Resta! Ti prego resta!

Alek

Parvero interminabili, i vicoli deserti, tra i quali vagabondai per imprecisato tempo, in cerca di un riparo sicuro dalla cruenta e irascibile pioggia abbattutasi sul mio corpo privo di protezione, fin quando non mi decisi di ripararmi sotto una tettoia di un bar, forse uno qualunque, o forse uno di quelli che già conoscevo. Diverse volte, tra un passo e l'altro mi domandavo, se ciò che stavo facendo fosse realmente coretto, nessuna risposta, però, a parte le voci graffiate che, in coro, si puntarono nel sostenere che, la seguente fosse la via decisiva da percorrere per il raggiungimento dell'indefinita meta a cui, parevo andare incontro da tutta la vita, di cui però so nulla al riguardo.

Lo ripeterono molte volte, perpetuandosi tra miei pensieri anche e soprattutto tra i più profondi, e facendo leva su quelle che furono le mie debolezze, finché sfinito, trascinai affaticato i piedi avanti, ancora e ancora, dando via così al loro avvio e scacciando ogni precedente ripensamento finendo persino per ripudiare, la vana idea di rispondere alle loro continue chiamate, che non smisero minuto per minuto di rammentarmi cosa avessi appena fatto, o di prendere un taxi per ritornare a casa, chiedere scusa e urlare loro salvezza dalla bufera, ma non lo feci. Continuai a sentire, i loro sussurri, rimbombare tra i miei timpani e il mio cervello, come se rappresentassero l'unico universo a cui avrei dovuto dare ascolto per ritrovare la via di me stesso in mezzo a quel tunnel infinito di buio, ed evitare così facendo la totale eruzione del vulcano, paragonandola all'esplosione di una vera e propria bomba.

"Resisti!" mi sussurrai diligentemente sbattendo i denti e stringendo i pugni talmente forte che vidi le nocche divenire bianche e vedere nella mia mente le unghie ferire il palmo delle mani. Non potevo concedermi alcun rallentamento o qualsiasi altra forma di riposo o distrazione, di cui oppostamente il mio corpo necessitava,  ma avrei dovuto reggere ancora un po' e andare avanti verso la meta;

"Non fermarti!" Continuavo a ripetermi, chissà da quanto tempo, ormai perdendo il conto delle volte, proseguendo a passo spedito ed evitare di fallire per l'ennesima volta accasciandomi per terra privo di forze e smettere di lottare, liberandomi così una volta per tutte del peso incessante che fino ad allora ero costretto a sopportare e trasportare sulla e nella mia anima.
Non l'avrei permesso stavolta, NON DI NUOVO, non adesso che l'orizzonte si mostrò finalmente e talmente vicino che mi sembrava  di sfiorarlo con le dita. Mi concentro, ora solo sul respiro, irregolare dove, dalle labbra fuoriuscì affaticato, smettendo di rimuginare sulla decisione presa e concentrandomi così sul numero dei passi mancanti per il raggiungimento della mia tappa, prima che la notte, sorgesse vivida colorando il cielo di tenebre e mi troncasse la strada, un'altra volta, ancora. Le luci del tramonto gradualmente si affievolirono, sempre di più, il cielo venne coperto da un enorme mantello scuro, e quasi impercettibile il cambiamento, che lasciò posto alle stelle di splendere, tra l'immensità del buio di quella, che parve una tarda sera come le altre.

Mi resi conto solo in quel momento, per fortuna o purtroppo troppo tardi, che all'interno della mia esistenza, invece non vi fu più niente di regolare, da quel momento a seguire, se non rovi pronti ad assalire ogni granello di positività soffocando così la speranza nata da un minuscolo punto di luce, e aumentando il decorso del dolore, trasformandosi sempre più in una pozza di buio e scuro come pece nel petrolio. Sull'asfalto, fu possibile udire lo scricchiolio delle mie scarpe, andare incontro alla ghiaia e alle pozzanghere d'acqua formatesi in pochissimo tempo e martoriate da altre gocce d'acqua in discesa libera, calpestate da esse. Nel riposarmi, mi piegai su un ginocchio mentre mio volto, chino per terra osservai l'erbetta tra un pezzo e l'altro di asfalto sollevato, pestata e le impronte disegnate sul percorso già intrapreso tralasciate al di sopra del terriccio che maggiormente venne inondato dalla tempesta ancora in corso precipitata giù dal cielo piangente che aveva ormai invaso ogni millimetro del mio corpo gocciolante di acqua salata e fremente di gelo.

