capitolo 4
⋆⁺₊⋆ 4 dicembre ⋆⁺₊⋆
Se c'è una cosa che odio del periodo festivo (e comunque mi devo impegnare per trovarla) sono le file infinite che si creano nei supermercati e negozi. Gente persa tra i reparti che valuta se regalare uno di quei set scadenti di prodotti per il corpo alla propria vicina di casa. O se spendere trenta dollari per un cestino pieno di cibo già confezionato. No, forse é meglio una bottiglia di vino dalla drogheria...
Momenti di completa estraneità dal mondo che ti lasciano sola con i tuoi pensieri e i miei, purtroppo, vagano sempre prepotenti quando non c'è nulla ad arginarli.
Ho cercato di non pensare ad Alex per tutta la mattina, comportandomi come una persona normale con la sua vita normale da mandare avanti.
Spegni la sveglia, stretching, lavati la faccia, fai colazione, lavati i denti, rifai il letto e spolvera la camera, pulisci la cucina, vestiti e poi esci per le semplici commissioni. Una giornata simile a cento altre.
Con la playlist natalizia che rimbomba nelle orecchie, sono riuscita a fare tutto quello che dovevo senza soffermarmi neanche per un secondo su quanto che é successo ieri. Sono uscita di casa godendomi il freddo di New York, raggiungendo la metropolitana quasi correndo, perché ovviamente ero in ritardo e l'avrei persa per un soffio.
Ho camminato tra mille facce estranee fino alla Madison. La dispensa della mia cucina è vuota e ho un urgente bisogno degli alimenti più basilari: uova, zucchero, peperoni e carote. Oltre allo shampoo e al mio amato burro esfoliante per il corpo alla cannella e cioccolato.
Sono entrata nel primo supermercato che mi sono trovata sulla strada, il primo che — almeno all'apparenza — sembrava abbastanza vuoto. Se non che, ora che sono in coda alle casse, il tempo si sta dilatando e la gente non avanza, ferma come tanti pupazzetti di neve. Qualcuno più avanti a me si lamenta e la ragazza alla cassa urla che non è colpa sua.
Comunque, tutto questo tempo in cui non sto facendo assolutamente nulla, se non tenere tra le mani il mio tremolante bottino, mi sta mandando in esaurimento.
Rivedo nella mia testa, chiaro e limpido, il sorriso di Alex. I capelli lucidi di neve e il naso rosso alla Rudolph la renna. L'esatto momento in cui ha posato lo sguardo su di me e mi ha chiesto di essere il suo Secret Santa.
Bagliori estatici. Debole tremolio delle mani. Incredulità tangibile. Avrei voluto immortalare la mia faccia in una foto.
Per tutta la notte mi sono chiesta se non l'avessi immaginato. Avevo intenzione di chiedere a Laurie, di sapere da un'esterna se Alex fosse realmente stato allo Stardust. Ma proprio all'ultimo — mentre infilavo la giacca, il pavimento appena lavato e profumato di limone — non me la sono sentita.
Ho pensato che sarebbe stato meglio continuare a vivere nel mio sogno. Forse sono impazzita e non é una buona idea svegliare un sonnambulo.
Una ragazzina mi chiede se può passare avanti a me. Ha soltanto un pezzo di pane incartato e un sacchetto di caramelle gommose. Indossa un grazioso cappello con i pon pon colorati e mi rivolge un sorriso speranzoso.
«Certo» le dico e lei, minuta e timida, mi ringrazia augurandomi buon Natale. Piano piano la fila si accorcia e comincio a vedere l'uscita di questo tunnel. Le ampie vetrate del supermercato sono decorate con renne e fiocchi di neve adesivi, squallidi e ingialliti ai bordi.
Quando arriva il mio turno, pago in fretta e mi fiondo nel caos della città. In realtà c'è un motivo per cui ho fatto tanta strada. Fin da quando sono piccola, amavo passeggiare per Madison Avenue durante questo periodo.
Alla fine della strada, infatti, c'è la luminosa targa di ottone Karl Spizer, lo stilista dei miei sogni, colui da cui tutti i miei desideri si sono originati. La vetrina dell'atelier é in assoluto la più bella: gocce di cristallo pendono come fiocchi di neve su un manichino vestito con la nuova collezione.
