3. Le luci della città e le storie delle stelle

Soundtrack — You're on your own, kid
Taylor Swift

🏙️

Il pomeriggio porta vento e pioggia a New York. La linea del cielo si scurisce, carica di un temporale lontano che minaccia Manhattan. Io e Sophie siamo ancora allo Stardust, stacchiamo tra un altro paio di ore. Dopo quanto è successo stamattina, siamo per lo più rimaste in silenzio a servire i tavoli, gente che entrava per la pausa pranzo e studenti che ordinavano enormi tazze di caffè e ciambelline alla glassa di mirtillo, guardando gli schermi dei loro computer.

Non c'è stato bisogno di dire a Sophie cosa mi fosse accaduto, cosa avessi pensato. Lei aveva già capito. E non mi ha chiesto di parlarne. Perché sa che pensare a mio padre fa aprire una ferita non ancora risanata. Una ferita che ho paura non guarirà mai.

Ma adesso sento davvero di doverle dire della Summit, perché se perdo quest'occasione probabilmente non avrò mai il coraggio di farlo. Il locale è tranquillo per il momento, ci sono soltanto un paio di ragazze che scrivono freneticamente ai loro computer sorseggiando una tazza bollente di caffè, le cuffiette nelle orecchie e il tavolino di legno pieno di libri e fogli di appunti. Si sono rintanate in un angolino con le sedute imbottite, le lucine appese alla parete che incorniciano i loro volti pensierosi.

«Ehi» dico a Sophie, giusto per rompere il ghiaccio. Lei alza il viso dal cellulare e mi guarda con un sorriso che le fa brillare gli occhi.

«Tutto bene?» chiede.

Se dovessi rispondere sinceramente, no non va tutto bene. Ma per il momento mi accontento della vita che sto vivendo, una vita in cui ho perso una delle persone più importanti. Annuisco e mi avvicino a lei. «È da stamattina che devo dirti una cosa».

L'espressione di Sophie si fa seria e, quando anche lei si avvicina, una lunga ciocca di capelli le ricade sugli occhi. Se la porta subito dietro all'orecchio, iniziando a torturarla con le dita. Fa sempre così quando è nervosa.

Quando eravamo piccole e i suoi genitori stavano avviando le procedure per il divorzio, lei trascorreva la maggior parte del tempo a casa mia. Continuava a slacciarsi le trecce rosse per poi ricomporle con estrema cura.

«Alex si è licenziato, ma ha proposto a me di fare domanda per un posto da giornalista. Stamattina, prima di venire qui, sono passata a firmare tutti i documenti» dico senza quasi respirare, perché è il solo modo che conosco per liberarmi di un grande peso, parlare tutto d'un fiato.

Sophie mi guarda con i suoi grandi occhi azzurri, e per un momento non apre bocca. «Alla Summit?» chiede semplicemente. «Credevo che non ti interessassero gli intrighi dell'Upper East Side, o la moda, o i gossip da divanetto» è evidentemente sorpresa. E non posso certo biasimarla.

«Ed è così... però sono una giornalista. O, almeno, vorrei diventarlo» mi correggo. «Credo che mi farebbe comodo avere qualche tipo di esperienza».

Sophie continua a guardarmi come se non mi riconoscesse, o non credesse che le parole che ho appena detto sono effettivamente uscite dalla mia bocca.

«Comunque, non è detto che mi prendano» aggiungo subito, abbassando lo sguardo. «Ho fatto solo la domanda per il colloquio, chissà quante altre persone vorranno lavorare alla Summit» istintivamente penso a quel ragazzo, quello contro il quale mi sono scontrata per ben due volte. Penso ai suoi capelli, lucidi alla luce del sole e morbidi, agli occhi allegri che mi guardavano divertiti, al sorriso. Il suo sorriso. Così luminoso, come se avesse l'intera potenza del sole dentro di sé.