Nonostante le gambe supplicassero pietà, e poiché da un momento all'altro sarebbero ben presto cedute, non mi fermai e proseguii per la mia strada, sperando solo di rammentarne la via e non smarrirmi tra le deserte strade di Milano.
Silenzio. Una totale assenza di suono calò, per i sentieri notturni, illuminati solo dallo splendore lunare che nel cielo emanava desiderio a differenza dell'angusto capanno all'interno del quale inginocchiato per terra giacqui inerme, strisciando sulle piastrelle ricoperte da un alto tasso di polvere a causa della poca attività al suo interno. Completamente isolato dall'universo osservai, come fossi un'altra persona me stesso, o il mio cuore sanguinare a ogni chiamata ignorata, ripensando ancora una volta se per tutto ciò valesse realmente la pena rischiare o se diversamente sarei dovuto ritornare indietro, anche se consapevole di essere, per loro, solo un peso. Il corpo tremante dal gelo, si rannicchiò su sé stesso in cerca di calore, nonostante la notte era sempre lì in agguato, lo sguardo vagò terrorizzato tra i vari scatoloni colmi di regali dei tour ancora da scartare che circondarono quel vecchio garage nascosto agli occhi di tutti.

Di una cosa fui sicuro in mezzo a tutta quell'insicurezza e confusione totale: nessuno era a conoscenza di quel posto eccetto me, nessuno mi avrebbe trovato lì dentro, letteralmente isolato dal mondo, a meno che non avessi deciso di arrendermi, dicendo quello che da sempre mi attanagliava le viscere, ma non volevo, non potevo! Una volta giunto dinanzi la porta, inserii le chiavi nella toppa e dopo averla chiusa alle mie spalle, rimasi come un sasso, fermo, finalmente al sicuro, ma non feci nulla, immobile, disteso poco dopo, per terra portai le ginocchia al petto e mi dondolai su me stesso tentando di calmare i singhiozzii che mi scossero fortemente il corpo.
Non feci più caso al dolore, provato alle gambe, per l'eclatante sforzo fisico compiuto, o agli infiniti chilometri percorsi che parvero non terminare mai, non possedere una reale meta se non all'interno della mia testa. Mi misi coi gomiti appoggiati al pavimento lurido e la schiena quasi a contatto col muro lasciai le lacrime libere di invadermi il viso gli occhi bruciare e riflettere i lividi percorrermi le braccia nascoste sotto le maniche della felpa incollata alla pelle appiccicata dal sangue che noncurante lasciai colare, nonostante il dolore atroce non feci alcun movimento, anche impercettibile.

Pregai che le immagini visibili dinanzi i miei occhi, fossero tutte frutto della mia immaginazione contorta, merito della mente stanca che non si verificarono realmente. Per una volta desiderai che lo scenario specchiato dal mio sguardo assente, distolto per incastonarsi nel bianco delle pareti, fosse uno dei rari mal compensi della mia psiche in grado di ingannarmi col la sua astuzia e farmi credere cose, che in realtà non sono esistite mai. Unicamente frutto della mia pazzia interiore per troppi anni tenuta a tacere e compressa, nemmeno fosse un bicchiere d'acqua stracolme.
Mi augurai che una volta pizzicata la pelle avrei sentito, quel lancinante dolore pervadermi le carni permettendomi cosí di riconnettermi con la realtà circostante. Farmi realizzare di essere un pallino nero ancora esistente sulla grande tela coperta da colori; che aperti gli occhi avrei compreso che fosse solo un brutto incubo ormai dissolto tra i brutti ricordi e non la crudele verità, ma così non fù.

