1. Il mercato delle bugie
Janus amava il Mercato Grande. Era un luogo pieno di colori, odori e persone. E dove c'erano persone, era risaputo, c'erano anche soldi. Le carnose labbra del ragazzo, laccate di rosso, si stirarono verso l'alto al pensiero di poter trovare qualche forestiero a cui spillare un bel gruzzolo di sonanti e scintillanti monete. Il Mercato Grande era infatti uno dei luoghi più frequentati del Deserto di Salalham, e non era raro imbattersi persino in qualche straniero. Il vociare che saturava il luogo, un miscuglio di lingue e accenti diversi tra loro, era sovrastato dalle urla dei mercanti che invitavano i passanti a dare un'occhiata alla merce che tenevano esposta su lunghi tavoli di legno, sulla superficie dei quali facevano mostra di sé fruscianti stoffe colorate, alambicchi e fiale che rilucevano alla luce del sole, utensili da cucina in bronzo ed altri oggetti stravaganti; c'era ad esempio una donna che vantava la vendita di filtri d'amore, un'altra che sosteneva di possedere alcune ciocche di capelli appartenenti al sultano in persona e, ancora, un uomo che prometteva ai suoi clienti sogni in bottiglia e desideri usati.
Il sorriso della prostituta si allargò. Lì erano tutti dei bugiardi, proprio come lui, e per tale motivo considerava quel posto come una casa. Era quello il mondo a cui apparteneva, pensò mentre continuava ad avanzare muovendo in maniera esagerata i fianchi rotondi, con i lunghi capelli neri che gli ondeggiavano oltre le spalle sottili e la sabbia calda che gli si insinuava tra le dita dei piedi scalzi ad ogni passo.
Janus fece una smorfia. Odiava quegli infimi e fini granelli che si infilavano dappertutto. Non vedeva l'ora, appena si fosse arricchito abbastanza da poterselo permettere, di lasciarsi finalmente alle spalle quel luogo torrido dimenticato dagli dei e trasferirsi in una di quelle grandi città di cui talvolta i suoi clienti gli parlavano, con i loro palazzi che sembravano quasi toccare il cielo e le loro boutique pullulanti di abiti pregiati e all'ultima moda.
Era quello il motivo per cui mirava quasi sempre ai forestieri. Per quanto la sua parte più razionale continuasse a ripetergli che era impossibile che qualcuno potesse innamorarsi di un bugiardo come lui, l'altra, quella più infantile e stupidamente desiderosa di sognare, osava ancora sperare che un qualche ricco e piacente straniero perdesse la testa per lui e lo portasse via con sé. Poco importava se si fosse trattato di un uomo o di una donna.
Un raggio di sole colpì la pelle ambrata del ragazzo, facendo scintillare i bracciali che portava sia ai polsi che alle caviglie e che tintinnavano ad ogni suo movimento. Inutile dire che si trattava di chincaglierie prive di valore, ma a quel particolare Janus non faceva caso. Gli bastava che brillassero e che fossero belli. Lui venerava la bellezza, e proprio in nome di essa quel giorno aveva assunto le sembianze della formosa donna con cui era stato la notte prima.
Al solo pensiero si leccò le labbra, che si tesero in un sorrisetto malizioso e carico di promesse proibite non appena notò un uomo intento ad osservarlo insistentemente. Era stato anche fin troppo facile, gongolò mentre si avvicinava alla sua nuova preda.
«Buon pomeriggio» lo salutò simulando una voce più acuta, prorompendo poi in una civettuola risatina.
Con il tempo aveva imparato a recitare la propria parte alla perfezione, forse perché, alla fine, la sua vita era tutta una menzogna.
Ad essere sincero Janus aveva quasi dimenticato il proprio vero aspetto, che ormai da troppo tempo non utilizzava più. Chissà, si chiese, se un giorno sarebbe stato in grado di trovare qualcuno di cui si fidasse abbastanza da farsi vedere per ciò che realmente era, qualcuno che l'avrebbe amato senza il bisogno di nascondersi dietro a tutte quelle maschere che usava pur di ricevere fugaci briciole di approvazione e che gli avrebbe garantito un futuro migliore di quello, in cui magari ci fosse stato posto anche per l'amore.