«Ti prenderanno» sussurra Sophie, costringendomi ad abbandonare quei pensieri. Le sono grata, perché mi sento per un attimo in imbarazzo: non conosco quel ragazzo, probabilmente non lo rivedrò più. Quindi non ha senso pensarci.

«Sei arrabbiata?» chiedo.

«Cosa? No» risponde immediatamente la mia amica. Un sorriso comincia a farsi strada sul suo bel viso. «Certo che no, Lily. Sono davvero felicissima, è una grande opportunità per te e saranno molto fortunati ad averti».

«Grazie, Sophie» mentre parlo lei spalanca le braccia e me le getta intorno al collo. Io rido di conseguenza, ma ricambio l'abbraccio.

«Questo vorrà dire che potrai partecipare ad eventi esclusivi. Oddio, ti inviteranno alle sfilate al Palace» dice, e la sua voce si alza di qualche tonalità. Le ragazze sedute dall'altra parte del bar alzano, per un momento, gli sguardi dai loro computer.

«Sophie, non mi hanno neanche ancora richiamata. E non è detto che lo facciano, il signor Montgomery vuole soltanto i migliori».

«Il signor Montgomery è nel giro da parecchi anni, sa riconoscere il talento quando lo vede e presto si accorgerà di te» la sua positività è talmente evidente che persino io faccio fatica a smorzarla. «Dobbiamo andare a festeggiare» decide ed io non riesco ad oppormi.

«D'accordo» le concedo. «Ma dovrei tornare presto a Brooklyn, devo scrivere una lettera di presentazione da inviare alla Summit».

«Non preoccuparti» dice lei facendomi l'occhiolino. Ma so già cosa vuol dire: Sophie mi porterà in un locale underground di New York in cui ci sarà pessimo alcool e qualche gruppo che suona dal vivo. Sembra una vera miseria, ma in realtà amo questo genere di locali: senza troppe pretese e in cui, spesso, si nascondono veri talenti del rock. Il lato nascosto e misterioso di New York.

E così, finito il turno, camminiamo per le strade di una Manhattan luminosa e sfavillante, con le luci dei grattacieli che sembrano dominare il cielo. L'acqua dell'East River luccica sotto il manto di stelle. New York è ancora rumorosa, lo è sempre, con i taxi e le auto che sfrecciano sull'asfalto e la gente che si riversa per le strade.

Sophie mi tiene per il braccio e mi porta fino all'East Village: ha rispettato la mia richiesta di restare vicine a Brooklyn, ma ha anche optato per una serata movimentata. Camminiamo fino al Lotus, un locale sulla dodicesima che non conosco, ma la cui scritta al neon spicca come un faro nel buio più totale della notte.

Dentro, l'aria è pesante e c'è un fortissimo odore di anelli di cipolla fritti. Sophie si fa spazio fino al bancone, dove ordina due drink che non riesco nemmeno a sentire. Oltre il vociare della gente, in fondo alla sala è sistemata una piccola pedana rialzata, dove un ragazzo dai capelli biondi sta suonando un pianoforte malridotto.

Non è certo questo quello che intendevo con 'veri talenti del rock', ma la sua musica è comunque orecchiabile. Non che qualcuno sembri davvero interessato ad ascoltarlo, o a lui: è in piedi sul palco, con le dita che si muovono frenetiche sui tasti bianchi, i capelli che gli coprono gli occhi e una luce che lo illumina solo a metà.

La ragazza del bar ci serve due bicchierini e Sophie mi guarda con un sorriso enorme sulle labbra.

«Solo uno» supplica.

«Va bene» mi avvicino e dopo aver brindato, mandiamo entrambe giù la vodka. L'alcool mi brucia in gola, ma lo sento a stento quando mi rendo conto che il ragazzo sul palco ha appena terminato la sua canzone.

«Fantastico, siamo arrivate giusto in tempo» commenta Sophie, ma non riesco a capire di cosa stia parlando.

Poi la sento.

La voce di Caleb.

Mi volto nel momento in cui lui sale sul piccolo palco e sistema la chitarra.

