BLUE LIGHT

- 25

||REINA||


"13/10 h23:00

Carrer Alzines

Ci vediamo lì"

Continuo a fissare il bigliettino poggiato sulla scrivania con le indicazioni della gara di sta sera, un insieme di pensieri sconnessi mi frullano in testa e non riescono a farmi ragionare chiaramente. Il jet leg con il Giappone ancora da scontare, le valige da disfare, la gamba ormai libera e operata ma che dopo il weekend di gara è comunque allo stremo.

Eric lo dirà a Marc.

Eric lo dirà alla stampa.

Ed io non posso fargli questo, non posso gettarlo in un caos mediatico.

Quindi devo correre, devo darla vinta ad Eric.

Se in casa non ci fossero mia madre e mio fratello probabilmente in questo momento starei gridando, ma mi limito ad afferrare il bordo del tavolo, chiudere gli occhi e prendere un respiro profondo.

Solo un'altra gara e basta. Solo sta notte.

In fondo sono altri soldi, devo solo stare attenta a non farmi quasi ammazzare come l'ultima volta.

In ospedale sono stanchi di montarmi bulloni nelle varie parti del corpo, e se dovessi saltare un'altra gara di Moto3 probabilmente mi caccerebbero ancor prima di stracciare il contratto a fine stazione.

«Fanculo» mormoro nel buio.

Mi lascio andare all'indietro quando con le gambe sfioro l'inizio del letto, poi afferro il telefono e vado alla ricerca della chat di Barbara, restando a fissarla per un lasso di tempo indefinito.

Le ho detto che non avrei corso, che avevo chiuso.

Non ne abbiamo bisogno, mi ha risposto Abbiamo metà dei soldi che ci servono, ci bastano due sponsor e copriamo tutti i costi per il nostro nuovo team.

Io le ho creduto davvero, esattamente come lei crede in me. Ma Barbara non sa che qui non si parla più di soldi, o del nostro team nel campionato di motocross, né si parla della mia reputazione, ma di quella di Marc.

Se i danni si ritorcessero solo contro di me me ne fregherei.

In fondo sapevo che Eric avrebbe cercato di fregarmi in qualche modo, prima o poi.
Pensavo avrebbe iniziato a non smezzare con me i soldi delle vincite, o che magari avrebbe cercato di spingermi in gare sempre più difficili per alzare la posta in gioco, ma arrivare a minacciarmi per correre è troppo anche per lui. Minacciarmi toccando la mia unica debolezza.

Devo farlo.

Blocco il telefono, che mi restituisce la mia foto da campionessa di MX come sfondo e toglie dalla mia visuale la chat di Barbara.

Questa volta credo di doverlo fare da sola.

L'orologio sul comodino segna le 22.15, mi costringo a lasciare il letto e vado alla ricerca del completo nell'armadio.Con una brutta sensazione all'altezza dello stomaco infilo i pantaloni con le protezioni, sopra il reggiseno sportivo faccio aderire una maglia termica e il giubbotto da corsa con altrettante protezioni.

Tutto rigorosamente nero, come anche il casco che afferro dalla mia collezione e che tengo sotto il braccio mentre esco dalla mia camera.

Provo ad affacciarmi in camera di mia madre per vedere se è sveglia, ma è crollata tra i suoi cuscini con la luce sul comodino ancora accesa. Silenziosamente mi allontano, scendendo le scale un gradino alla volta con il ginocchio della gamba in convalescenza che fa i capricci.

Mi dà fastidio qualsiasi cosa faccia, tranne quando vado in moto.

Tiro la porta con il piede quando sono ormai nel vialetto, cercando di camminare con il casco incastrato tra le cosce e le mani impegnate a legare i capelli in una treccia.

Nascondo i capelli nel casco, attorcigliandoli poco sopra la nuca, metto in moto e parto alla volta dell'ennesima meta sperduta nella periferia di Cervera. Tutte aree già testate in vent'anni di motocross in questa piccola città, anche se con il buio hanno tutte un altro effetto.

