AFFECTION

Its affection, always
You're gonna see it some day.

My attentions, for you
Even if it's not what you need

-199

||MARC||

Il parco chiuso è in sovraffollamento, la mia moto è parcheggiata e mentre riecheggia nelle mie orecchie il mio nome gridato da centinaia di persone mi appresto a lanciarmi oltre la transenna, tra le braccia del mio team.

«Ce l'abbiamo fatta! Abbiamo vinto il sesto!» esclama Santi, con un sorriso da orecchio a orecchio sotto la folta barba. Mentre mi mantengono in aria allungo una mano e gli scompiglio i capelli.

Nell'euforia più totale i ragazzi mi rimettono per terra, continuando però a saltare come dei pazzi. Ed io con loro. Sono ancora un ragazzino del resto. Sono anche una leggenda però, da ora e per sempre, dopo aver vinto il sesto mondiale di fila.

Nonostante il caos, la mia attenzione viene catturata da un bambino con la maglietta del mio team che si sporge dalla transenna, cercando di farsi notare.

«Papà» grida, allungando la manina come per voler afferrare la mia.

La mia mente non capisce cosa stia succedendo, il mio corpo invece scatta velocemente verso il bambino.

«Papà» mi chiama di nuovo, mentre protraggo le braccia fino ad afferrarlo e portarlo contro il mio petto. Lui si aggrappa al bordo della tuta e mi sorride, mostrando i suoi fantastici e unici due dentini.

Gli scompiglio i capelli scuri con le dita, poi lo sollevo in alto, facendolo saltare di gioia con me. Il senso di disorientamento dato dal non sapere chi sia questo bambino viene sopraffatto dall'euforia del momento.

Ma mentre tutti saltano e gridano, una figura è ferma e appoggiata con i gomiti al limite del parco chiuso. In silenzio osserva me e il bambino, un bel sorriso sulle labbra come non lo vedevo da tempo.

«Anche oggi niente complimenti?» le dico, avvicinandomi alla ragazza più bella del Paddock.

Reina scuote leggermente la testa, facendo ricadere sul suo viso ciocche di capelli biondi.

«Ancora non ti rassegni, Marquez?» risponde con il suo solito tono di sfida. Il bambino tra le mie braccia scalpita per andare da lei. Lo accontento, prima però strappo un bacio a quelle labbra che conosco meglio di me stesso e che continuo a cercare, a desiderare, ogni giorno della mia vita.

«Sei un vero campione» mormora poi però lei contro le mie labbra, passando una mano tra i mei capelli. «Ti amo»

«Mamma» si intromette il bambino, ancora tra le mie braccia, allungando le dita per sfiorare la guancia di Reina.

Sorrido. All'improvviso è tutto chiaro.

Un rumore però si intromette nella scena, superando persino le voci del mio team che festeggia.

Un cellulare che squilla, e che nessuno sembra sentire. Tranne me. Che non ho il cellulare.

Apro gli occhi dopo pochi attimi.

Di quella bella e inquietante scena è rimasto solo il bip bip del mio Iphone, nascosto sotto il cuscino.

«Pronto?» rispondo, senza controllare chi mi stia chiamando. In fondo lo so già.

«Marc» come sospettavo, la voce allarmata di Elèna si diffonde nelle mie orecchie. Getto via le coperte e mi metto a sedere sul letto. «Io non vorrei disturbarti, ma non so cosa fare»

«Elèna non devi farti problemi, sto arrivando» mormoro, poggiando definitivamente i piedi per terra. Sono giorni che va avanti così. Sembra andare tutto bene, poi Reina ha un crollo e non vuole ascoltare ragioni.

Siamo tornati a Cervera dopo che l'hanno dimessa, pensavamo che stare un po' a casa, con la sua vera famiglia, non solo con me, l'avrebbe fatta sentire meglio.
Non ha funzionato però.

Tanto che all'una di notte mi metto addosso un paio di pantaloni della tuta, un maglione ed un giubbotto e lascio casa mia, per salire in moto e andare da lei.

Mia madre è mezza addormenta sul divano del salone quando esco, mi guarda senza dire niente. Questa situazione non fa bene a nessuno, ma ho promesso di stare accanto alla mia ragazza e non ho intenzione di ritrattare.