Inizia a suonare e, questa volta, tutti si fermano a guardarlo, interessati alla sua musica. E come potrebbero non esserlo: lui ha un dono.

Quando ero piccola restavo con la faccia attaccata alla porta della stanza di Alex solo per sentire Caleb suonare. Era uno di quei momenti che accadeva solo sporadicamente, perché per lui la musica era il rifugio, l'appiglio a cui aggrapparsi per evitare di precipitare. Col tempo, ha imparato a fare della musica il suo posto. Un luogo nel quale non lascia entrare nessuno per paura che possa distruggerlo.

E adesso lo sento pizzicare le corde della sua vecchia chitarra con una leggerezza quasi disumana. Dentro questa canzone c'è tutto il suo passato, tutta la sua vita e tutto ciò che lo reso esattamente chi è in questo momento. È una melodia dolce, ma forte al tempo stesso. Leggera e delicata, ma la sento premere sul cuore come un macigno.

Caleb ha gli occhi chiusi mentre suona, come se non gli importasse di niente che non siano le sue dita sulle corde della chitarra, come se questa melodia riesca a trasportarlo in un altro mondo; un mondo tutto suo in cui a chiunque è preclusa l'entrata.

Ma quando apre gli occhi, la luce bianca del riflettore gli inonda completamente il viso, facendo risplendere il verde delle iridi. Sono talmente luminose che sembrano quasi trasparenti, come stelle infuocate.

«Sorpresa» mi sussurra Sophie all'orecchio ed io non posso far altro che sorridere.

Proprio in quel momento, Caleb smette di suonare. Il locale rimane in silenzio per un attimo, poi tutti esplodono in un applauso che mi risuona nelle orecchie.

Caleb scende dal parco con un sorriso dolcissimo sul volto e si avvicina a noi. «Allora, vi è piaciuto?»

Come risposta, Sophie lo abbraccia e ordina un altro giro di drink. Credo che sia già brilla.

«È stato magnifico» dico. Adesso non c'è più nessuno sul piccolo palco a suonare, ma nel locale si è comunque diffusa una musica leggera che fa da sottofondo al continuo vociare della gente e al vetro dei bicchieri che si scontrano.

«Lo avevo detto anche ad Alex, ma ha preferito restare a casa» commenta Caleb. So che non andrebbe mai a dirglielo, ma è il suo migliore amico. Avrebbe voluto che ci fosse.

«Non fa niente, sei stato grande. Ci saranno mille altre serate» Sophie si è seduta sullo sgabello accanto a Caleb e sorseggia il secondo drink della serata. I suoi occhi azzurri passano velocemente da me a Caleb.

«Sta cercando un nuovo lavoro» mi ritrovo a giustificarlo. Inevitabilmente, questo mi fa pensare che anch'io dovrei tornare a casa e dedicarmi alla mia lettera di presentazione per la Summit. «Adesso devo andare».

«Ti accompagno?» si offre Caleb.

«Non preoccuparti. È meglio che tieni d'occhio Sophie».

«Guarda che sono qui. E sto bene» protesta lei.

«Sì, certo. Come no. Andiamo, rossa. Prendiamo una bottiglietta d'acqua» la prende in giro Caleb. Riesce a farla alzare, anche se la sorregge per un braccio. «Ci vediamo», mi dice, prima di condurla dall'altra parte del locale, dove si respira meglio.

«Chiamaci quando arrivi a Brooklyn» biascica Sophie.

Li saluto con la mano e poi esco. Fuori l'aria è gelida, ma decido comunque di non prendere il taxi. Camminare mi aiuta a schiarirmi le idee, a pensare meglio. Anche se, questa volta, mi fa tornare in mente mio padre.

Il suo sorriso, i suoi occhi, le sue mani. Lo rivedo in ogni più piccolo centimetro di New York, nei grattacieli che tanto amava ammirare, nelle luci della città che diceva sempre che risplendevano come intere galassie. Negli incroci delle strade, che diceva somigliare alle ramificazioni di un cuore solitario, linee immaginarie che ci avrebbero sempre collegati, ovunque andassimo.