«Buon pomeriggio».
La voce bassa e raschiante dell'uomo lo riportò alla realtà, strappandolo bruscamente alle sue fantasie e ricordandogli quale era la cruda verità, quale realmente era il suo ruolo: quello di una prostituta senza volto e dalle molteplici identità.
Janus si sforzò di rivolgergli il suo migliore e più affascinante sorriso. E parve funzionare, perché l'altro lo ricambiò, domandandogli quale fosse il nome di colui che aveva scambiato per una ragazza. Il diretto interessato ridacchiò nuovamente, come se davvero l'altro avesse detto qualcosa di divertente.
«Non ha importanza, ciò che davvero conta è cosa desideri tu. Potrei darti io stessa tutto ciò di cui hai bisogno» affermò con un tono dolce come il miele, lasciandogli una velata carezza sul braccio.
«Tutto ciò di cui ho bisogno?» ripeté l'uomo con uno strano accento, più duro e secco rispetto al suo. «E cosa vorresti in cambio?» domandò diffidente, conscio del fatto che, in un luogo come quello, nessuno avrebbe fatto nulla senza prima essere sicuro di guadagnarci a sua volta qualcosa.
Janus sorrise. Un sorriso felino, malizioso.
«Oh, nulla di che, solo una piccola ricompensa» rispose con tono accondiscendente, come se stesse spiegando qualcosa di elementare ad un bambino troppo ottuso per comprendere.
L'uomo inarcò un sopracciglio. «Vorresti essere pagata, ho capito bene?» chiese, facendogli arricciare il naso all'insù in una smorfia.
«Non mi piace quel termine. Preferisco dire che mi piace essere ricompensata per i miei servigi» rispose, riacquistando il sorriso. «Sarebbe conveniente per entrambi, non trovi?» continuò, spostandosi i capelli su una spalla così da mettere in mostra il collo fine e la scollatura dell'abito bianco e oro che indossava, che ricadeva morbidamente sul corpo che aveva preso in prestito.
«Quanto?» chiese l'uomo, e Janus sorrise sapendo di averlo già in pugno.
«Di questo ne discuteremo dopo» lo rassicurò prendendolo a braccetto mentre riprendeva a camminare, conducendolo con sè.
***
Anekin si inchinò accogliendo il gratificante suono degli applausi che risuonava tutt'intorno a sè, dopodiché si rimise dritto, osservando con sguardo fintamente benevolo le persone che si avvicinavano a lui per lasciar cadere qualche spicciolo nel cappello che aveva appositamente poggiato ai propri piedi o per stringergli la mano. Bastava quel contatto veloce e, in pochi secondi, le dita degli ignari spettatori venivano abilmente spogliate dei loro anelli senza che nemmeno se ne accorgessero. Un gioco da ragazzi, a sua detta.
Il suo tronfio sorrisetto si trasformò però in un'espressione confusa non appena si sentì tirare dalla manica della larga camicia bianca che indossava. Spostò gli occhi sul bambino scarno e sporco che stava tentando di attirare la sua attenzione, cercando di mascherare una smorfia infastidita dietro ad un sorriso falso e mellifluo.
«E tu chi saresti, piccoletto?» domandò.
«Te!» rispose quest'ultimo mentre gli porgeva un misero scellino con fare quasi venerante, continuando: «Voglio essere come te da grande».
A giudicare dalle sue condizioni e dalle vesti logore che indossava doveva essere povero, e probabilmente quella che gli stava donando rappresentava per lui l'unica possibilità di mettere qualcosa sotto i denti dopo chissà quanto tempo.
Quale razza di idiota avrebbe rinunciato così facilmente a qualcosa di tanto prezioso? E per cederlo ad un perfetto sconosciuto poi. Anekin esitò. Si sentiva quasi in colpa ad afferrare quella moneta.
