2. L'aria di casa

Soundtrack — Daylight,
Taylor Swift

🏙️

La sveglia non suona questa mattina. Sento Alex andare da una parte all'altra del nostro piccolo appartamento a Brooklyn e mi decido ad alzarmi solo quando bussa ripetutamente alla porta. La luce del sole filtra dalla finestra, creando ghirigori dorati sul bordo del letto.

«Lily, ti muovi?» la sua voce è alta nonostante il legno che ci divide e le coperte erette come barriera.

«Un attimo» ho ancora gli occhi socchiusi quando mi avvicino all'armadio.

«Tra cinque minuti esco per andare alla Summit! Se non ti dai una mossa ti tocca prendere la metro».

Lo odio quando fa così. Ma ha ragione: guardo l'orario sul telefono e sono in ritardo.

Pettino a stento i capelli e mi precipito fuori dalla stanza. Di solito non la lascio così in disordine, con il letto disfatto, i libri aperti sulla scrivania e le tazze di caffè ormai vuote sparse per i ripiani. Ma dopo devo anche andare a lavoro, per cui sarà un problema della Lily del futuro. Che probabilmente odierà con tutto il suo cuore la Lily del passato perché, in generale, odio tornare a casa e trovare la mia stanza nel caos.

«Buongiorno, leoncino» Alex mi sta guardando con un sorriso sardonico, addossato alla porta della sua stanza e con un'enorme tazza in mano.

Gli rivolgo semplicemente un'occhiataccia e mi verso anch'io un po' di caffè.

Non potrei esistere senza.

«Sono pronta» recupero la borsa con tutti i documenti.

«Andiamo» dice, con un'espressione insolitamente seria sul volto.

La facciata della Summit fa sempre lo stesso effetto, l'imponente edificio che sembra dominare su Manhattan. Metaforicamente e, con ogni probabilità, anche realmente. È magnifica, sembra riflettere la luce del sole.

Alex supera senza troppe cerimonie le porte di vetro e saluta Abby, anticipandole di me, poi si allontana verso l'ascensore.

«Ciao» dico a Abby. Oggi è vestita con un semplice tubino nero e un rossetto rosso che le fa risaltare gli occhi.

«Ciao a te» la sua voce è la quintessenza della dolcezza. Mi chiedo come abbia fatto Alex ad essere stato così stupido con lei, ma in fondo credo di aver scritto un libro ieri proprio sui difetti di mio fratello. Per cui non dovrei stupirmi.

Abby mi porge un foglio e comincia a spiegarmi cosa devo fare.

«La domanda di colloquio è piuttosto facile da compilare: basta inserire tutti i dati e allegare il curriculum» dice, alternando lo sguardo tra me e il foglio di carta. Poi mi passa una penna a sfera. «Ah, dimenticavo. Dovresti anche mandare una lettera di presentazione nella quale spieghi il motivo per cui vorresti lavorare alla Summit»

«In pratica, un modo non troppo velato per vedere come scrivo» commento. Mi sembra giusto: è una rivista che assume veri giornalisti. Non sarà certo il mio campo, ma è comunque una delle migliori della città. Il signor Montgomery non ha certamente tutto questo successo perché i suoi giornalisti sono stati rimandati in grammatica.

Le guance di Abby si infiammano. «Non tutti ci arrivano» poi si rilassa, sciogliendo le spalle. «Ti sorprenderesti di leggere quello che riceviamo ogni settimana» dovrebbe ridere più spesso, perché ha un sorriso bellissimo. Lo ripeterò all'infinito, ma mio fratello è davvero uno stupido, soprattutto perché ha sprecato la sua occasione con Abby. Soprattutto perché pensa ancora ad Irina. Lei crede di poter trattare le persone come vuole, crede di essere la migliore e che tutti dipendano da lei.

Comunque, mi ritrovo anch'io a ridere con Abby. Dopo pochi minuti le consegno il foglio tutto bello firmato e lei lo ripone in una cartellina bianca.

Dio, lì dentro ci saranno almeno un centinaio di richieste.

