Quarta Prova (II parte)

parole: 3090

Un soffio d'aria mi scostò appena i lunghi capelli dorati che ricadevano sulle spalle fino ad arrivare alla fine del busto, accarezzando la vestaglia bianca che svolazzava leggermente. Le mie iridi verdi si mossero affannosamente all'interno degli occhi, cercando di distinguere qualche forma in quel luogo oscuro. Mossi qualche passo in avanti, procedendo a tentoni. Le braccia distese lungo i fianchi. Il tessuto candido sfiorava dolcemente il mio corpo nudo e mi accompagnava, mi esortava ad avanzare. E io lo ascoltavo, come ogni sera. Come ogni volta in cui la luce se ne andava e io continuavo imperterrita ad avanzare lungo la mia strada. Passo dopo passo. Contando i sospiri. Sospiri di sollievo, perché appoggiavo il piede e sentivo il solido. Sentivo il suolo sotto di me. Ero stabile.

Laggiù. Verso il fondo vedevo quella maledetta luce brillare. Chissà quante altre persone erano rinchiuse lì dentro, insieme a me. E io non potevo vederle. O sentirle. Non potevo chieder aiuto, perché ci avevo già provato.

Le prime volte era stato terribile. Le avevo passate rannicchiata nello stesso angolino, piangendo e urlando. Gridavo aiuto, ma nessuno mi sentiva. Indietro non potevo andare, o le fiamme mi avrebbero divorato. Potevo soltanto andare avanti. Andare avanti in quel purgatorio a metà tra la luce e l'oscurità. In quel luogo dove tutto e niente erano la stessa cosa. Il luogo dove tutti erano uguali, senza distinzioni, sotto l'unica luce e l'unico buio che coesistevano in quel posto abbandonato da Dio. E ogni giorno dovevo avanzare per raggiungere quel puntino all'orizzonte, facendo attenzione a non cadere nei buchi del pavimento, altrimenti sarei tornata all'inizio.

Ma la cosa peggiore giungeva alla sera. Quando tutto sembrava calmarsi e l'oscurità tornava a regnare sulla Terra, ero costretta a rivivere le tre ore che avevano preceduto la mia entrata lì dentro. Le tre ore peggiori della mia vita.

Le tre ore che avevano preceduto la mia morte.

195...

196...

197...

Contai i sospiri finché la pallida punta dei miei piedi non fu più distinguibile, e allora mi fermai. Contai i sospiri fino a quando un'unica macchia nera mi circondava, e allora l'incubo ricominciava.

Mi ritrovai per l'ennesima volta avvolta nelle lenzuola lilla di camera mia, in quella notte di Primavera.

La finestra spalancata, il letto disfatto e la luna che ci guardava dall'alto del cielo. Una leggera brezza entrava dall'imposta aperta e accarezzava i nostri corpi nudi, avvinghiati in un abbraccio d'amore. La sveglia era appena suonata e segnava le 23:00. Mio marito sarebbe tornato a casa di lì a poco, così liquidai Peter e tornai a letto. Risistemai le coperte, agitata, e mi rimisi a letto, indossando la prima vestaglia che mi era capitata tra le mani. Nella mente ancora quelle braccia forti, quel sorriso dolce e calmo e quei capelli brizzolati che avevo amato accarezzare. Ma quella notte avevo commesso un errore enorme. Avevo tradito mio marito, per la prima volta. Una fitta allo stomaco mi mutò il volto in una smorfia di dolore. Alcune lacrime mi scesero lungo le guance, ma le asciugai con un rapido gesto della mano. Mi rannicchiai, portando le ginocchia al mento e avvicinando le gambe al costato. Infossai il volto nell'incavo delle gambe e singhiozzai, smettendo di colpo appena sentii la chiave girare nel portone di casa, aprendolo con un cigolio. Dalla fessura della porta lasciata socchiusa vidi Thomas entrare in casa, appoggiare la borsa sul pavimento e togliersi la giacca. Si sfilò le scarpe senza slacciarle e si sbottonò i primi bottoni della divisa da medico, leggermente sporca di sangue, sfilandosela poi come se fosse una maglietta e appoggiandola alla sedia più vicina. Io mi stesi a letto, facendo finta di dormire e guardando fuori dalla finestra il cielo stellato di quella sera. Sorridente come al solito, lui entrò nella stanza. Vedendomi coricata non accese la luce e si cambiò, stendendosi accanto a me e abbracciandomi da dietro. Mi baciò sul collo e io rabbrividii a quel tocco umido sulla mia pelle. Rabbrividii a quel tocco che per anni era stato familiare ma che ora sentivo più distante. E in quel sorriso bonario avevo rivisto il mio tradimento. Avevo rivisto l'amore che lui mi aveva offerto e che io avevo, anni fa, temporaneamente accettato, cestinandolo qualche attimo prima che lui facesse ritorno a casa. Un'ultima lacrima mi appannò la vista, prima di cadere vittima del sonno.