A moto spente, gli OutRiders sono in gran parte già sparsi nello sterrato accanto alla strada principale quando arrivo.Pensavo di poter passata più inosservata, invece anche tra un'altra decina di moto nere con gente vestita di nero, Eric riesce ad individuarmi senza problemi e cammina verso di me non appena mi approprio del mio spazio vitale.

«Sapevo saresti venuta» esclama, con un sorrisino soddisfatto incorniciato dalla barba sfatta di qualche giorno, mentre poggia le mani sul manubrio della mia moto.

«Ora per farmi venire devi minacciarmi, come ti sei ridotto»

Eric, se dovesse essersi offeso per la battuta, non lo dà a vedere. Anzi, negli occhi si accende una nuova luce che conosco bene.

«Se vuoi puoi passare da me dopo la gara, e sta sicura che lì non dovrò minacciarti»

Questa volta sono io a ridere, mentre il suono della mia voce rimbomba nel casco e rende il resto del mondo ovattato. Era strano che non avesse ancora fatto proposte del genere fino ad ora.

«Non vorrei spezzare il tuo piccolo cuore» rispondo.

«L'hai già fatto una volta» controbatte, alzando una mano verso il mio viso. Faccio per fermarlo, quando mi accorgo che le sue dita stanno semplicemente assicurando la cinghia del casco sotto il mento.

«Tuchè»

Eric non dice altro, non fa commenti sulla mancanza di Barbara, non dispensa consigli sulla situazione concorrenti di oggi.
Incrocia le braccia e si ferma in piedi al mio fianco, in attesa del momento in cui il ragazzo con la maschera prenderà posto sull'immaginaria linea della partenza.

Pochi attimi prima dell'inizio della gara, mente cerchiamo di prenderci i nostri spazi con le moto tutte allineate, butto un'occhiata a sinistra e riconosco il casco del tizio che l'ultima volta mi ha fatto volare dalla moto.

Abbiamo un conto in sospeso, e forse farebbe meglio a non dimenticarselo.

Si sente il solito scoppio, inserisco la prima in un millisecondo e apro il gas, fiondandomi in mezzo alla bolgia di moto che si allarga per piegare all'interno della prima curva a destra.

Non è difficile arrivare tra i primi nella prima tornata, si fa una selezione naturale tra chi non ha abbastanza fregato, abbastanza polso, e chi ha imparato a lottare.

Alla fine siamo sempre i soliti ad arrivare al turno a cinque, a quattro, a tre.

E durante quest'ultimo che sento la pressione maggiore. Parto al centro, a sinistra ho una Yamaha col motore super modificato, la marmitta bucata, a destra quello stronzo che aveva deciso di farmi fuori.

Questo giro è più personale che mai.

Già dalla partenza mi butto sul lato, cercando di stringere sulla destra, cercando il contatto con la moto al mio fianco.

Lui risponde, facendo scorrere la ruota posteriore mentre si piega in curva fino a toccare la mia. Mentre lui non sembra risentire della mossa, io perdo del tutto il controllo della moto.

Ma resto in sella, accelero, lo riprendo.
Non mi frega così.

Riesco a superarlo dopo poco, sfilandogli davanti con maestria e forse in modo fin troppo pulito.

Respiro una volta lì davanti, senza nessuna ruota davanti che alza il terriccio o gas di scarico ad intasare le narici.

Dura poco però.

Lungo l'unico rettilineo del percorso, a due curve dal traguardo, butto un'occhio alle mie spalle giusto in tempo per vedere che il mio sfidante mi è alle costole, esattamente come sento il rombo del motore dell'altro accanto a me.

Nel cross non c'è gioco di scie, ma come se fossimo in pista mi inghiottono entrambi, chiudendomi in un sandwich, schiacciandomi.

Arriveremo insieme alla curva, e poi probabilmente ci schianteremo se nessuno dei tre frenerà prima.

Mentre sono concentrata sulla strada davanti a me, cercando di pensare al quadruplo della velocità alla ricerca di un modo per passare la curva per prima senza finire per terra, il mondo si illumina di blu.