Una gonna di tartan beige e un maglione bianco che solo a vederlo sembra realizzato con la stessa materia di cui sono fatte le nuvole. Un cappello alla francese panna e stivali di gomma dello stesso colore. Semplicità ed eleganza, da sempre elementi imprescindibili del marchio. Oltre che, naturalmente, l'esclusività.
Da quando ne ho memoria, riuscire ad accaparrarsi un pezzo firmato Karl Spizer è difficile tanto quanto camminare sulla Luna. Si producono talmente pochi pezzi che, si dice, Karl Spizer in persona cuce gli abiti insieme alla moglie e alla sorella nel retro dell'atelier.
Mi piace perché, a differenza di tutti gli altri artisti e stilisti di marchi di lusso, non é eccentrico. Non usa paroloni stravaganti nelle interviste, ma lascia che sia la sua moda a comunicare. E, per lo più, invita i giovani artisti a non rinunciare mai ai loro sogni.
Da piccola ho divorato la biografia che mi ha regalato Lily per il mio compleanno, il primo e unico libro che ho amato con tutto il mio cuore.
Karl Spizer ha iniziato a farsi conoscere da un piccolo quartiere nel Bronx. Non era ricco e nemmeno dedito allo studio né particolarmente brillante in nulla di speciale, i suoi genitori erano addetti alle pulizie in una catena newyorkese di alberghi modesti. É partito dal basso e ha conquistato le stelle, soltanto con una macchina da cucire rotta e taccuini macchiati di caffè.
Ma le sue idee erano rivoluzionarie, persino futuristiche per alcuni. Ha scalato velocemente la vetta dei Grandi (Gucci, Prada, Burberry, Versace) e si è realizzato con le sue mani una poltrona nell'Olimpo.
In qualche modo, ho sempre accostato la sua storia alla mia, immaginando di poter ripercorrere i suoi passi. 'Se ce l'ho fatta io, potete farlo anche voi': ho guardato e riguardato questa intervista tanto da consumarla.
Persa tra i miei pensieri, non mi rendo conto di avere il naso quasi appoggiato alla vetrina, desiderosa di conoscere qualche segreto imprescindibile nascosto nell'atelier. Un uomo — tarchiato, occhiali da sole, completo nero, viso austero — mi si avvicina. All'inizio non noto i volantini stretti tra le dita, ma soltanto la sua aria severa da bodyguard.
Non mi dice nulla, forse non è tenuto a farlo, ma mi consegna il volantino. Christmas Show, 2024 edition. La stampa è talmente semplice ma il font tanto elegante e la carta leggermente ruvida che impiego appena tre secondi per capire di cosa si tratta.
L'annuale sfilata di beneficenza del 23 organizzata da Karl Spizer nel mezzo di Central Park, sotto ad un tripudio di stelle e fiocchi di neve. Una delle poche, se non l'unica occasione in cui lo stilista svela al grande pubblico le sue nuove collezioni.
Nella mia testa, é sempre stato qualcosa di enorme e grandioso, come quando nelle favole il re e la regina invitavano al castello il popolo per una qualche festa. Un assaggio del lusso, di un mondo che non ci appartiene davvero.
É un evento aperto a chiunque e una volta, quando avevo sedici anni, sono riuscita a convincere mia nonna a portarmici. É stato il suo regalo di Natale e, onestamente, non potevo chiedere di meglio. Guidammo per ore per raggiungere New York e, nonostante arrivammo tardi e i posti migliori erano tutti occupati, restai comunque a bocca aperta a fissare i grandi schermi.
Ringrazio l'uomo e mi immetto nella calca newyorkese. Mi prendo anche un minuto per leggere il retro del volantino. Come ogni anno, Karl Spizer invita i giovani talenti a scrivere alla sua 'Casella di Babbo Natale' e inviare qualche bozzetto. L'abito prescelto sfilerà accanto a quelli del grande maestro.
Ovviamente ci ho provato tutti gli anni, ma ovviamente non sono mai stata scelta. E mi va bene così. Già in partenza ho deciso che quest'anno mi sarei presa una pausa e che non avrei sperato inutilmente per qualcosa che non si sarebbe mai realizzato.