Lo rivedo nelle stelle, lontane e irraggiungibili, offuscate dal fumo di Manhattan. È stato lui a insegnarmi a riconoscerle: ricordo quando ci sdraiavamo tutti e quattro sulla spiaggia di Montauk e papà inventava storie sulle stelle, sulle anime legate e sugli amori impossibili. Alex e mamma si stancavano presto di ascoltarlo, ma io rimanevo aggrappata a lui, guardando affascinata quelle stelle che dipingevano nella mia mente scenari vividi e straordinari.

Papà declamava poesie sulla notte, sulla luna mutevole. Citava Shakespeare e Milton. Ricordo che, una volta, anch'io provai a fare lo stesso.

'Quando non sarai più parte di me ritaglierò dal tuo ricordo tante piccole stelle, allora il cielo sarà così bello che tutto il mondo si innamorerà della notte'. È sempre stata la mia parte preferita di 'Romeo e Giulietta' perché credevo di aver trovato un significato nascosto in quelle parole. Io, che amavo già la notte e tutte le sue stelle.

Mi bastava aspettare che calasse il buio e alzare lo sguardo verso l'alto per trovare la mia ispirazione, per trovare mille storie diverse.

Adesso è più difficile; questa citazione mi fa quasi male, perché penso a quanto intensamente si possa amare una persona e quanto poco basta per spezzarti completamente il cuore. Tutte le cose che amo fare le amo soltanto perché è stato mio padre ad insegnarmi ad amarle. Ed è incredibilmente più difficile ora che non c'è più.

Era notte quando ricevemmo la telefonata da parte dell'ospedale; Alex era agli Yale e a casa c'eravamo soltanto io e la mamma. Ricordo che quella sera guardai ancora una volta il firmamento luminoso, pregando con tutta me stessa che non fosse vero, che quella non fosse la mia storia, che ci fosse qualcos'altro. Qualcosa che non si concludeva con un ricordo ritagliato, con la morte di papà.

🏙️

Il nostro loft è immerso nel buio quando entro, ma vedo comunque la luce della scrivania nella stanza di Alex accesa.

«Sono tornata» dico, buttando sul tavolo le chiavi.

«Ti ho lasciato la cena in frigo» si affaccia mio fratello dalla porta. «Com'è stato Caleb?»

«Fantastico. Dovevi esserci» dico mentre esamino la cena. Alex ha ordinato indiano, ho già perso l'appetito.

Quindi decido semplicemente di prepararmi una tazza di tè con dei biscotti. Porto tutto nella mia camera e mentre aspetto che la bevanda si raffreddi almeno un pochino, mi faccio una doccia veloce e metto in ordine tutto il casino. Accendo il computer e aspetto che l'ispirazione mi giunga dall'alto dei cieli.

Non ho mai avuto difficoltà a scrivere, ma ormai è diverso. Tutto quanto è diverso.

«Dovresti premere i tasti del computer per scrivere» commenta Alex. «Dico, sai. Tanto per dire» si siede al bordo del mio letto e mi guarda da dietro le lenti antiriflesso. Indossa i pantaloni della tuta e la maglietta di Star Wars che gli ho regalato ormai anni fa.

«So come si fa, idiota».

«Non essere acida».

«Hai ordinato indiano. Lo sai che non mi piace».

«Si, d'accordo. Ho commesso un errore» dice, alzando le mani in segno di resa.

«Ne stai commettendo molti ultimamente» mi pento subito di aver detto una cosa simile. Dopotutto è mio fratello. Sono felice che abbia trovato il coraggio di rinunciare al lavoro alla Summit solo per cercare qualcosa che lo appaghi veramente. Purtroppo, le parole uscite dalla mia bocca non sono state esattamente queste. «Mi dispiace» mi affretto ad aggiungere. «Non intendevo questo».