«Il signor Montgomery le analizzerà tutte e manderà a chiamare soltanto chi ritiene più adatto» mi spiega. «Poi verrà organizzato il colloquio, che è la parte finale»

«E quanto tempo ci vorrà?»

«Dipende dal candidato e dalla sua lettera di presentazioni» dice Abby. «So di non aver parte in tutto questo, però secondo me saresti perfetta qui, Lily»

«Grazie», le dico e le rivolgo un sorriso. E sono davvero sincera.

Forse, almeno un po', anch'io spero di poter lavorare alla Summit. Non è cambiato il mio disprezzo per la cronaca mondana, però sono sicura che questo potrebbe essere il mio trampolino di lancio per il premio Pulitzer. Magari non per un'esclusiva su qualche sfilata di moda o per un tête-à-tête con uno dei rampolli delle famiglie dell'Upper East Side, ma col tempo potrei conoscere le persone giuste e lavorare in una redazione più adatta a me e alle mie passioni.

Per il momento, mi accontenterò semplicemente di scrivere.

«Spero che ci rivedremo presto, Abby» mormoro, prima di allontanarmi dall'enorme tavolo di marmo e aspettare mio fratello all'ingresso.

«Anch'io» quasi a stento riesco a sentire la sua risposta perché, svoltato l'angolo, sbatto contro qualcuno.

Di nuovo.

Questo maledetto angolo deve avercela con me.

«Mi scusi», mi affretto a dire. Ma quando mi rendo conto che è lo stesso tipo di ieri, vorrei semplicemente sprofondare.

«Questa dev'essere proprio un'abitudine» commenta lui sarcastico con il suo vago accento inglese, i capelli sempre perfettamente lucidi e il sorriso sempre perfettamente stupendo.

«Guardi che non lo faccio apposta» cerco di mantenere un minimo di educazione, ma in realtà il suo commento mi ha dato alla testa. Come se fossi stata l'unica a sbattere di nuovo contro la stessa persona.

«Certo che no» risponde prontamente, continuando a ridere.

Non sopporto quando sono gli altri ad avere l'ultima parola, quindi mi sbrigo ad aggiungere qualcosa. «Anche lei farà domanda per lavorare alla Summit?»

Lui mi guarda per un attimo sconnesso, come se avessi detto la più assurda delle assurdità. Poi annuisce.

«Bene, buona fortuna» dico senza troppa emozione. A volte l'apparenza non significa nulla, ma questo tipo sembra veramente perfetto per lavorare qui. Molto più di me. Se le ore che ho trascorso insieme a Sophie ad imparare le migliori marche dell'alta moda hanno fatto il loro effetto, allora credo proprio che il suo cappotto marrone sia stato cucito su misura in qualche atelier di Parigi, indossa una sciarpa di Burberry e i mocassini sono firmati Prada.

Praticamente l'outfit classico per lavorare alla Summit NY magazine.

Lui continua a sorridere mentre mi allontano e, prima di uscire, lo sento parlare ancora. «Anche a lei».

🏙️

Aspetto mio fratello vicino a Central Park. Sono tentata di addentrarmi all'interno del parco e sedermi su una delle panchine del Reservoir, ma mi accontento di bere il mio secondo caffè della giornata in piedi accanto al carretto che vende anche hot dogs.

Alex emerge un secondo dopo, con le braccia strette attorno ad un'enorme scatola con tutte le sue cose dentro. «Un aiuto sarebbe gradito» taglia corto.

Quindi gli apro la portella posteriore della macchina e lo guardo mentre posiziona la scatola sui sedili. Intravedo una nostra foto di quando eravamo piccoli incorniciata: era Natale e stavamo scartando i regali, la mamma preparava i pancakes con la marmellata di ciliegie mentre papà ci scattava le foto con la sua nuova macchinetta. Ricordo che i nostri genitori mi regalarono un libro di fiabe, mentre ad Alex presero un modellino di lego. Eravamo entrambi felicissimi.

«E io che pensavo di andare a prendere un caffè insieme...» dice scoraggiato, alludendo al mio bicchiere di carta ormai mezzo vuoto. «Volevo sapere com'è andata con la domanda».