Ho già abbastanza illusioni da fomentare ed è meglio indirizzare le proprie energie su altro.
Alex, ad esempio. Forse non significa niente, forse é come ha detto Lily e Alex é troppo disoccupato per avere qualcosa da fare e cerca di impiegare il tempo come meglio può. Ma io credo — spero — che il suo interessamento non sia soltanto passeggero e che io non sia soltanto un modo per impiegare il suo tempo.
Sarebbe troppo crudele da parte sua ed io lo conosco fin troppo bene: lui non è cattivo. In effetti, l'ho sempre paragonato ad un biscotto al cioccolato: burroso, morbido e tenero. Croccante all'esterno e un cuore dolce dentro.
Il mio ragazzo d'oro.
Non credo di ricordarmi il momento esatto in cui ho capito di essere innamorata di lui. Forse sono state le fossette ai margini delle labbra, forse gli occhiali che gli cadono continuamente sul naso, forse i suoi modi un po' impacciati e maldestri. Forse la minuscola ruga che gli compare sulla fronte quando pensa, forse le magliette di Star Wars che indossa imperterrito ad ogni film che guardiamo.
Forse quella volta in cui ha detto che i miei schizzi sono belli, forse quando Lily mi ha raccontato che, per il mio diciassettesimo compleanno, ha girato tutti i negozi di Brooklyn per trovare il maglione con la tonalità perfetta di rosso che si abbinasse ai miei capelli. Forse quando, durante la convalescenza in ospedale a causa della caduta che mi ha obbligata a lasciare la danza, veniva a trovarmi tutti i pomeriggi, sempre puntuale alle 15.
Forse quando, a sette anni, é stato l'unico (oltre a Lily e mia madre) ad assaggiare uno dei miei biscotti al limone durante la giornata 'Cucina qualcosa per qualcuno' a scuola. Forse quell'altra volta in cui mi ha detto 'Stai bene, Soph' quando ho messo l'apparecchio ai denti e tutti i miei compagni non la smettevano di ridere.
Forse, forse, forse... tanti forse. Come se significassero qualcosa. Ciò che conta, ciò che è vero e sicuro e tangibile, é il mio amore per lui. Quando è nato, o come, non ha importanza e non cambia il fatto che il mio cuore batte sempre più veloce quando lui gli é vicino.
Con la testa tra le nuvole e braccia strette attorno alla busta della spesa, cammino fino alla fermata della metro. Quando scendo a Brooklyn, il cielo si é ingrigito oscurando la luce del sole. Per fortuna riesco ad arrivare a casa prima che si metta a piovere, una pioggia fitta e umida e grossa e pesante.
Mi scrollo di dosso la giacca, mi lego i capelli in uno chignon senza forma e conservo ciò che ho comprato. Accendo le lucine dell'albero e anche quelle sopra al caminetto. Persino una giornata uggiosa può migliorare con la giusta atmosfera.
Metto in sottofondo un film e mi infilo nella doccia. Lascio che l'acqua bollente e fumosa scacci via i pensieri. Il tempo si cristallizza, come mi succede spesso quando lo dedico a me stessa, e l'orario del telefono segna già le 14:37. Mi preparo al volo un uovo, l'insalata e taglio qualche carota.
Sto quasi per addormentarmi sul divano, un sonnellino pomeridiano per ristabilire le energie, quando la suoneria — sempre al massimo — del mio telefono annuncia un messaggio.
Sono tentata di ignorarlo, di sicuro é Lily oppure mia madre, ma per una causa di forza maggiore allungo il braccio sul tavolino.
'Hey Soph... Lily mi ha dato l'ordine di mettere le decorazioni di Natale, ma non so proprio da dove iniziare. Ti va di aiutarmi, magari domani, con calma?
— Alex'
Rileggo il messaggio almeno venti volte. Forse ha sbagliato contatto: no, impossibile perché ha specificato il mio nome. Il messaggio è chiaramente indirizzato a me.
Faccio qualche respiro profondo per calmarmi, ormai consapevole di non riuscire più a dormire e gli rispondo.
'Certo, passo da te domani'.
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