«Lo so, non fa niente» Alex fa spallucce, poi si alza e torna nella sua stanza. «Dovresti pensare a quanto sarebbe fiero di te papà in questo momento».

Vorrei dirgli qualcosa, ma lui è già andato via ed io sono di nuovo qui a fissare la pagina vuota del mio computer. Ma forse Alex ha ragione.

Forse mi basta ricordare tutte le cose che mi ha detto mio padre per ricordarmi chi sono. Per ricordarmi che amo scrivere e che, soprattutto, amo il giornalismo. La verità che racchiude in sé e l'immediatezza con la quale la trasmette. La semplicità delle sue parole e la profondità dei temi che tratta.

Le parole si riversano quasi da sole, riempiendo le pagine e il mio cuore. Quando mi sento abbastanza pronta, invio la mia lettera all'indirizzo che mi ha lasciato Abby questa mattina.

Non posso sapere se quello che ho scritto è ciò che si aspetta il signor Montgomery, se è abbastanza da permettermi di lavorare alla Summit NY magazine. Ma sarebbe abbastanza per mio padre, è abbastanza per me.

🏙️

Nick's pov
Le luci del locale mi danno alla testa e la musica è troppo forte. Avrei voluto restare a casa con mio padre, ma Carter mi ha obbligato a seguirlo nella limousine e, da lì, a questo locale dell'élite. In realtà non sarebbe neanche poi così male, se non avessi altri pensieri per la testa.

«Mi sei mancato, Nick» la voce suadente di Irina mi riempie le orecchie. È già completamente ubriaca e si porta comunque un bicchiere di vetro alle labbra rosse. Si avvicina di qualche altro passo e la sua figura alta e snella oscura tutta la mia visuale. Le ciocche biondo platino mi solleticano le guance e l'aria intorno a noi si imprime del suo profumo pomposo.

Vorrei dirle di allontanarsi, ma lei è come una bambina viziata. Più le si ripete che deve stare lontana da qualcosa, più vorrà averla soltanto per sé.

La distanza tra noi e tra le nostre labbra sta diminuendo a dismisura, ma sento il telefono vibrare e subito mi faccio da parte. Potrebbe essere uno dei medici di mio padre.

«Scusa» mi limito a dire ad Irina prima di trovare la porta d'uscita. L'aria fuori è fredda e un brivido mi percorre tutta la spina dorsale.

Ma quando leggo sul display, libero un sospiro e rilasso le spalle. Non è mio padre.

È un messaggio sulla casella di posta della Summit.

Mio padre non mi ha affidato soltanto il comando della rivista, ma anche l'onere di assumere personalmente i nuovi dipendenti. Vuole che trova persone affini con il mio modo di pensare, capaci di dare vita ad idee che, per il momento, sono soltanto nella mia testa. Persone di cui possa fidarmi e che mi aiutino a creare la mia arte.

Chi sprecherebbe tempo ad inviare una lettera di presentazione a mezzanotte passata?

A quanto pare, una certa Lily Hamilton. Il cognome non mi è nuovo, ma rinuncio in partenza a pensare a dove avrei potuto già averlo sentito.

Apro la sua lettera e la leggo quasi tutta d'un fiato. La sua scrittura è semplice, ma non banale. Usa parole giuste nel posto giusto. E di questo riesco ad accorgermene persino io, che di scrittura e giornalismo ne capisco relativamente poco.

Rimango completamente incantato dalla sua bellezza. Una bellezza che non teme il confronto, perché forse non sa neanche di poterlo essere. Ed è proprio così la sua scrittura: bella, perforante e magnetica. Rivoluzionaria e dolce.

Non so chi sia questa ragazza, ma in poche righe è riuscita a sfiorare corde dell'anima che neanche immaginavo di avere. Ha toccato con le sue parole il mio cuore vulnerabile e lo ha reso più forte. Lei, che con la sua scrittura profonda e sincera sembra un'opera d'arte.

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