«Ho semplicemente firmato i documenti, Alex. Ma devo scrivere una lettera di presentazione» dico mentre salgo anch'io in macchina. «E comunque devo andare a lavoro, non avremmo avuto tempo per un'altra sessione di gossip tra fratelli».

«A proposito, come lo dirai a Sophie?» chiede dopo minuti di silenzio.

In realtà non ci ho ancora pensato. È successo tutto troppo in fretta perché me ne rendessi conto persino io.

Quando eravamo piccole io e Sophie abbiamo fatto un giuramento: avremmo realizzato insieme i nostri sogni. Io volevo diventare una giornalista, lei una stilista. Per anni ci siamo esercitate insieme alla nostra vita futura: lei rispondeva alle mie domande per le interviste ed io assistevo alle sue sfilate. Abbiamo fatto domanda per il college nello stesso momento, io alla New York University e Sophie alla Parsons. Quando sono stata ammessa e lei no, ci è rimasta malissimo. E anche io. Volevo veramente che funzionasse.

Per questo ho quasi paura a dirle della Summit.

Tecnicamente non è questo il mio sogno, e lei lo sa. Ma è comunque un passo avanti e se mi prenderanno dovrò lasciare il posto da barista allo Stardust.

«Le dirò semplicemente la verità. Credo» ho la voce titubante, ma devo pensarci in fretta. Proprio oggi che mi servirebbe per schiarirmi le idee, non c'è molto traffico, e Alex accosta per farmi scendere.

«Ci vediamo dopo» mi saluta. «E buona fortuna».

Sono ancora le undici e il mio turno inizia tra un'ora, ma non importa. Quando entro Sophie è già dietro il bancone e il locale è quasi tutto pieno, per cui mi sento in dovere morale di darle una mano.

«Ciao, straniera» esordisce lei, buttandosi la treccia rossa dietro la schiena.

«Non ci vediamo solo da due giorni» puntualizzo, prendendo al volo il grembiulino nero che mi ha appena lanciato.

«Per me è comunque tanto tempo. Ti volevo parlare».

«Anch'io» aggiungo immediatamente. Forse il modo migliore per dirlo, è dirlo e basta. Più si aspetta, più il peso diventa ingente da sopportare.

«Prima io. Alla fine non ti ho più raccontato di quel ragazzo, Cole».

«Il tipo di tinder?»

«Proprio lui».

«Se non si è rivelato un assassino a fine serata, mi sembra già un passo avanti» scherzo. Vorrei subito raccontarle della Summit, ma Sophie è sovraeccitata. Il suo status normale quando mi parla dei ragazzi con cui esce.

Nella maggioranza dei casi si tratta di totali disastri, casi umani che in genere non rivede più dopo la prima uscita, ma lei è incondizionatamente innamorata dell'idea dell'amore.

«Mi ha portata a Central Park, è stato molto romantico in realtà» dice mentre si posiziona sulla mano un vassoio circolare con un bicchiere traballante di succo di arancia e un croissant vegano. La vedo sorridere ai clienti e poi si volta verso di me.

«Quindi ci uscirai ancora?» le chiedo, perché la conosco e so che aspettava solo che le facessi questa domanda.

«No, Lily. Gli uomini sono come i tacchi, bisogna cambiarli sempre».

«Che commento superficiale» le punto un dito contro, ma alla fine scoppiamo entrambe a ridere.

«Marilyn Monroe diceva 'date delle belle scarpe ad una donna e lei conquisterà il mondo'» recita Sophie come se questo fosse il suo mantra di vita.

«Credevo che fossi più tipa da 'l'eleganza è la sola bellezza che non sfiorisce mai'».

«Certo! Audrey è Audrey, ed è imbattibile» chiarisce, aiutandomi a sistemare il tavolino che si è appena liberato. «Era solo un modo per dire che aspetto ancora il ragazzo perfetto» abbassa il viso pieno di lentiggini.

So esattamente cosa intende, so chi crede che sia il ragazzo perfetto.

«Sophie...»

«'Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce'» dice, citando Blaise Pascal. «Non c'è niente di male in questo».