-Antea...-

Sbadigliai, socchiudendo gli occhi. Rabbrividii, esposta alla brezza leggera che accarezzava il prato dietro di me.

-Antea...-

Aprii gli occhi. Davanti a me si stagliavano il cielo, con le sue stelle che mi guardavano dall'alto e la luna chiara e alta che si specchiava sulla distesa d'acqua, e il mare, calmo, dove giusto il pelo d'acqua veniva mosso da quel vento lieve, separati da una linea indefinita. Davanti ai miei piedi soltanto pochi centimetri di terra mi separavano dalla fine della scogliera, proiettandomi in uno strapiombo di alcune decine di metri, alla cui fine le onde si infrangevano dolcemente sulla parete rocciosa.

E io ero lì.

Letteralmente in bilico tra la vita e la morte.

Il mio sonnambulismo era peggiorato negli ultimi mesi e in quel momento mi ero ritrovata lì. Ma il mio cervello alla fine sapeva sempre il perché andare in un determinato posto. Come quando mi ero svegliata in mezzo alla strada, nuda, di fronte al negozio di elettrodomestici con il resto in mano che mi ero dimenticata di correggere.

Riflettei a lungo. Spiegai le braccia, inspirando a pieni polmoni l'aria fresca della sera e sentendola entrarmi dentro. I capelli disciolti svolazzavano qua e là, accarezzandomi i seni coperti dal velo di stoffa. Le orecchie leggermente tappate da quel rumore sordo di vento e acqua e il cuore che mi sussurrava tra un battito e l'altro il mio peccato. Me lo faceva entrare in testa e rimbombava per tutto il corpo, come un eco in una caverna buia. E allora mi convinsi che mio marito maritava una moglie migliore. Meritava qualcuno che lo amasse davvero e che si prendesse cura di lui, che gli augurasse buona fortuna per il lavoro, che lo aspettasse alla sera ogni volta che tornava a casa tardi e che gli preparasse la cena indipendentemente da che ore siano. Meritava qualcuno che lo guardasse con occhi diversi e gli passasse la mano dolcemente tra i suoi ricci scuri che gli riempivano la nuca, facendolo sentire a casa.

Io avevo provato ad esserlo. Davvero. Ma non aveva funzionato. Il suo amore non era corrisposto. E il solo pensiero che lui avesse sprecato dieci anni della sua vita a stare con una donna che non lo apprezzava davvero, che si limitava a volergli bene come un amico e che era sempre così fredda e distaccata, mi faceva stare male. Mi faceva soffrire, più di quanto potesse far soffrire lui. Quanto sarebbe bello poter amare tutti, ma non è possibile. Non è possibile dare il proprio amore a chi vuoi, a meno che lui non dia il suo a te. E non appena mi ero sentita amata ero corsa tra le sue braccia come una bambina corre dal suo papà. Ma non basta sentirsi amati, sentirsi finalmente importanti per qualcuno. E io lo avevo capito troppo tardi.