Ora, dopo vent'anni passati a guidare moto, ho la prontezza e il sangue freddo di non lasciare che la cosa mi destabilizzi, restando aggrappata al gas senza battere ciglia.

Per un attimo credo di aver avuto un'allucinazione.

Poi però, il blu torna a farsi vedere. E ancora, e ancora. Accompagnato poi dal suono di una sirena che, riuscendo a giungere alle mie orecchie nonostante il casco e il rombo dei motori, suppongo sia piuttosto vicina.

Le moto spente vicino alla linea di partenza, gli squalificati, i meccanici, in pochi secondi diventano operativi e cominciano a vergere in un caos totale di rumori e movimenti.

Sento come se la mente avesse afferrato ciò che sta succedendo, mentre il corpo non risponde ai comandi e semplicemente si dirige verso l'arrivo.

Mi rendo conto che il ragazzo sulla destra ha inchiodato e cambiato direzione, buttandosi nella sterpaglia laterale.

Il mio rivale invece continua a tirare al mio fianco, finché quasi insieme tagliamo il traguardo. Non c'è nessuno però a dirci chi ha vinto: sono tutti impegnati a scappare.

Inchiodo, nonostante forse dovrei correre. Mi guardo attorno.

Due pattuglie della polizia hanno bloccato la strada da un lato, ma una terza sta arrivando esattamente nella direzione nella quale stanno correndo tutti.

Catturo lo sguardo di Eric, disorientato, forse dispiaciuto dalla situazione, ma sempre il solito codardo. Da lontano, apre la bocca come se potessi sentirlo, dopo di che fa un giro su se stesso e comincia a correre.

Metto la prima e comincio a scappare anche io, quando noto che una delle due macchine ferme al posto di blocco ha cominciato a spostarsi. Vogliono chiuderci in una morsa.

Cerco di uscirne, copiando il ragazzo che prima si è gettato nella sterpaglia. Ci sono un altro paio di moto qui e ci muoviamo nella stessa direzione, lontani dalle strade che portano in città.

Resta calma. Resta lucida mi ripeto, brancolando nel buio e costringendomi a non lasciarmi distrarre da niente.

Persino il mio cuore riesce a mantenere un battito costante.

Almeno finché lo sterrato, da essere buio, si illumina a giorno.

Un fuoristrada in mezzo al niente accende i fari e la sirena, ed è qui che capisco di essere fregata. Mi guardo attorno, c'è un'altra moto al mio fianco, ferma ad osservare la scena. Non so chi si celi dietro il casco, ma di certo nessuno viene a fare queste gare senza essere disperato.

Chissà se è mai stato in prigione.

Io però so solo che non voglio andarci.

Punto lo stivale per terra e mi piego verso l'interno, ruotando a centottanta gradi con la ruota davanti puntata nel terreno e l'altra ad alzare polvere. E quando ho il manubrio dalla parte opposta alla macchina, accelero e fuggo via.

Sento rumori, dietro e davanti a me. Frenate brusche nel fango, suoni metallici, il tutto immerso in questo paesaggio di periferia abbandonato illuminato ad intermittenza dal blu della sirena.

A un certo punto c'è una macchina che viene verso di me, saltando sulle buche del terreno.

Furba, cambio subito direzione e corro verso il niente e corro, corro, corro davvero, finchè quasi non cado per colpa di un masso che non sono ovviamente riuscita a vedere. Questo fa guadagnare terreno alla macchina che continua ad inseguirmi, sento il suo motore, e improvvisamente ne sento anche un altro.

Preannuncio la fine ancora prima di vedere davvero il fuoristrada di prima tagliarmi la strada, costringendomi ad inchiodare e quasi a catapultarmi sul cofano della macchina.

Dietro di me si ferma l'altra macchina. Questa volta non c'è via di scampo.

«Scendi dalla moto» gridano dall'interno del veicolo.

Dal lato del passeggero del fuoristrada scende un poliziotto alto e piazzato, con un manganello in mano, che resta ad osservami mentre spengo la moto e faccio scivolare il cavalletto fin quando torno con i piedi per terra.