Non ci sarebbe assolutamente nulla di male se quel ragazzo non fosse mio fratello. Sophie ha una cotta per lui da sempre e io sarei felicissima se si mettessero insieme. Anzi, credo che nessuno potrebbe esserlo più di me. Ma in tutti questi anni Alex non ha mai guardato Sophie in modo diverso, per lui è soltanto la mia migliore amica, una ragazza alla quale ha imparato a voler bene come ne vuole a me.

Sophie, invece, merita molto più di questo. È una donna incredibile, ed una delle persone più importanti per me. Le sono legata come se una parte del mio cuore appartenesse a lei. Non sopporterei di perderla, perché non potrei sopportare di perdere nessun altro in questo momento.

La cerchia delle persone che amo è davvero molto ristretta: non sono solita esternare le mie emozioni tanto facilmente, ma quando voglio bene a qualcuno, lo sento davvero.

Mia madre è il mio sole.
Mio fratello è la parte migliore di me.
Sophie è il mio specchio.
Caleb è la mia risata.
Mio padre era tutto il mio mondo.

E quando lui è morto, il mio mondo si è completamente stravolto, perdendo il suo equilibrio. Mi ha mandata fuori asse e sto ancora ricercando il mio baricentro. Per questo, proprio non sopporterei di perdere nessun altro. né Alex né Sophie.

«Lily...» la voce della mia amica mi riporta alla realtà. «Quello è uno dei tuoi tavoli» mi volto appena e vedo che una signora mi sta facendo cenno con la mano. Le vado incontro per prendere la sua ordinazione, ma mi rendo conto troppo tardi di aver gli occhi umidi e le guance bagnate.

🏙️

Nick's pov
Sono tornato a casa da un paio di giorni, ma è come se durante la mia assenza tutto fosse stato completamente rimescolato. La casa in cui sono cresciuto sembra quasi irriconoscibile, con tutti i medici che si aggirano per i corridoi e i tubetti delle medicine sparsi ovunque.

Soltanto i quadri appesi alle pareti sono gli stessi. Riproduzioni di alcune delle mie opere preferite, 'La nascita di Venere', 'La Primavera', 'Le ninfee', 'La notte stellata'. Tutti gli autori che mi hanno fatto appassionare all'arte.

Salgo velocemente le scale, fino alla camera di mio padre.

L'ultima volta che l'ho visto stava bene.

Era arrabbiato perché avevo deciso di abbandonare gli Yale e volare fino a Londra, ma stava bene. O, almeno, lo credevo.

Ora, invece, lo riconosco a stento. Non è cambiato fisicamente: è sempre lo stesso uomo, lo stesso che mi portava alle mostre d'arte e che la domenica si liberava dagli impegni lavorativi per accompagnarmi al Met. Lo stesso che mi ha urlato contro quando gli ho detto che volevo studiare Storia dell'Arte e invece mi ha costretto ad iscrivermi al corso di Economia degli Yale, perché sono un Montgomery e quello che facciamo è guidare i fili di New York, non i professori di Arte. Lo stesso che mi ha portato tutti gli anni alla festa di Natale della Summit e permesso di bere un bicchiere di champagne di più. Lo stesso con il quale ho litigato prima di lasciare l'America perché non volevo assumere il comando della sua rivista.

Lui è sempre lo stesso, eppure non lo riconosco. È sdraiato su una montagna di cuscini, nel suo letto, con un bicchiere di vetro e dell'acqua appoggiati sul comodino, gli occhi socchiusi come se potesse tener fuori il dolore e nuove rughe sul viso.

Forse sono io ad essere cambiato, perché per tutto questo tempo non mi sono accorto delle medicine che prendeva, dei mal di testa continui che lamentava, del suo cuore debole che non funziona più come dovrebbe. E mi sento in colpa perché, se lo avessi saputo, avrei subito fatto quel che chiedeva.

Avrei rinunciato al mio sogno, ma non avrei perso mio padre. E questo è molto più importante.

Sono cresciuto in un mondo in cui gli altri bambini erano sempre da soli, un mondo in cui i genitori preferivano il denaro e gli affari al trascorrere un pomeriggio insieme ai loro figli. Un mondo in cui i miei amici stavano da soli il giorno del Ringraziamento perché i loro padri erano in Europa per concludere accordi esclusivi.