È una fredda notte di fine Aprile qui a Cervera, ma non mi lamento mentre aggrappato come sempre al gas dirigo la mia Honda da enduro fino a casa Del Gado. Fino a pochi giorni fa per trovare Reina mi bastava allungare il braccio nel letto. È strano ora dover addirittura prendere la moto. Credo di essermi abituato troppo presto ad averla sempre intorno, ed è un male. Ora sento la sua mancanza anche quando siamo a meno di un chilometro di distanza.

Elèna apre la porta di casa prima ancora che parcheggi la moto nel vialetto, avendo sentito probabilmente il rombo del motore. Mi tolgo in fretta il casco e la raggiungo sull'uscio, sporgendomi per lasciarle un bacio sulla guancia.

Non ha perso il suo bel sorriso, la sua capacità di non farti pesare i brutti momenti, ma la stanchezza è palese nei suoi occhi, nei suoi lineamenti corrucciati.

Reina non se n'è mai resa conto, ma il suo carattere forte è colonna portante della forza di tante persone. Quella di sua madre. Persino la mia. Vederla in questo stato fa venire meno le nostre certezze.

«Grazie Marc» mormora Elèna, poggiando le mani sul mio avambraccio e facendomi strada di sopra. Mentre la osservo nella penombra resto come sempre strabiliato da quanto sia simile fisicamente a Reina, per poi essere così diverse caratterialmente.

Lo stesso nasino piccolo, il viso squadrato, le labbra carnose. Per il resto però, Reina è tutta suo padre.

Mi chiedo quanto questo pesi ad Elèna. Aver perso il marito, ma ritrovarsi una figlia che parla e si comporta esattamente come lui.

«Non mi devi ringraziare» le rispondo mentre saliamo la stretta rampa di scale.

Il piano di sopra è del tutto illuminato, la porta della camera di Reina è aperta, così come quella di Elèna. Chiuse sono il bagno e la stanzetta di Mati.

Non faccio fatica ad immaginare dove si trovi Reina.

Continuo da solo fino alla porta di del bagno, prendendo un grosso respiro mentre poggio la testa contro il legno freddo.

«Reina» mormoro, partendo con un tono pacato. Ormai ho imparato il protocollo.

L'unica risposta è un insopportabile silenzio.

«Reina» ripeto, battendo ora piano il pugno contro il legno. Riesco ad ottenere un lieve mugugno, che almeno certifica il suo essere ancora viva.

Quando comincio a bussare in maniera più pesante non posso fare a meno di notare il tremolio nelle mie mani strette a pugno. Non andremo avanti ancora a lungo così.

«Reina, butto giù la porta»

Aspetto un secondo in silenzio una risposta che, però, non arriva. Così comincio a prendere a spallate la porta.

Elèna mi osserva silenziosa, distruggendosi le unghie tra i denti. Ed impassibile resta anche quando con un brutto rumore riesco a far cedere la serratura, spalancando la porta. Il sollievo funge da antidolorifico per il dolore alla spalla.

Reina è nella vasca, con le ginocchia contro il petto. I capelli bagnati appiccicati sulle spalle e lungo la schiena, il suo viso è nascosto tra le gambe.

Il suo corpo è scosso dai singhiozzi.

Mi prendo un attimo per cercare la calma, ne ho bisogno per convincermi di essere capace di gestire tutto questo. Che non perderò la testa.

Anche se, per lei, l'ho già persa. Per lei perderei tutto.

«Ehi» mormoro, entrando nel bagno. Piccole gocce di sangue sono sparse sul pavimento, attorno al water. La dottoressa aveva detto sarebbe successo per i primi giorni, piccole perdite che segnano l'assestamento dell'utero, ma di giorni ne sono passati cinque e spero vivamente che tutto ciò arrivi ad una fine.

Perché ogni volta che succede, Reina va in crisi.

Non credo che lei volesse un bambino, non ora almeno. Credo piuttosto che ciò che la mandi fuori di testa sia l'idea di aver avuto qualcosa di morto dentro di sé, sentirsi in colpa per non essere stata più attenta, per essere stata in qualche modo colpevole nell'uccisione di una piccola vita. C'era qualcosa dentro di lei, c'era un battito, e che lo volesse o meno, ora c'è solo silenzio e tanto sangue.

Mi piego lentamente verso il bordo della vasca, portando una mano sulla sua testa per accarezzarle i capelli bagnati.

«Dovresti lasciarmi» mormora, mentre la sua testa si abbandona però contro il mio palmo, contrastando le sue parole.