«Togliti il casco» ordina il poliziotto, facendosi più vicino.

Scuoto la testa con dissenso e alzo le mani in segno di arrendevolezza.

«Ho detto toglilo» intima.

I miei occhi vedono un po' tutto offuscato e il panico sta prendendo il sopravvento. Ho corso per evitare che si sapesse cosa faccio, ma ora che mi hanno preso, ora che mi riconosceranno, tutti sapranno.

E sarà la fine.

«TOGLILO» grida nuovamente. E questa volta la sua voce mi fa tremare le ginocchia.

Chiudo gli occhi per un attimo, ispiro.

Pazzesco come in quel momento, come un il flashback di un film, l'unica cosa che riesco a vedere in loop dietro le palpebre sono le immagini di quella volta che ero in moto con Marc e scappammo dalla polizia. Lui riuscì a non farci prendere. Forse è vero che è più bravo di me, anche se poi passammo una notte in ospedale.

In quelle immagini, in quel ricordo, trovo la forza per portare le dita sul gancetto del casco e sganciarlo. Sfilarlo. Lasciare che la treccia cada sulla mia schiena e che ciuffi di capelli disordinati tornino ad incorniciarmi il viso.

Vedo una leggera sorpresa negli occhi dell'agente ora, ma questo non lo ferma dall'afferrarmi le mani, portarmele dietro la schiena e farle strofinare con qualcosa di freddo. Manette.

Ci mancava solo questo.

Il poliziotto mi accompagna alla macchina, scortandomi con una mano sulla nuca e l'altra attorno ai polsi finché non prendo posto sul sedile posteriore. Accanto a me c'è un ragazzo, probabilmente quello con il quale scappavo prima. Ha il collo tatuato e i capelli rasati quasi a zero, non avrà più di venticinque anni.

«Prima volta?» mi domanda con un sorriso macabro.

Devo avere un'espressione terrorizzata.

«Non parlate o peggiorerete la situazione» afferma il poliziotto dal lato del guidatore.

«Questi non hanno ancora capito che si stanno rovinando la vita» continua l'altro.

Quando arriva un camioncino per poter portar via le moto accende la macchina e parte alla volta della centrale.

Quei momenti sono confusi, li vivo come in un sogno, come se non fosse la mia vita. Ed in effetti non lo è, sono sempre stata una spericolata, una che non si tira mai indietro a niente, una di quelle che "prima o poi finisci nei guai", ma non ci sono mai finita davvero. Prima di questo momento.

La centrale di polizia è gremita di gente, ragazzi e uomini con tute da cross e capelli disordinati in attesa di sapere cosa succede dopo. O forse loro lo sanno, forse ci sono abituati.

La saletta è sui toni del giallino, c'è una scrivania lunga con dietro due agenti e file di panche per l'attesa. Quando mi accompagnano in mezzo agli altri mi tolgono le manette e mi lasciano sedere.

Tengo la testa bassa, sciogliendo velocemente la treccia nella speranza che i capelli possano coprirmi meglio il viso. Non mi importa che sappiano che sono una ragazza, meglio. Mi importa che non sappiano chi sono.

Solo dopo parecchio tempo dò un'occhiata in giro, alla ricerca di Eric. E lui ovviamente non è qui.Sono stata una stupida a credere che questa storia, le corse clandestine, i soldi delle scommesse, sarebbero finite nel verso giusto.

Uno alla volta, un agente afferra uno di noi e lo scorta lungo un corridoio sul quale non ho visibilità. Non sanno i nostri nomi, quindi non possono chiamarci.

Quando è il mio turno sento gli occhi di tutti addosso, ma continuo a guardare giù, a nascondermi. Le mani fredde del poliziotto tengono una la mia spalla, l'altra i polsi legati, anche se ormai senza manette.

Persino il poliziotto sembra incuriosito, e si muove con una delicatezza che non ha usato con gli altri. 