Come avevo detto, il corpo sa quello che vuole. Perciò non so se sia stato un caso, un incidente o cos'altro. So solo che il terreno aveva iniziato a mancare sotto i miei piedi. E avevo iniziato a precipitare, accompagnata dal vento che mi sferzava il volto e dalla parete di roccia bianca. Un attimo prima dell'impatto chiusi gli occhi. Il corpo adesso sembrava più leggero. Sembrava diventato una piuma. E mancò poco, prima che anche i miei pensieri si spegnessero, sprofondando insieme al mio corpo nelle profondità del mare.

Aprii gli occhi. Il respiro affannato e il cuore a mille. Ero sdraiata per terra, a pochi metri da una voragine. Mi alzai, guardando storto quel buco del pavimento. La luce iniziò a rischiarare un poco quel posto e ricominciai presto a camminare. Avevo perso il conto del tempo che avevo passato lì dentro. I giorni sembravano susseguirsi all'infinito e ogni sera la stessa storia. Iniziai a pensare che forse sarebbe stato quello il mio posto per tutta la vita, o meglio, per tutta la morte.

Camminai fino allo stremo per tutto il tempo. Finché il buio non tornò a dominare tutto quel mondo. E allora sentii le gambe farsi molli, la vista che si offuscava e il rumore del mio corpo che cadeva al suolo. Poi più nulla, ancora.

Aprii gli occhi, lentamente. Ero di nuovo lì, in quelle lenzuola color lilla dove era avvenuto il tradimento. Dove l'atto era stato consumato in un misto di gemiti e sudore, macchiando il mio cuore di una colpa che non mi sarei mai perdonata. Come ogni volta liquidai Peter e sistemai la stanza, raggomitolandomi sul letto e facendo finta di dormire. La luna mi illuminava il volto dalla finestra aperta, accarezzandomi la testa con le sue braccia di vento come per consolarmi. Chissà a quanti tradimenti era stata testimone. E chissà cosa stava pensando del mio e di quello di molte altre persone in quel momento. Forse avrebbe fatto una faccia disgustata, forse no. Sta di fatto che me ne vergognavo, e quel cielo stellato mi faceva sentire così piccola, così insignificante che iniziai a singhiozzare. Come ogni sera, quel momento era un incrocio di emozioni contrastanti, che sfociavano in un'unica autostrada che portava al pianto. Sentii la porta aprirsi perciò smisi all'istante di piangere, asciugandomi gli occhi umidi con la manica della vestaglia. Sbirciai dalla porta socchiusa Thomas che rientrava in casa e mi tornò il senso di colpa che mi aveva attanagliato poco prima e tutte le altre volte precedenti. Lo vidi togliersi la giacca stancamente e con movimenti lenti. Il volto assonnato di chi non vede l'ora di andare a letto. Si tolse il camice bianco macchiato un po' di sangue sbottonando i primi bottoni e sfilandoselo come se fosse una maglietta, poi entrò in camera. Vedendo che dormivo non accese la luce, perciò si cambiò al buio e si sistemò sotto le coperte, abbracciandomi da dietro. Io pian piano chiusi gli occhi, cullata dalla luce lunare che mi illuminava il volto. Questa volta però voltai lo sguardo verso sinistra e intravidi una sagoma buia, con un sorriso bianchissimo. Ma era troppo tardi, perché il sonno mi aveva già catturata.

- Antea...-

Sbadigliai. Socchiusi gli occhi e sentii un alito di vento sfiorarmi la pelle, smuovendo i capelli dal loro solito posto.

-Antea...-

La vestaglia bianca svolazzava al ritmo di quella danza muta a cui il cielo stellato stava assistendo. Il mare, calmo, si infrangeva sulla roccia della scogliera in piccole onde che ritornavano indietro in una dolce risacca. Il cielo mi guardava e io guardavo lui. Aprii le braccia e riflettei, come ogni volta. Ma questa volta i pensieri erano rivolti a quell'ombra, a quel sorriso e a chi appartenessero, e non più al senso di pentimento. L'unico modo per capirci qualcosa però, conclusi, sarebbe stato tornare lì. Andarci un'altra volta.

Il terreno cedette di nuovo. Accettai il vento che mi tirava contro e chiusi gli occhi prima del freddo impatto con l'acqua, abbandonando il mio corpo nelle profondità del mare.