Con la mano tremante come una foglia in preda al tornado asciugai, forse, anche l'ultima lacrima dal viso, che cadde sul terriccio umido e unirsi a una pozzanghera di fango, prima di scorgere il decorso delle altre consumate da una foce, più bisognosa di versare, rispetto al mio animo con un dolore al petto inferiore rispetto a chi la vita non sarebbe più stato in grado di viverla; un'ombra che non avrebbe più potuto osservare la famiglia evolversi al suo fianco, che non sarebbe più stata in grado di esplorare le mille sfumature del cielo mutare a seconda delle ore, o la pioggia rinfrangere contro la terra e dopo aver terminato il suo percorso lasciar spazio ai mille colori dell'arcobaleno di espandersi. Fu la sua ultima lacrima quella che vidi tracciarle il volto, la stessa che disperato raccolsi tra le dita e lasciai evaporare sul palmo della mano, mentre con l'altro le accarezzai il fine viso macchiato da ininterrotte gocce di sangue che in fuga lasciarono il suo corpo, vitalità che non sarebbe più scorsa tra le sue vene.

Inerte osservai come lentamente le palpebre le si socchiusero fino a non vedere più niente se non oscurità, privata dai miei probabili errori di osservare un'ultima volta il mondo circostante e la mia presenza inginocchiata al suo fianco restargli accanto e piangere per la sua morte, per il fardello che a vita avrei portato, per quell'esistenza a lei rubata che nessuno mai sarebbe stato in grado di ripagare.

"Resta! Ti prego resta!" le sussurrai disperato e in preda al panico. Fu però troppo tardi per rimediare, lei non fu più in grado di percepire la mia flebile voce tremare e richiamare il suo nome fino a perdere il fiato. Non avrei voluto crederci, lei non se n'era realmente andata, ben presto si sarebbe svegliata e sarebbe andata avanti per la sua via, i soccorsi sarebbero arrivati in tempo e le avrebbero salvato la vita, si sarebbe ripresa. Le strinsi forte le mani tra le mie, portandomele poi al petto, sperando perlomeno percepisse la mia presenza gettata accanto alla sua e capisse di non essere sola, che io sarei rimasto al suo fianco finché mi sarebbe stato possibile, benché per lei fossi solo un estraneo, forse, non sarei andato via.

"Andrà tutto bene, sì, tutto bene" non smisi di ripetere piangendo a dirotto; quando morì e io rimasi piangente a guadare la morte portare via la sua anima altrove da questo mondo, lì, in un luogo accessibile solo a chi il cielo non l'avrebbe più rivisto.

"Mi dispiace" singhiozzai più forte, ancora non capacitandomi dell'accaduto, rannicchiandomi accanto al suo corpo, vidi la pioggia rigarmi la pelle; forse furono lacrime, le sue di lacrime. Sbarrai agitato gli occhi, alzai il capo e preda del terrore lo sguardo vacillò da uno spigolo della stanza all'altro, costatando poi di trovarmi ancora accasciato per terra all'interno del vecchio capanno, ovvero la casa dove ha da sempre vissuto. Fu solo un incubo quello che ho appena vissuto, solo un brutto sogno, allora perché mi pare così reale? Gocce d'acqua scorsero rapide e fugaci sulle mie gote chine verso il pavimento. Il cuore parve battere talmente forte in quel momento che diede l'impressione di voler trapassare il petto, evadere dalla gabbia toracica e non fare mai più ritorno. I brividi si incollarono alle braccia in un modo così intenso da poterli paragonare a un corsetto stringermi le carni.
La fronte coperta dai riccioli ribelli fu madida di sudore, così come il resto del corpo che molto probabilmente sarebbe andato incontro a una brutta influenza se al più presto non mi fossi riparato da quel gelo; niente in confronto al dolore portato dentro, quello che nessuno vide, eccetto me e le voci, che per gran parte contribuirono alla sua espansione.

Rimasi immobile, oscillando cosparso da fremiti, non essendo il grado di dare fine al decorso delle lacrime di scivolare sul il viso. Portai le mani tra i riccioli dei capelli ancora fradici d'acqua e iniziai a torturarli, strapparli, tirarli e non dargli tregua.
Mi morsi il labbro inferiore, talmente forte da non sentirlo più, vedere e sentire lo scorrere del sangue. Avrei voluto sentire dolore, la pelle bruciare, il corpo contorcersi, quello che però fui in grado di percepire fu solo il vuoto senza tregua continuare a logorarmi dentro. Piccole gocce di sangue colarono sul mento mentre le mani si appoggiarono sul labbro spaccato e continuarono a strattonarlo; volevano sentirlo tremare, ardere, chiedere pietà. E mentre dalla tempesta vennero a galla lame pronte a trafiggermi se non sarei evaso in tempo. Rimasi fermo, mancante di volontà di continuare a lottare. A quale fine? Non ebbi il coraggio di accendere la luce, o di gridare aiuto, sarebbe stato tutto fiacco, anzi, è tutto fiacco e spento. Violenti tuoni si scagliarono dal cielo contro il pavimento di brecciolina e pozzanghere, soffocando il rumore del mio respiro fatto così fiacco e incutendo in me un enorme stato di panico; desiderai averlo al mio fianco, purché fossi io quello a scappare, avrei voluto non essere più solo.