Mi accompagna lungo un corridoio asettico fino a spingermi all'interno di una stanza con le finestre vetrate chiuse da vecchie veneziane marroni. Sulle pareti ci sono bandierine e riconoscimenti, la stanza è dominata da una scrivania e dietro, su una sedia di pelle e con una faccia abbastanza sconsolata, c'è una poliziotta.

Non che importi tanto.

Resto in piedi davanti a lei, spendendo parole centellinate per ogni suo domanda.

Che no, non ho i documenti. Che si, sono maggiorenne. E no, non sapevo a cosa andavo incontro.

Fine.

Le dò le mie generalità.

L'agente Torres, o almeno così leggo sul cartellino che indossa sulla divisa blu, mi enuncia i capi d'accusa e le relative sanzioni.

Afferro solo multa, reclusione, ritiro della patente. Le parole chiave. 

Aggiunge anche che se collaborassi potrei avere uno sconto della pena. Non parlo comunque, so di poter avere un avvocato e che non dichiarando niente sarà più facile tirarmi fuori dai guai dopo.

«C'è una cauzione da pagare o dovrai restare qui sta notte. Puoi fare una chiamata» spiega l'agente Torres prima di congedarmi, poi smette di scrivere cose su di un foglio che mi allunga e alza lo sguardo per incrociare il mio «Perché?» mi domanda.

Evidentemente sa chi sono.

Ricambio solo la sua occhiata, senza muovere altri muscoli. Dopo di che vengo riaccompagnata nel corridoio, questa volta però fino ad arrivare ad un telefono leggermente isolato dal resto.

Davanti all'apparecchio appeso al muro mi rendo conto di non sapere di chiamare. E peggio, di non avere troppa scelta, anche perché non ho con me il cellulare.

Vorrei chiamare Barbara, ma non conosco il suo numero a memoria e non avrebbe questi soldi in mano subito. 

Potrei chiamare casa Marquez, chiedere di Alex, lui mi aiuterebbe, ma non posso permettermi di farlo venire qui. Troppa visibilità.

La verità è che mentre vaglio le possibilità so già chi dovrei chiamare, e dove trovarla. Combinazione, è anche uno dei pochi numeri che conosco a memoria. E' solo che mi costerebbe tanto.

Ho bisogno di Camilla in questo momento, e sono sicura di trovarla a casa di Marc.

«Devo chiederti un favore» dico al poliziotto che continua a starmi alle calcagna, intento a fissarmi quasi con apprensione. Io devo avere un aspetto di merda e lui è palesemente alle prime armi, visto anche il volto da ragazzino e il modo impacciato col quale mi sta attorno. «Se dovessi passarti il telefono, potresti chiedere di una certa Camilla? E dire che è importante?»

Lui non batte ciglio, sembra quasi non avermi sentito, finché dopo essersi guardato attorno non mi fa un leggero cenno con la testa.

«Chiami Marc?» si azzarda a domandare.

Annuisco.

Lui fa lo stesso.

Compongo il numero della casa di Barcellona, so che è tardi ma so anche come Marc soffra il jet leg, considerando che è tornato ieri dal Giappone dovrebbe essere più che sveglio in questo momento.

In effetti è Marc a rispondere dopo cinque o sei squilli.

«Pronto?» domanda, la voce leggermente roca. E non è per il sonno, la conosco quella voce.

Sentirla è un colpo basso, profondo, che mi fa portare una mano davanti alla bocca come se potessi vomitare da un momento all'altro. Tutto ciò che è successo sta notte mi colpisce improvvisamente, più forte di un pugno nello stomaco.

Mentre gli occhi diventano gonfi e si arrossano mi costringo a staccare la cornetta del telefono dal mio orecchio e la passo al giovane poliziotto, il quale cerca di rimanere indifferente anche se la pena nei suoi occhi lo tradisce.

«Dovrei parlare con Camilla, è lì? E' urgente» recita lui alla perfezione.

Io nel frattempo devo poggiare la schiena al muro per non svenire, e una volta lì mi lascio scivolare fino al pavimento.