Mi risvegliai di nuovo su quel freddo pavimento nero, raggomitolata e tremante. Diedi un colpo di tosse e mi ritirai su. Feci per pulirmi la vestaglia quando notai una scritta sul pavimento. Una scritta rossa su quel pavimento nero stava venendo pian piano illuminata dalla luce. Quando finalmente si fece visibile.

"Eyes"

Occhi. Sul pavimento c'era soltanto quella parola, scritta con una calligrafia elementare. Mi accucciai, sfiorando una delle lettere ma appena lo feci la scritta divenne polvere e venne portata via da un soffio di vento. Mi rialzai a fatica e ricominciai a camminare, nella mente quella parola.

Cosa mai poteva significare? Gli unici occhi che potevo vedere nel ricordo erano quelli di Thomas. L'ombra sembrava non averli e lì intorno non c'era niente perché io potessi vedere i miei. Però, ora che ci pensavo, gli occhi erano stati l'unica cosa che ero stata in grado di muovere. Potevo indirizzare lo sguardo dove preferivo.

Mi ripromisi che quella sera avrei osservato tutto molto attentamente, nei minimi particolari. Avrei dovuto scoprire qualcosa, perché non avrei mai potuto rimanere in quel luogo per sempre. Prima o poi sarei impazzita. Mi accarezzai una ciocca di capelli e la avvolsi sul dito a mo' di boccolo. Continuai a rigirarmi i capelli tra le dita mentre muovevo passi distratti avanti per quel sentiero scuro. I pensieri affollavano la mia mente, tanto che scivolai in uno dei buchi che costellavano il percorso. Mi aggrappai al bordo con una mano ma tutto iniziò a tremare. Mi diedi lo slancio con il braccio libero e mi aggrappai anche con quello al bordo del baratro. Strinsi i denti e con un enorme sforzo mi riportai sul sentiero, rimanendo distesa a terra, tremante per lo spavento. Gli occhi sbarrati e le labbra bianche. La vestaglia si era strappata sul lato, mostrando una parte della coscia, e si era leggermente lacerata sulla manica sinistra, ma non me ne importava in quel momento. Non ero caduta. Era quello l'importante. Un'altra scossa fece tremare tutto, così mi aggrappai al pavimento il più possibile e rimasi ferma, immobile. Attesi che tutto si fosse calmato e mi alzai. Una lacrima mi rigò la guancia ma con un gesto deciso la scacciai. Il viso deciso in un'espressione di rabbia e frustrazione. I pugni serrati e le gambe che avanzavano imperterrite, questa volta attente a dove poggiavano i piedi.

La luce stava per andare via di nuovo, così mi preparai. Mi sdraiai su un fianco e rabbrividii al tocco freddo di quel terreno. Chiusi gli occhi e subito il suolo freddo scomparve, trasformandosi in un comodo materasso coperto da delle lenzuola color lilla. Stavo seriamente iniziando ad odiarle. Aprii gli occhi e mi guardai intorno. La luna, al solito posto, illuminava la stanza dalla finestra aperta. Mossi lo sguardo intorno e cercai qualcosa, qualunque cosa. La sedia a dondolo in legno di mia nonna era immobile e sopra di essa i vestiti di Peter ne inclinavano leggermente lo schienale all'indietro. L'orologio a cucù segnava le 22:59. Ancora un minuto e la sveglia sarebbe suonata. Attesi con impazienza, guardando le lancette girare e scandire i secondi.