Coi gomiti appoggiati sul davanzale della finestra rimasi a fissare un punto indefinito del viale nascosto all'interno del quale era situata l'abitazione, se così è possibile chiamarla, udendo le voci dei gufi riecheggiare nel cielo insieme al rumore della pioggia. Trascorsi l'intera notte seduto a gambe incrociate sul pavimento, senza muovermi di un solo millimetro illeso a fissare lo schermo del cellulare distrutto dalle troppe cadute che non smise mai di squillare, chiamate alle quali non ebbi minimamente il coraggio di rispondere. Mi sentii sporco, orribile per quello che stessi facendo, le voci invece ripetevano che non avrei dovuto preoccuparmene, che gli avrei fatto solo un favore, che avrei dovuto unicamente pensare alla punizione da auto infliggermi per la pena commessa. Il decorso delle ore successive lo trascorsi in egual modo, a torturarmi le pellicine delle dita finché la fioca luce della mattina non venne riflessa dal vetro della finestra. Lo zaino in precedenza riposto sulle spalle rimase per tutta la notte lì dove lo posizionai, come se da un momento all'altro avrei sentito l'esigenza di scappare, lo tolsi solo un attimo, quando dal suo interno estrassi una felpa asciutta e me la avvolsi attorno al corpo minuto, troppo infreddolito per poter togliere i vestiti bagnati e mettere il ricambio asciutto così da diminuire il freddo percepito.

Purché avessi la gola secca mi rifiutai di bere dell'acqua, volevo soffrire da solo e in silenzio, sarebbe stata quella la mia punizione. Lo stomaco non brontolava nemmeno, al contrario avrebbe voluto rigettare ogni cosa al suo interno, esso però fu completamente vuoto. Debole rimasi steso per terra per tutto il giorno, privo di forze, non essendo più in grado di alzarmi in piedi, visionando il soffitto bianco al di sopra dei miei occhi e osservando come enormi fiamme cominciarono gradualmente a circondarmi, non lasciarmi via d'uscita dall'angolino nel quale mi rannicchiai. Le vidi bruciare, venirmi incontro, sfiorarmi la pelle ma non far male, poiché quello da me visto non esisteva, non era reale. Apro gli occhi, sperando di vedere la luce, ma mi accontentai di vedere in quel momento, quella flebile luce venire da giù la strada, ormai pensando l'ora sicuramente era notte inoltrata, con le gambe aperte e divise comodamente tra una metà del letto e l'altra, e le braccia che sostengono tremanti il busto e il resto della testa, forse ormai quasi totalmente svuotata.

Ma, solo dopo qualche interminabile minuto mi accorgo di avere qualche timido brivido scorrermi le spalle e la schiena, e solo allora mi rendo conto delle lenzuola scomparse dalla mia vista, o meglio scomparse dal mio contatto, ma non è stato il primo pensiero ad avvolgermi la testa e sorvolare timidamente le mie membra, anzi, sarebbe stato l'ultimo o forse anche inesistente se non fosse stato per il mio stato fisico. Ma quasi semi-cosciente mi stiro o meglio asciugo il viso con la mano destra, con le dita che seguono, quasi aiutate dalla mia muscolare, i miei lineamenti, ormai valorizzati dalla piccola e quasi inesistente ricrescita di peluria sul mento e sopra le labbra. Nel frattempo mi domando se tutto ciò che ho appena visto e quasi sicuramente urlato, data la gola secca, non fosse stato tutto frutto della mia infinita immaginazione, anche se, da quel che so, i sogni non sono altro che la realizzazione immaginaria dei nostri desideri, chiamati comunemente come sogni.

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