Il poliziotto mi ripassa la cornetta, piegandosi leggermente verso di me. Dopo di che fa segno verso un distributore d'acqua, però scuoto la testa. Non è dell'acqua che ho bisogno.

«Pronto» è Camilla a rispondere questa volta, ed io mi costringo a ridarmi una dignità.

«Sono Reina, ti prego non dire il mio nome. Fingi che sia qualcosa per lavoro» mormoro, tenendo la cornetta del telefono così vicina che le mie labbra finiscono per sfiorarla mentre parlo «Sono in guai grossi»

C'è un momento di silenzio dall'altra parte, durante il quale il mio cuore sembra prossimo a scoppiare.

«Jamie non preoccuparti per l'orario, dimmi tutto» dice poi all'improvviso Camilla.

Si! Jamie, il capo organizzazione eventi RedBull. Geniale, lui è solito chiamare ad orari improbabili.

«Sono alla centrale di polizia di Cervera, ho fatto un casino. Mi servono mille euro da usare come cauzione o dovrò passare la notte qui. Mi serve anche un avvocato. E che blocchi la stampa, qualsiasi notizia che possa contenere il mio nome relativamente a questa vicenda. E che cerchi Eric»

«Che hai combinato sta volta?» mi domanda lei, accompagnando la domanda però con una risata. Come se Jamie gli stesse raccontando qualcosa di divertente.

La mia stima nei suoi confronti sta crescendo, anche se ho appena avuto la conferma che Marc se la porta a letto. Del resto l'ho sempre saputo che sarebbe successo.

«Ti spiego dopo, aiutami per favore»

«Dammi una mezz'ora e provvedo» afferma «non fare cazzate, non le voglio le ballerine di can can alla presentazione della nuova moto, però puoi dire si a quell'evento dove vogliono Marc e Dani vestiti da tori di peluche»

Camilla chiude la chiamata, mentre scuoto la testa sentendo l'ultima parte. Forse è vero che oltre a volersi fare Marc, ha cercato di essere mia amica per tutto questo tempo.

Mi rialzo da terra, ricomponendo il telefono.

«Grazie...» dico verso il poliziotto quando torna ad afferrarmi per spostarmi da lì.

«Juan» risponde lui.

«Grazie Juan»

L'attesa di Camilla è straziante.

In una stanza che assomiglia tanto ad una grande cella, senza orologi, senza telefono, sola con gente poco raccomandabile, non che in questo momento io lo sia di più, attendo inesorabilmente che la persona più improbabile di tutte venga a salvarmi.

Mai avrei pensato di essere così felice di vederla come quando il mio nuovo amico Juan viene a chiamarmi dicendo «La cauzione è stata pagata, puoi uscire»

Ripercorro il percorso al contrario, tornando in quell'ingresso ora completamente vuoto tranne per Camilla e un agente dietro la scrivania.

«Hai un aspetto di merda» è la prima cosa che mi dice. Lei invece è perfetta nella sua semplicità, come sempre.

«Ti abbraccerei se io non fossi io e tu non fossi tu» le rispondo, affiancandola davanti alla scrivania.

Firmo un paio di fogli, rilascio le mie generalità, l'ennesimo poliziotto mi dice che mi richiameranno entro ventiquattro ore per i dettagli del caso, che nello stesso lasso di tempo mi arriverà la multa e l'atto di comparazione. E di contattare un avvocato.

Respirare l'aria pulita non appena esco dalla centrale sembra come rinascere. Mi prendo un momento di pace nell'esatto attimo dopo la tempesta e poco prima del caos che verrà.

«Che notizie hai per me?» domando a Camilla, la quale mi allunga silenziosamente un pacchetto di sigarette per poi accenderla quando ne infilo una tra le labbra. Ne accende una anche per lei.

«Eric ha detto di non contattare neanche l'avvocato. Che non servirà. Se la vede lui per tutto»

«Non so se dovrei fidarmi di lui»

«Credo che tu non abbia scelta a questo punto, a meno che non voglia farti qualche mese dentro» risponde lei, schietta «Mi spieghi come sei finita qui?»