57

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23.00

Il cucù, con un cigolo, uscì fuori dalla finestrella e non cantò, come al solito. Pochi anni prima infatti avevamo concordato, io e Thomas, di togliere la voce a quell'insopportabile uccellino. L'anta dell'armadio era leggermente aperta e qualche maglione spuntava da uno dei ripiani. Spostai lo sguardo su Peter, ancora addormentato, avvinghiato a me. Come ogni sera lo liquidai, una volta suonata la sveglia, e risistemai la stanza. Piegai per bene le lenzuola e mi ci infilai sotto. Purtroppo in quel momento del ricordo iniziai a piangere, cosicché non riuscii più a distinguere bene quello che c'era intorno a me. Non passò molto tempo che sentii la porta aprirsi. La luce dell'ingresso che Thomas accese mi abbagliò leggermente ma questa volta, invece di guardare lui che come ogni sera sistemava i suoi abiti, diressi lo sguardo verso l'interno della stanza. Non avevo molto tempo per guardare dato che poi lui sarebbe entrato e si sarebbe messo a dormire accanto a me. Spostai lo sguardo da un lato all'altro della stanza ma niente, nessuno nei paraggi.

O...

L'anta dell'armadio si mosse appena e, prima che Thomas entrasse, da questo ne uscì la stessa sagoma scura della sera prima. Cercai i suoi occhi ma sembrava non ne avesse, invece il suo sorriso era sempre dispiegato in un'inquietante ghigno. Rivolse il volto verso di me e indicò con l'indice puntato verso Thomas che stava entrando nella stanza.

Feci finta di dormire e lui mi abbracciò da dietro, addormentandosi. Le sue mani erano ruvide come al solito e tra le pieghe riuscii ad intravedere del sangue, troppo colorito per essere stato di qualche ora fa.

Ogni particolare era importante. Era fondamentale. Finché gli occhi non mi si chiusero di nuovo per il sonno.

-Antea...-

Aprii gli occhi. Lo sguardo scrutava tutto attorno, ma non trovò niente di particolare. Lo stesso mare, lo stesso cielo, la stessa luna e le stesse stelle. Il vento che mi spostava i capelli e...

-Antea...-

Laggiù. Sul busto. Non la avevo vista prima ma lì, proprio sotto l'attaccatura dei seni, una mano mi cingeva la vita. E quando la mano si allontanò dal mio busto, sentii cedermi il terreno sotto i piedi. Mentre cadevo guardai il mare. Guardai il riflesso della luna sul pelo d'acqua e allora mi venne un'idea. Guardai in basso e questa volta non chiusi gli occhi. Li lasciai aperti. E poco prima che toccassi il pelo d'acqua riuscii a leggere una parola riflessa nei miei occhi spalancati: "Thomas"

Mi risvegliai di soprassalto. Non avevo toccato l'acqua eppure le visione era finita. Adesso era tutto chiaro. Mi alzai e comminai velocemente verso la luce. Poi iniziai a correre. E mentre correvo i buchi che percorrevano il terreno si risanavano. La mente si schiariva. Avevo capito tutto e adesso potevo finalmente finirla. Potevo urlarlo in quel vuoto di luce e buio. Potevo urlare del duplice assassino quale era mio marito.

Mentre correvo fiotti di lacrime iniziarono a sgorgarmi dagli occhi, inondandomi il volto. I piedi nudi iniziavano a bruciare a causa della corsa ma non mi fermai. Volevo urlare per Peter, che aveva commesso l'unico errore di andare a letto con me. Volevo urlare di Thomas, l'uomo che avevo tradito e che aveva tradito me in un modo ben peggiore. Volevo urlare al mondo della mia vita. Volevo urlare di tutto quello che era successo.

Corsi a perdifiato verso la luce. E finalmente si faceva più vicina. Sempre di più.

Quasi che potevo sfiorarla con la punta delle dita.

La stavo attraversando e ad un tratto mi sentivo davvero felice.

Mi sentivo libera, viva.

E prima di scomparire per sempre, lasciai in quel posto tre lacrime che mi caddero dal volto.

Una per Thomas, perché non ero riuscita ad amarlo abbastanza.

Una per Peter, perché era morto a causa del nostro amore.

E una per me, per il mio amore. Perché lui andava e veniva, senza leggi e senza coprifuochi. Che andava non appena io mi lasciavo andare a me stessa e veniva non appena qualcuno mi ricordava che non avrei dovuto farlo.

Le avrei lasciate lì, come testimonianza del mio passaggio e della mia sofferenza.

Perché non voglio dimenticare, ma perdonare.

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