A me non è mai successo. Mio padre mi è sempre stato vicino.

E ora mi sento in colpa perché, proprio quando ne aveva lui più bisogno, io non ci sono stato.

«Nick...» mi chiama, la voce roca e bassa. Lo vedo sforzarsi di mettersi a sedere e mi faccio subito avanti per fermarlo.

«Il medico ha detto che devi restare al riposo, papà» mi fa male vederlo così, perché credevo stoltamente che il mio mondo fosse troppo lontano dal dolore e dalla malattia, perché conoscevo soltanto il luccichio dei soldi e pensavo che potessero comprare ogni cosa.

«Nick, sei qui» dice lui aprendo finalmente gli occhi.

Mi sforzo di sorridergli come farei normalmente, cercando di ignorare l'odore forte di disinfettante e le medicine sul comodino. «Londra è troppo piovosa in questo periodo».

«Hai preso l'accento inglese» nota mio padre.

«Soltanto un po', ma se ne andrà presto. Mi è mancata casa» vorrei dirgli che mi è mancato lui, ma non ne ho il coraggio.

«Quindi resterai?»

«Mi dispiace, papà. Ho sbagliato ad andarmene, a lasciare i miei studi» lo anticipo prima che possa dire qualunque altra cosa.

«Non è vero. E lo sai, hai soltanto seguito i tuoi sogni. Come ti ho insegnato» gli trema la voce.

«Mi dispiace...» ripeto.

«No, Nick. Dispiace a me. Sono tuo padre, avrei dovuto appoggiarti e sostenerti, non costringerti a studiare qualcosa che nemmeno ti piace» fa una pausa. «Ma voglio che tu sappia che l'ho fatto solo perché credevo che fosse la scelta migliore per te, per noi e per tutto quello che abbiamo».

«Lo so, papà. Lo so» ed è vero. Il mio sogno era studiare Arte, ma quello di mio padre era che, un giorno, fossi io a prendere le redini del nostro impero e continuare con la Summit.

E non posso certo biasimarlo, qualunque figlio ne sarebbe fiero e orgoglioso.

«Ma adesso sono qui, papà. Non devi preoccuparti di nulla, ti aiuterò io».

«Questo vuol dire che accetterai di diventare l'amministratore delegato della Summit?» chiede con un filo di voce, prima di essere scosso da un violento colpo di tosse.

Mi sporgo per prendere il bicchiere e riempirlo con un po' d'acqua, ma lui mi ferma la mano, dicendo di stare già meglio. Questa situazione dev'essere molto più frequente di quanto credessi.

«Per lo meno gli studi in Economia serviranno a qualcosa» dico e gli vedo spuntare un sorriso.

«Grazie, Nick. Significa molto questo per me» i suoi occhi, nei quali ci vedo riflessi i miei, non mi lasciano per un secondo. «Ma vorrei che significasse qualcosa anche per te» aggiunge.

«Significa che potremo trascorrere molto più tempo insieme».

«Non è solo questo. Io ho creato la Summit NY magazine perché lo volevo, perché volevo un giornale che parlasse del nostro mondo e che aiutasse gli altri a capirlo. Ho fondato la Summit perché volevo un luogo da chiamare casa prima di conoscere la casa che avrei costruito con la mia famiglia, con te» dice mio padre con le lacrime agli occhi. «Voglio che la Summit diventi anche la tua casa, Nick» le sue parole sono così belle che lascio andare anche le mie lacrime. Non serve a nulla trattenerle.

Invece, lo abbraccio forte, perché so quanto tutto questo sia importante per lui, so quanto ci tiene. E so anche quanto gli costa lasciarlo andare via così.

«So che non è esattamente la stessa cosa, ma se vuoi puoi fare della Summit la tua espressione dell'arte» dice.

Restiamo abbracciati per un tempo che non so quantificare, e neanche mi importa farlo. Non serve farlo. Finalmente sono tornato a casa. Da mio padre. E ho intenzione di renderlo fiero.

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