Quasi. Ma la verità era che non gli importava nulla di quello straccione, che sicuramente si sarebbe ritrovato a dover rubare per mantenersi in vita proprio come faceva lui, sempre ammesso che non morisse prima di fame. Niente di nuovo, pensò mentre accettava l'offerta del bambino.
«Sono sicuro che lo diventerai» commentò con tono vagamente amaro, ricevendo in cambio un raggiante sorriso sdentato prima che il piccolo corresse via per affiancare una scheletrica ragazza che non doveva avere più di diciannove anni, con il volto segnato dalla stanchezza e dal peso delle troppe responsabilità che le gravavano sulle spalle spigolose.
Ciononostante ella rivolse comunque un dolce sorriso al bambino, che le afferrò la mano per poi allontanarsi insieme a lei.
Se non altro quel moccioso poteva contare su qualcuno. Questo fu ciò che il burattinaio si ripeté mentalmente per mettere a tacere la strisciante sensazione che stava cercando di impossessarsi di lui, tornando poi a concentrarsi sui suoi spettatori, già dimentico del fatto che aveva probabilmente appena condannato a morte un innocente. Ormai sapeva come convivere con i sensi di colpa.
Continuò a prolungarsi in inchini e discorsi di circostanza, riempiendosi intanto le tasche di bracciali, anelli e addirittura qualche orecchino.
Improvvisamente però un omaccione avvolto in un grezzo mantello rattoppato e pieno di macchie attirò la sua attenzione. Il suo sguardo indugiò in particolar modo sulla piccola sacca che portava alla cintola, dentro alla quale doveva sicuramente essere custodito un numero di monete sufficiente a poter comprare un pezzo di pane ancora caldo e forse anche di più. Già sentiva l'acquolina in bocca al solo pensiero. Trattandosi di un mendicante, per di più cieco come dimostrava il bastone di cui si serviva per camminare, derubarlo sarebbe stato vergognosamente facile.
Anekin si affrettò dunque a raccattare i propri burattini e ad infilarli sgraziatamente dentro alla borsa di ruvida stoffa che si portava dietro per poi congedarsi affrettatamente dalla folla di gente che si era radunata per assistere alla sua esibizione. Si guardò intorno, in cerca dell'uomo che aveva perso di vista e ora sembrava essere svanito nel nulla, notando con la coda dell'occhio la punta di un mantello marrone sparire dietro l'angolo. Senza perdere altro tempo prese dunque a sgusciare agilmente tra le persone, scontrando occasionalmente qualcuno senza tuttavia fermarsi per scusarsi, ormai lanciato all'inseguimento dell'ombra del mendicante. Svoltò come prima aveva visto fare a quest'ultimo, ritrovandosi in una stradina secondaria stranamente poco affollata. Aguzzò la vista e si parò gli occhi con una mano per ripararsi dal sole, scorgendo in lontananza una figura incappucciata. Accelerò il passo, stando però attento a non rendere la cosa troppo evidente per evitare di dare nell'occhio.
Fortunatamente l'uomo camminava lentamente, e di conseguenza fu facile per Anekin affiancarlo e superarlo, fingendo poi di inciampare all'indietro. Cadde addosso al mendicante, rovinando per terra insieme a quest'ultimo. Nel farlo allungò una mano, strappando velocemente dalla sua cintola la sacca di monete per poi rialzarsi in piedi, nascondendo le mani dietro alla schiena.
«Perdonatemi, spero di non avervi fatto male» disse con tono falsamente premuroso, infilandosi nel frattempo la refurtiva in tasca senza farsi vedere. Porse poi una mano all'uomo per aiutarlo ad alzarsi, e questi la afferrò con una presa sorprendentemente forte, tanto che il burattinaio temette per un attimo che gliel'avrebbe stritolata.
Il malcapitato si rimise in piedi masticando un'imprecazione, e il ragazzo si affrettò a ritirare la mano.
«Scusate ancora» ripeté, facendo per voltarsi e allontanarsi, ma la voce dell'uomo lo fermò.
«Prima di andare dovresti restituirmi ciò che hai preso, non credi?».