Aspetto a rispondere, sbrogliando i pensieri nella nuvola di fumo che esce dalle mie labbra screpolate.

Perché sono finita qui?

«Perché avevo bisogno di vincere» è la mia risposta, più di petto che di testa. Avrei potuto giustificarmi, semplicemente ammettere di aver fatto una cazzata, ma il motivo più profondo è questo. Dopo i soldi, dopo la sfida, mi mancava essere la migliore. «Non puoi capire» aggiungo.

Camilla infatti mi lancia uno sguardo di traverso, puoi scuote la testa.

«No, non posso» ammette «mi sembra solo una follia»

Lascio che un respiro si trasformi in una leggera risata, guardando Camilla con un ghigno mezzo divertito. Lei fa una smorfia a sua volta.

«Come sapevi di trovarmi da Marc?» domanda poi, cominciando a scendere i gradini della centrale verso il parcheggio sulla destra.

«L'ho sempre saputo» le rispondo, affiancandola «E purché lui sia tranquillo e felice, mi va bene così»

Non sto mentendo, fa solo male l'idea di saperlo felice con qualcun'altra. Invece poi Camilla dice la cosa giusta.

«Sarò sempre la seconda scelta»

Ed un po' allevia il dolore.

Camilla sblocca le portiere di una BMW bianca e mi fa segno di entrare. Mi infilo nel posto del passeggero e chiudo per un attimo gli occhi, mettendomi comoda. E' stata una lunga giornata.

«Domani ti ridò i soldi della cauzione, e ti porto anche quelli per pagare i giornalisti. Non voglio il mio nome da nessuna parte» riesco però a mormorare.

Resto con gli occhi chiusi e Camilla non risponde, immagino abbia annuito. Mette in moto la macchina e facendo retromarcia esce dal parcheggio buio. Poi però anziché andare avanti sembra fermarsi.

Apro gli occhi per capire cosa sta succedendo, ed il mio cuore si ferma quando oltre il parabrezza, illuminato dai fari, catturo la figura di Marc.

I nostri sguardi si incrociano e nonostante siamo separati da un vetro sento tutta la forza, tutta l'irruenza dei suoi occhi. Mi schiaccia contro il sedile, impedendomi quasi di respirare.

«Esci dalla macchina» quasi grida, mantenendo lo sguardo fermo e le braccia incrociate sul petto. «Reina, esci subito da questa macchina»

Non voglio, ma se anche volessi non riuscirei a muovermi, totalmente in preda al panico.

Camilla mette a folle, tira il freno a mano fa per aprire la sua portiera e mettere una gamba fuori, ma Marc alza una mano verso di lei.

«Tu è meglio che stai ferma lì, faremo i conti dopo» la ammonisce, con un tono freddo che nasconde una rabbia incalcolabile. Dopo di che si muove per venire dal mio lato della macchina e allunga una mano per aprire lo sportello.

«Marc calmati, non è successo niente» cerca di richiamarlo Camilla, ma lui sembra scollegato.

Il vento fresco, che prima avevo agognato, ora mi colpisce come una frusta e mi fa rabbrividire.

«Marc» mormoro il suo nome, ma ne esce un soffio.

«Sapevo che c'eri tu dietro quella chiamata, per questo ho seguito Camilla» comincia Marc, parlando a raffica «non voglio sapere perché sei qui, non mi interessa in chissà quali casini ti sei messa, perché tanto sai fare solo danni, volevo solo chiederti se per favore puoi smettere di rovinare la mia vita, smettere di intrometterti. Non puoi chiamare a casa mia nel bel mezzo della notte, non puoi chiedere a Camilla di tirarti fuori dalla merda. Non puoi trascinarci tutti con te nel baratro»

Fisso Marc senza sapere cosa dire, cosa fare, o come continuare a respirare dopo che ha cominciato a gridare le ultime parole. Neanche le lacrime che sento raccogliersi dietro i miei occhi riescono ad uscire, bloccandosi lì, costringendomi a sbattere le palpebre.

Sapesse perché ho corso oggi.

