anni ti ritrovi come noi che non riusciamo a trovare un cazzo di lavoro! >>
Ero stato duro, ne ero cosciente e avevo scaricato su di lei la mia afflizione. A dirla tutta, mi sentivo un rifiuto umano... Benedetta aveva abbassato i suoi occhi color nocciola e aveva deglutito per poi annuire, alzarsi dal pavimento e andare a studiare sul divano con il libro sotto l’ascella. Si chiuse la porta alle spalle, dopodiché sospirai arrabbiato.
<< Non ti sembra di essere stato troppo duro con lei? >> mi domandò Massimiliano.
<< Sì, ma voglio che prenda un diploma e poi faccia richiesta per una borsa di studio. Non vedi come stiamo? Che cazzo di futuro c’aspetta se non riusciamo a trovare una merda di lavoro? >> avevo dato voce alle preoccupazioni che da qualche tempo si erano insinuate in me.
Massimiliano non mi rispose, perché sapeva anche lui quanto avessi ragione. Erano tre mesi, avevamo iniziato a consegnare i nostri curriculum nel mese di agosto, ma la risposta era stata sempre la stessa.
“Avete già fatto qualche esperienza?” ci chiedevano sempre.
“No, ma impariamo subito. Ci siamo appena diplomati” rispondevamo noi mostrando il nostro sorriso più fiducioso.
“Vi telefoneremo noi semmai per un colloquio”.
Ma il telefono non squillava mai…
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top