«Neanche quando sarai tu a lasciarmi» le rispondo, con la voce leggermente spezzata.

Mi allontano da Reina giusto il tempo di afferrare un asciugamano dall'armadio, poi la aiuto a mettersi in piedi e la avvolgo nel telo bianco.

Reina lascia che i capelli le coprano il viso, così che io non veda le lacrime che continuano a scorrere sul suo viso. Come se possa davvero non notarle. Come se ognuna di esse possa non far male come una pugnalata nello stomaco.

«Tieniti» le ordino, dopo aver costretto le sue braccia a stringersi attorno al mio collo. Passo l'altro braccio dietro le sue ginocchia e la sollevo, lasciando come traccia del nostro passaggio un sentiero di gocce d'acqua dal bagno fino al suo letto.

In silenzio e con estrema delicatezza le tampono l'asciugamano addosso, accarezzando la sua pallida pelle nuda. Non avrei mai pensato un giorno di averla spoglia davanti ai miei occhi e non sentire quella sensazione nel basso ventre, quella voglia di saltarle addosso e farla mia che invece ha caratterizzato i miei giorni fino... all'incidente.

Eppure ora la sfioro quasi timoroso, con il sesso come ultimo dei miei pensieri e dentro la sola voglia di tenerla stretta tra le mie braccia e sperare che, come una volta, i problemi non vengano a bussare quando ci siamo io e lei.

È affetto.

È amore.

Mi prendo cura di lei.

Reina mi aiuta ad infilarle un paio di slip e alza le mani così che possa farle scivolare una t-shirt lungo il busto. Quando scosto le coperte del letto per farla sdraiare e scivolo conseguentemente al suo fianco sembra più tranquilla.

«Ti sto facendo del male» mormora, con la guancia contro il cuscino, rannicchiata all'estremità del letto opposta alla mia.

«Sopravviveremo» rispondo, fermo nel buio a fissare un soffitto che sembra pronto a crollarci addosso. Non sono mai stato vulnerabile come lo sono ora.

Reina è qui eppure sembra distante anni luce, non so più neanche come toccarla, come tirar fuori la sua tristezza per prendermene un po', o magari anche tutta.

Non so cosa stia succedendo nella sua testa, forse l'aborto è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso dopo anni di emozioni forti, forse semplicemente qualcosa dentro di lei si è spezzato.

Allungo una mano tra le lenzuola, così da poter raggiungere il suo braccio. Lo sfioro con delicatezza prima e quando non oppone resistenza la tiro verso di me, costringendola a poggiare la testa sul mio petto. I capelli umidicci mi solleticano la pelle, mi bagnano la maglietta. O forse sono le sue lacrime.

«La ginecologa dice che dovrei aspettare, che potrebbe essere traumatico, ma non ho intenzione di perdermi la prossima gara» mormora un'infinità di respiri dopo. Forse sono passati minuti, forse ore.

Sorrido.

Lei deve immaginarlo, perché si rigira tra le mie braccia fino a sdraiarsi a pancia in giù per guardarmi nella penombra, poggiando il mento sul mio petto.

Con una mano le accarezzo la testa, reprimendo la voglia di dirle che forse farebbe meglio a non correre, non è questo ciò di cui ha bisogno.

Ha bisogno di sentirsi forte. Lei è forte.
Ho promesso che l'avrei protetta, ma non è dalle moto che devo salvarla.

«Ed io ti amo per questo»

Rimango sorpreso dalle mie parole. Era più un pensiero, una constatazione a me stesso. Eppure questa consapevolezza ha preso il sopravvento ed ora sono completamente a nudo davanti a lei, senza neanche più l'ultima protezione che avevo per non sembrare uno sfigato innamorato perso di una ragazza per la quale darebbe di tutto. Farebbe di tutto.

E sopratutto, sono colpito da quanto facile sia stato ammetterlo.

Inaspettatamente si leva una risata sommessa, seguita dalla mano di Reina che mi dà uno schiaffetto sulla guancia.

«Lo dici sono perché ti faccio pena in questo momento» risponde lei, con un tono di voce leggero e tranquillo e scherzoso come non lo sentivo da qualche giorno.

Anche il mio cuore è più leggero in questo momento. Felice, nonostante tutto.

In risposta le afferro le spalle e la spingo via da me, facendola rotolare sul materasso, fingendomi scocciato. Mentre lei si mette a sedere tra le lenzuola ne approfitto per allungarmi verso il comodino e accendere l'Abat-jour.