Anekin si irrigidì. Il mendicante era cieco, come aveva potuto vederlo? A meno che... Scattò in avanti, ma l'altro fu più veloce e, muovendosi con una fluidità strabiliante per qualcuno nella sua condizione, lo afferrò per la collottola.
«Ragazzo, non ti conviene farmi incazzare. Dammi quello che mi hai rubato e nessuno si farà male» lo avvertì con un tono di voce spaventosamente calmo che, se possibile, risultò ancora più minaccioso e fece gelare il sangue nelle vene del ladro.
Ma quest'ultimo non era così ingenuo da credere alle parole dell'uomo: sapeva che nessuno in un posto come quello, dove anche una misera goccia d'acqua valeva tanto quanto l'oro, avrebbe lasciato correre un simile affronto. Così lo colpì nello stomaco con una gomitata ben assestata che lo fece grugnire e piegare in due, dandogli a malapena il tempo di liberarsi prima che l'omaccione si rimettesse dritto, ereggendosi in tutta la sua notevole stazza.
Gli puntò gli occhi neri in faccia, lanciandogli un'occhiata terrificante. Non era cieco.
Anekin lo comprese troppo tardi, ma ormai il danno era fatto e c'era un'unica cosa da fare: scappare. Prima ancora che se ne rendesse conto le sue gambe si stavano già muovendo e lui correva a perdifiato lungo la via con il proprio inseguitore alle calcagna, pericolosamente vicino. Troppo vicino. Aveva appena commesso uno dei più grandi errori della sua vita, probabilmente l'ultimo. Perché, non c'erano dubbi, se si fosse fatto prendere sarebbe stato ucciso. Accelerò il passo, sentendo i muscoli bruciargli per lo sforzo, ma nemmeno quello parve bastare. Nonostante la propria corporatura smilza, che gli permetteva di sgusciare ovunque, il mendicante aveva dalla sua la forza bruta e non si faceva problemi a spintonare o travolgere tutto ciò che aveva la sfortuna di incappare nel suo cammino. Non ce l'avrebbe mai fatta. Non contando sulla propria resistenza, almeno. Doveva trovare un modo per seminarlo, ma come fare per riuscirci?
I suoi occhi presero a vagare tutt'intorno, alla disperata ricerca di una via di fuga, finché non si soffermarono su una stradina secondaria che sembrava proprio fare al caso suo. Se fosse stato abbastanza veloce avrebbe potuto svoltare bruscamente, nella speranza che l'uomo non avesse la sua stessa prontezza di riflessi. Strinse i denti. Doveva solo fare un ultimo sforzo, si disse mentre cercava di andare ancora più veloce, senza più curarsi di poter inavvertitamente finire addosso a qualcuno. E all'ultimo scattò. Si gettò nella stradina secondaria con talmente tanta forza che finì per perdere l'equilibrio e ruzzolare per terra, ma si rimise subito in piedi. Fu uno sbaglio. Solo allora si accorse che quello che aveva imboccato era un vicolo cieco e che l'unica via d'uscita era bloccata dal proprio inseguitore, che se ne stava a braccia incrociate con un ghigno stampato sulle labbra. «Fine dei giochi, maledetto figlio di puttana».
Pronunciò l'ultima parola con una strana inflessione nella voce, e Anekin notò che il suo accento era decisamente diverso se comparato al proprio. Doveva trattarsi di uno straniero, dedusse. Che stupido pensiero da fare in un momento come quello, si rimproverò tuttavia in seguito. Che importanza poteva avere il fatto che fosse un forestiero? Lo avrebbe comunque ucciso, e lui non poteva scappare. Anche se gli fosse passato da sotto le gambe, riuscendo in qualche miracoloso modo a non farsi prendere, non sarebbe potuto andare lontano. Non con i polmoni in fiamme e le gambe che gli dolevano e minacciavano di cedergli da un momento all'altro. Vide il mendicante avvicinarsi e, nel cogliere il balenare di un pugnale stretto nella sua mano, serrò con forza gli occhi, preparandosi al peggio. Era finita, constatò con orrore prima che l'uomo lo colpisse con forza alla testa utilizzando l'impugnatura dell'arma e il buio calasse su di lui.
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