Lui sembra voler dire altro, ma si porta una mano tra i capelli, stringe la mascella e mi dà le spalle. Si allontana, torna alla sua moto parcheggiata poco più avanti, e solo allora riesco a tornare a respirare, ma sento comunque un peso sul petto quasi insopportabile. La delusione.

L'ho deluso ancora, esattamente ciò che volevo evitare oggi. Esattamente il motivo per il quale ho corso.

«Andiamo» dice Camilla, dopo aver seguito con lo sguardo i movimenti di Marc. Lui si è messo a cavalcioni della sua moto ed è volato via, per chissà dove.

«Non sei costretta ad accompagnarmi» le rispondo, abbassando la testa «puoi inseguire lui»

«Credo che gli faccia più piacere sapere che ti ho lasciato al sicuro a casa, piuttosto che appiedata da sola in mezzo alla strada. Non me lo perdonerebbe, anche se pensa il contrario»

Riusciamo finalmente ad uscire dal parcheggio della centrale, imboccando la strada principale che porta verso il centro di Cervera. Sono ormai le due di notte di un martedì sera qualunque e la città è immersa nel suo solito silenzio. Mi chiedo se siano la tranquillità intrinseca di questi piccoli posti a generare fuorilegge come gli OutRiders, come Eric. Come me.

«Tu estremizzi i suoi sentimenti, c'è un limite a tutto. E noi l'abbiamo superato da sempre» tengo le riflessioni su Cervera per me, mentre continuo il nostro discorso su Marc. E così strano parlarne con lei.

«Non li estremizzo, ci convivo con i suoi sentimenti» controbatte Camilla «i suoi sentimenti per te»

Non vola un'altra parola da lì a casa mia, sarebbe stata superflua e indesiderata. La ringrazio con un cenno quando accosta davanti al cancello, lei toglie la mano dal cambio e mi mostra il pollice.

Ora lei tornerà da Marc, io sprofonderò nell'oblio di questa notte alla ricerca di un modo per mettere a posto le cose. Da sola.

Mi chiedo se sia giusto che le cose vadano così.

Per ora, sono troppo stanca, troppo distrutta persino per dare una risposta a me stessa.


🙆🏼‍♀️🙆🏼‍♀️🙆🏼‍♀️

Bene, vi ho fatto aspettare una vita per questo capitolo ma COME SEMPRE ACCADE pensavo dovesse essere uno di quei capitoli "facili" da sbrigare e poi così non è stato.

La settimana scorsa vi ho chiesto su IG se voleste un evento Trash in questo capitolo di THRONE, un evento trash alla "fast&furios con un un finale da telenovelas spagnola perché tanto qui sono tutti spagnoli" e qui mi cito.

ovviamente, siccome ormai ci vogliamo bene, il sondaggio è finito esattamente come mi aspettavo.

Sono fiera di voi. Per chi non si sente parte della decisione, andatemi a seguire su instagram come "donna_wattpad" che parliamo, ridiamo e piangiamo insieme. E condividiamo foto di Marc.

Ad ogni modo, come stavo dicendo, l'evento trash ossia la polizia, la gara, dovevano essere la parte predominante con tanto di risse in centrale e Eric che risolveva un po' tutto MAFIA style. Così non è stato, perché ve pare che MARC NON DOVEVA ESSERE PRSENTE?

Cioè, volevamo davvero negargli questa possibilità di gridare contro Reina?

E commentate qui con un cuoricino nero se anche voi odiate comunque Camilla (🖤). Bugia in realtà un pochino sto imparando ad apprezzarla, a darle il suo spazio. Vabbe fatemi sapere voi che io sono di parte.

Io scappo, ci sentiamo presto.

RAGA VI VOGLIO TUTTE PRONTE PER LA PROSSIMA GARA, ARMATE DI SANTA PAZIENZA CHE SE NO MI UCCIDETE.

Si vola a Philip Island. E se qualcuno ha reminiscenze della gare del 2015, iniziamo a scaldarci.

Vi voglio bene, alla prossima.

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