Voglio vedere il suo viso senza lacrime, voglio vedere il suo sorriso

«Sai, credo dovremmo uscire e sbronzarci una sera, prima di partire per Jerez. Bere una bottiglia di vino a testa e fingere di essere dei normali ventenni» propongo, poggiando la schiena contro il muro e strizzando gli occhi per abituarmi alla nuova luce.

Quando li riapro Reina è lì, davanti a me, con le gambe nude incrociate ed una maglietta slabbrata addosso, i capelli in disordine, gli occhi ancora gonfi. Ed è comunque la mia persona preferita al mondo.

«Tu che vuoi sbronzarti prima di una gara, senza pensare agli allenamenti che sballeresti e alla tua dieta? La situazione è davvero così tragica?» mi sfotte, arricciando le labbra.

«Credo di averne bisogno per dimenticare tutte le volte che da ora in poi mi rinfaccerai questo momento, di aver mollato per primo, di averti detto ti amo per primo»

Scherzo, passandomi una mano tra i capelli e fingendomi imbarazzato, quando in realtà non lo sono neanche un po'. Non con lei.

Reina osserva attentamente il mio gesto, poi si lascia sfuggire una risata, scuotendo ripetutamente la testa.

«Che c'è?» le domando, ancora sorridendo.

Lei non risponde, piuttosto poggia le mani sul materasso e gattona lentamente fino a portare il suo viso a pochi millimetri dal mio.

Tutti i bei propositi sul non sentire l'ormone crescere con lei mezza nuda sul letto sono andati a farsi fottere, ma i pensieri sconci restano nella mia testa ed io rimango fermo ad osservare i suoi occhi, mentre lei si perde nei miei.

«Ti rinfaccerò per sempre di essere stato il primo a dirlo» mormora, mentre il suo respiro mi solletica le labbra e il suo sguardo si fa sagace «ma tu potrai controbattere ricordandomi di quando ti ho risposto dicendo che anche io ti amo, ti amo dalla prima volta in cui abbiamo condiviso il podio a sette anni, da quando ci rotolavamo nel fango della pista a dieci anni, da quando abbiamo iniziato a correre in selva a quattordici anni, ti amo ogni volta che litighiamo, ogni volta che ti odio, ogni volta che ti grido contro, ti amo da sempre e credo, purtroppo, che ti amerò per sempre»

«La tua confessione è stata decisamente più imbarazzante della mia»

«Fottiti Marquez»

Ci fiondiamo l'uno sulle labbra dell'altro, senza sapere chi è stato il primo questa volta.

Baciarla ora è diverso.

Ora che so cosa significa vederla crollare davvero, ora che so di essere forte abbastanza da poterle stare accanto sempre, ora che la stringo tra le braccia con una nuova consapevolezza.

Anche Reina può crollare.

Ed io devo essere in grado di raccattare i pezzi. E nessuno sforzo sarà mai troppo, non se poi posso baciarla così, sentirla così, la sua pelle calda sotto le mie dita, le sue labbra umide sulle mie.

Fottimi tu, vorrei risponderle, ma mi trattengo. Non è ancora il momento, nonostante il suo corpo sembri suggerire il contrario.

Possiamo aspettare ancora qualche giorno per tornare a fare l'amore. Del resto ha detto che mi amerà per sempre, ed io sono convito che l'amerò per sempre. Abbiamo tutta una vita insieme davanti.

💁🏼💁🏼💁🏼💁🏼💁🏼💁🏼💁🏼💁🏼💁🏼💁🏼💁🏼💁🏼💁🏼💁🏼💁🏼
Ve giuro che è l'ultimo capitolo sdolcinato.

Ahahahhaha basta, questo è stato troppo per me.
Allora, prima di tutto SCUSATE per il ritardo, al solito, l'Università mi ha risucchiato.

Ad ogni modo, credo mi prenderò queste vacanze per scrivere un po' così da poter essere più regolare negli aggiornamenti. Diciamo che mi prendo una specie di pausa invernale ahahhaha

In realtà da ora in poi la situazione della storia cambierà, e soprattutto velocizzeró di molto gli eventi. Non voglio scrivere un nuovo Young God, niente ventimila capitoli.

Vi do un bacio, che sono in after da due giorni per studiare e ora che ho finalmente dato l'esame posso dormire.

Grazie se siete ancora qui con me ❤️ al next chapter!

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top